di Emanuele Profumi
La guerra in Colombia ha più di cinquant’anni. Almeno quest’ultima. Perché dall’indipendenza del Paese (1819), quando Simón Bolívar riesce a strappare alla corona spagnola gli attuali Stati di Colombia, Panama, Venezuela ed Ecuador, questo vasto territorio non conosce pace. L’attuale configurazione geografica è il frutto, infatti, di una serie di guerre. Una specie di domino maledetto la porta progressivamente a “vantare” oggi un primato poco invidiabile a questa terra: ospitare l’insurrezione armata più longeva dell’America latina, rappresentata dall’Eln (Ejército de Liberación Nacional - 1962) e dalle Farc-Ep (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia/Ejército popular - 1965).
Per comprendere l’attuale processo di pace è necessario tracciare una breve cornice storica del conflitto attuale, per conoscerne la genealogia ed essere in grado di avanzare un giudizio di merito su quanto sta succedendo in questo momento nel Paese. Prima di entrare nell’attualità politica e militare della società colombiana di oggi attraverso la narrazione di questo libro, è utile orientarsi un po’ nella sua complessa storia, dividendola in quattro periodi storici, coi quali capire, tra l’altro, perché, dagli anni ’50 sino al governo di Belisario Betancur (1982-1986), lo strumento politico del processo di pace non sia mai stato usato per risolvere il conflitto armato. Al contrario di quanto, invece, ha scelto l’attuale governo del presidente Santos.
In un primo periodo (1958-1982) siamo in presenza di una vera e propria guerra civile, conosciuta nella storiografia ufficiale e nella memoria collettiva con il nome di La Violencia. Dopo aver sconvolto la Colombia per decenni, essa lascia il posto a un conflitto armato segnato dalle guerriglie comuniste. Sostenute, come nel resto del continente, dalla vittoria dell’insurrezione cubana, le diverse guerriglie colombiane (Eln/Farc/Epl-Ejército Popular de Liberación) si scontrano con l’anticomunismo frutto della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi. In questo momento il conflitto è ancora un fatto marginale, e non coinvolge la maggioranza della popolazione. Neanche tra gli anni ’60 e gli anni ’70, con l’ondata dei nuovi movimenti di contestazione al sistema capitalista, la “guerra di guerriglia” ottiene un sostegno popolare né una particolare visibilità sulla scena politica nazionale: i gruppi armati sono confinati in zone periferiche e le loro azioni non sono particolarmente efficaci. Nonostante questo, l’insurrezione armata riscuote il consenso di una parte della popolazione povera e contadina.
Davanti all’ingiustizia economica e politica di un Paese che si regge sullo stato d’eccezione permanente, in cui i diritti sociali e le libertà politiche e civili sono completamente sacrificati sull’altare della sicurezza nazionale, e dove la riforma agraria è un miraggio, molti di loro considerano i guerriglieri come una speranza. Anche per questo la figura di Camillo Torres, prete rivoluzionario, diventa un’icona nella memoria dei movimenti armati e non solo. Proprio come capita, un anno dopo la morte di Torres, a Ernesto Che Guevara, poi divenuto simbolo di liberazione in tutto il mondo. A ciò si aggiunge una nuova ondata di lotta armata: negli anni ’70 emerge una generazione di guerriglie, come quella d’ispirazione nazionalista e democratica dell’M-19, che giocheranno un ruolo importante per la nascita della nuova Repubblica, sorta dalla nuova Costituzione del ’91, la stessa in cui oggi si gioca l’ultima fase di questa storia di guerre.
In un secondo momento (1982-1996) tutte le guerriglie crescono militarmente e politicamente, imponendosi sullo Stato grazie a un’espansione territoriale senza precedenti. Tra il 1981 e il 1986, per esempio, l’Epl passa da due a dodici fronti di guerra, l’Eln da tre a dieci, e le Farc da dieci a trentuno. In questo momento storico si crea il paradosso che sta alla base dell’attuale situazione politica, sociale e militare: nascono e si consolidano le realtà del narcotraffico e dei paramilitari, entra e si radica il modello economico neoliberista, causa di altri gravi problemi sociali e ambientali. Tuttavia, allo stesso tempo, vengono sanciti dalla nuova Costituzione nuovi diritti sociali, civili e politici come, ad esempio, il riconoscimento dei diritti delle minoranze dei popoli originari. Si avvia anche la pratica dei processi di pace, considerata, finalmente, come lo strumento principale per risolvere il conflitto armato. In questo quadro contraddittorio, attraversato da spinte opposte, si consuma la tragedia della Up (Unión Patriótica), partito politico legato alle Farc-Ep, a cui è dedicata una parte della presente inchiesta.
Il terzo periodo (1996-2005) è caratterizzato da una recrudescenza del conflitto armato: tanto le guerriglie dell’Eln e delle Farc-Ep, quanto i gruppi paramilitari, ormai ampiamente diffusi nel Paese, si rafforzano e continuano a espandersi a livello sociale e militare. Il narcotraffico ha ormai consolidato la sua presenza su tutto il territorio e rappresenta un problema politico irrisolto, influenzando l’andamento e la natura dello scontro armato. L’opinione pubblica oscilla: dalla richiesta di una soluzione politica e risolutiva, passa a invocare, e poi anche ad appoggiare, l’estrema soluzione militare del conflitto armato, ossia l’eliminazione fisica e definitiva dei guerriglieri. Si sancisce così la fine dei tentativi di soluzione legati ai processi di pace.
Infine, il periodo che va dal 2005 al 2012 si distingue per una vittoria militare dello Stato colombiano sulle guerriglie che, però, non si traduce in una loro sconfitta definitiva. I governi di destra di Álvaro Uribe (2002-2010) avviano anche una negoziazione politica con i gruppi paramilitari, ormai divenuti un attore armato potente in grado di condizionare lo Stato, e non solo di combattere le guerriglie comuniste. Il processo di negoziazione porta a una loro parziale riorganizzazione. Fortemente permeati dal narcotraffico, si trasformano in Bacrim (Bandas criminales emergentes), gruppi illegali che governano e terrorizzano vaste aree colombiane.
La fine della presidenza Uribe e la vittoria di Juan Manuel Santos, suo ex ministro della difesa, sono però da inquadrare in una nuova fase, quella, appunto, dell’apertura di un ennesimo processo di pace con i gruppi guerriglieri, in primis con le Farc-Ep. Dal 4 settembre del 2012, ovvero dalla prima dichiarazione pubblica di Santos, in cui egli stesso rivela l’agenda del processo di pace, e soprattutto dal 18 ottobre dello stesso anno, quando il governo e le Farc-Ep si accordano ufficialmente su questa stessa agenda a Oslo, possiamo parlare esplicitamente della nascita di un nuovo processo di pace tra le Farc-Ep e lo Stato colombiano. L’inchiesta al centro di questo libro si occupa principalmente di sondare come e perché questa nuova prospettiva politica lascia intravedere un possibile cambiamento economico e politico in senso democratico.
Ma come si è arrivati a questa nuova apertura? Cosa potrebbe cambiare in Colombia se si realizzasse, per la prima volta, un accordo con questa “guerriglia storica”? Come sta reagendo la popolazione civile a questa novità? E perché questa volta il tentativo dovrebbe essere più efficace degli altri che lo hanno preceduto (tutti fallimentari)?
Tra il 1982 e il 2010 le Farc-Ep realizzano tre conferenze (1982, 1993, 2007) per riconfigurare la propria strategia di guerra e le loro proposte di pace. La prima volta nell’ambito del governo guidato da Belisario Betancur e la seconda sotto quello di César Gaviria (1990-1994): in entrambi i casi, i processi di pace sono un fallimento più o meno completo, a causa del prevalere della logica militare su quella politica (tanto da parte del governo e dell’esercito, quanto della guerriglia). In sostanza i processi sono pensati all’interno di una strategia militare per indebolire l’avversario e rafforzare la propria posizione. Anche sotto il governo di Ernesto Samper (1994-1998) il massimo che si riesce a fare è firmare l’Acuerdo humanitario de Remolinos del Caguán, ossia sancire la reciproca accettazione degli accordi umanitari con entrambe le “guerriglie storiche” (Eln e Farc-Ep). La crescente mobilitazione civica e popolare per la pace della seconda metà degli anni ’90, però, costringe il governo di Andrés Pastrana (1998-2002) e le Farc-Ep a sedersi nuovamente attorno a un tavolo. Nonostante si arrivi a condividere diversi tipi di accordi, anche in questa occasione, alla fine, prevale la linea della rottura militare sull’accordo politico.
È più che lecito, quindi, dubitare della nuova apertura e, per rispondere agli interrogativi appena ricordati, c’è da fare uno sforzo di comprensione che vada oltre la lettura dei giornali o degli studi accademici. Per questo ho deciso di avviare un’inchiesta politica sul presente, a metà strada tra il giornalismo e la filosofia politica. Qualcosa che si avvicini al tipo di inchiesta che ho condotto in Brasile qualche anno fa.
Quest’ultima considerazione e le domande che l’hanno suscitata, mi spingono così a partire nel 2013 per la Colombia. Viaggio per un mese e mezzo, tra la fine di luglio e i primi di settembre, in alcuni dei luoghi simbolo della guerra e del riscatto popolare dalla barbarie quotidiana che il conflitto impone alla maggioranza della popolazione. Lo faccio prima di tutto per capire cosa sta succedendo, ma anche per comprendere e valutare la portata del cambiamento di questo nuovo processo di pace, evento storico particolarmente rilevante. Viaggio per superare i tabù dell’immaginario collettivo italiano che, in questo caso, dipingono la Colombia come il “Paese della cocaina” o “di Pablo Escobar”.
Quando comincio a parlare del viaggio, alcuni mesi prima della partenza, la domanda che mi viene rivolta è quasi sempre la stessa: «La guerra in Colombia? C’è la guerra in Colombia?». Gli stessi colombiani incontrati all’estero, tra Parigi, Roma e Barcellona, le tre città dove abito da anni, mi assicurano tra lo stupore e il risentimento che mi sto sbagliando, che non esiste alcuna guerra nel loro Paese. Esistono solo alcuni gruppi criminali, delle bande terroristiche, ma niente di più.
Chi mi prende sul serio, invece, reagisce nei modi più diversi. Simone, uno dei miei amici storici, ironizza sul fatto che non è carino da parte mia farmi rapire in Colombia proprio nel momento in cui lui e altri amici e parenti sono in vacanza. Un altro amico a cui confido che sto cercando un sostegno istituzionale, Piero, mi accompagna da un prete cattolico, un suo amico fidato, perché la “grande madre chiesa” sembra essere l’unico aiuto possibile. Il colombiano don Humberto, ormai romano d’adozione, in effetti, mi scrive una lettera di raccomandazione. «Per qualsiasi evenienza», dice mentre me la consegna con un gesto quasi rituale. Mia madre mi regala una grande fotocopia della mappa della Colombia. «Ma ti avevo detto che la sto per comprare!», le dico incredulo. «Dai, prendila!», dice dandomi anche un libro di una viaggiatrice italiana che ha passato molti mesi facendo su e giù per il Paese, per raccogliere significative storie orali. Il libro è bello e mi aiuta a rafforzare il punto di vista che penso di privilegiare per l’inchiesta:
Per concludere il confronto tra Farc ed esercito, su una cosa sono d’accordo tutti (e non soltanto i miei tre testimoni): chi ci va di mezzo è chi sta nel mezzo, sballottato tra due fuochi, e non solo metaforici. Infatti, anche a tenere la bocca chiusa, si rischia sempre di fare un passo falso. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: nel cimitero di Planadas ci sono sempre delle fosse pronte ad accogliere i prossimi “imprudenti”.
Il mio sguardo però non si appresta a incontrare solo la voce di chi ha subito la guerra, ma soprattutto quella di chi vi reagisce con civiltà, cercando una soluzione politica, avvicinandosi o praticando la nonviolenza, come fanno gli abitanti della comunità di pace di San José de Apartadó. Sono anni, infatti, che conservo il ricordo positivo di un attivista colombiano di questa comunità, Ruben Darío, conosciuto all’Università La Sapienza di Roma durante la rinascita del movimento pacifista italiano (1999-2003), quando militavo anch’io in quel movimento. Da quando Ruben mi ha parlato della comunità, non sono riuscito a dimenticarla. Spesso mi è tornata alla mente l’idea che nel mondo c’è chi si libera quotidianamente dalle catene pesanti dell’orrore per affermare una nuova società. Quando so del processo di pace in corso, mi rendo conto che andare in Colombia per incontrare gli abitanti di San José e di altre comunità è per me una profonda motivazione per partire.
Poche settimane prima della partenza, Stellio Roland, un giovane ricercatore francese dell’Ehess di Parigi, mi chiarisce, davanti a un tè, che esistono anche altre realtà come San José, che però non si chiamano “comunità di pace”: le Zonas humanitarias, per esempio, sono comunità di rifugiati dove gli abitanti praticano i principi della partecipazione politica nonviolenta e comunitaria. Sono luoghi dove si esige e si promuove il rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario. La curiosità di poterle conoscere di persona si aggiunge alla decisione ormai maturata.
In un libro-inchiesta sul legame tra guerra e droga, scritto da una giornalista dell’Avvenire, leggo invece:
Oppure, sono i racconti delle persone a ricordare che la guerra qui è una costante decennale. Combattimenti, morti e feriti scandiscono il tempo e le stagioni, dato che il clima è cristallizzato in un’eterna estate. «Siamo un popolo guerriero, fin dai tempi della conquista. Ora, però, abbiamo scelto di combattere con le parole e le idee. Il progetto Nasa è la nostra arma. Grazie a lui, abbiamo la forza di resistere e di difendere Nasa Kiwe», dice Reynaldo, sollevando con fierezza il “bastone del comando”. In lontananza, risuona cupo il fischio delle pallottole.
«Il popolo Nasa è un altro degli attori da ascoltare. Comunità di pace, Zonas humanitarias e comunità Nasa. Ecco, voglio andare almeno in tre comunità diverse, una per ognuna di queste tre realtà!», penso, con l’illusione di avere una pista “concreta”. E poi spero: «Chissà che non trovi anche da qualche parte Ruben Darío. Ancora vivo… ».
Fonte: Micromega online
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