di Steven Forti e Giacomo Russo Spena
C’era una volta la socialdemocrazia... non esiste altro incipit per narrare la scellerata decisione del Psoe di sostenere in Spagna un nuovo governo Rajoy. Un’astensione, quella socialista, che sa di governo di larghe intese: socialisti e conservatori, insieme a braccetto, uniti nel sostenere le medesime politiche. Del resto, già dal 2011 le piazze degli Indignados attaccavano il partito unico Psoe/Pp accusandoli di essere la “misma mierda”. Un’alleanza che non rappresenta una novità per il panorama europeo. Si scrive Spagna, si legge infatti Europa dove da anni il Pse ha perso per strada le cosiddette ragioni della sinistra.
Come dimenticare la “Terza via” di Clinton, Blair e dei tanti emuli che hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation e precarizzazione della vita dei cittadini?
Come dimenticare la “Terza via” di Clinton, Blair e dei tanti emuli che hanno utilizzato la parola “riformismo” per sostenere guerre umanitarie, privatizzazioni, deregulation e precarizzazione della vita dei cittadini?
Dopo l’avanzamento sociale, nel trentennio glorioso legato al modello europeo, nel 2000 sono proprio i socialisti ad attaccare, e smantellare, per primi i diversi sistemi di Welfare State. La destra ha continuato su un terreno già ben concimato. La crisi economica, e le conseguenti politiche di austerity, hanno acutizzato il processo di declino delle nostre democrazie: in Europa ormai vige il pensiero unico. A comandare sono il Mercato, la finanza, le agenzie di rating. I governi – sia di destra che di sinistra – sono subalterni. Nessuno mette in discussione i vincoli dell’austerity. Tuttavia, la necessità di questi accordi tra i due grandi partiti del regime politico spagnolo rivelano anche che la crisi del regime, e una delle sue vittime, può essere la socialdemocrazia, come è accaduto in Grecia con la dissoluzione dei socialisti greci del Pasok. Così lo ha notato anche l’ex ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis in un recente articolo pubblicato sul quotidiano spagnolo El Diario.
Come fa notare Tommaso Nencioni, in un articolo su Il manifesto, “sarebbe tuttavia semplicistico, oltre che politicamente improduttivo, limitarsi a gridare al tradimento, o crogiolarsi nell’illusione che la resa del socialismo europeo alle ragioni della restaurazione apra spazi politici destinati automaticamente ad essere riempiti dalle forze della «vera sinistra». Perché il rischio, ormai sotto gli occhi di tutti, è quello di una chiusura oligarchica dei sistemi politici continentali, a prescindere dalle fortune elettorali della socialdemocrazia. La vera sfida per le forze di alternativa, in Spagna come nel resto del Continente – continua Nencioni – consiste nel ricostruire il legame sfilacciato tra democrazia e conflitto: una sovrapposizione tra la deriva oligarchica della prima e una mancanza di sbocchi politici adeguati per il secondo avrebbe esiti alquanto pericolosi”.
A parte due anomalie europee – in Portogallo i socialisti di António Costa hanno scelto di governare con i due partiti della sinistra più radicale e in Gran Bretagna Jeremy Corbyn prova, con mezzo partito contro, a far svoltare a sinistra il Labour Party – il Psoe ha seguito i recenti principi socialisti scegliendo di appoggiare un Pp, travolto da clamorosi scandali di corruzione. In nome della “stabilità”, dicono, e ora gioiscono perché dopo oltre 300 giorni l’impasse spagnola è terminata. Il campo dell’opposizione sarà interamente lasciato a Podemos, forse un clamoroso autogol per le forze dell’establishment, e lo stesso Psoe andrà repentinamente a scissione visto il modo col quale è stato defenestrato il segretario Pedro Sanchez, contrario alla scelta di sostenere un governo conservatore.
Con l’elezione di Mariano Rajoy si è aperta dunque una nuova tappa dopo un anno segnato dall’incertezza e dalla possibilità, non verificatasi, di un importante cambiamento politico per la Spagna.
Ma la sua rielezione non è piovuta dal cielo. I popolari, con solo 137 deputati in un Congreso di 350, hanno avuto bisogno dei 32 voti di Ciudadanos, che hanno mantenuto il patto siglato con Rajoy ad agosto, e di quello della deputata di Coalición Canaria, ma soprattutto dell’astensione del Psoe. Con 170 voti a favore, 111 voti contrari e 68 astensioni, Rajoy è stato rieletto presidente: il suo esecutivo sarà quello che potrà contare con meno deputati in tutta la storia della Spagna democratica, visto che né Ciudadanos né i socialisti hanno, per ora, intenzione di entrare nel governo.
Un Psoe spaccato
Per il Psoe, arrocato per dieci mesi nel suo “no es no” a Rajoy, il repentino cambio di posizione a favore di un’astensione è stata una decisione sofferta, che ha spaccato il partito tra chi, come l’ormai ex segretario generale Pedro Sánchez, si opponeva a un nuovo governo del Pp e chi fin dall’inizio, come l’ex presidente Felipe González e la vecchia guardia del partito, premeva per un’astensione che sbloccasse la situazione ed evitasse le terze elezioni in un anno. Elezioni che si sarebbero saldate con il probabile sorpasso di Podemos ai danni dei socialisti. La rottura si è verificata in un acceso e drammatico comitato federale del partito, tenutosi lo scorso 1 ottobre, che ha sancito la sconfitta di Sánchez e la sua dimissione. Da allora il Psoe è diretto da una commissione presieduta dal presidente regionale asturiano Javier Fernández in attesa della celebrazione del congresso in cui si eleggerà il nuovo segretario generale. Pedro Sánchez, che si è trasformato malgré lui, in una sorta di eroe per la militanza, si è anche dimesso da deputato: ha già lanciato la sfida alla dirigenza che lo ha silurato, dichiarando che si presenterà alle prossime primarie e inizierà fin da subito una campagna che lo porterà in tutte le federazioni socialiste del paese per ascoltare la militanza. Inoltre, si è tolto qualche sassolino dalle scarpe, accusando direttamente i poteri forti – ha citato il giornale El País, il gruppo editoriale Prisa e Telefónica – di aver bloccato qualunque tentativo di intesa con Podemos e con gli indipendentisti catalani per formare una maggioranza di governo alternativa. Poteri forti che, detto en passant, applaudono la decisione del Psoe di astenersi e tirano un sospiro di sollievo per il nuovo governo di Rajoy.
La situazione all’interno del Partito Socialista è di estrema tensione. I settori usciti vincenti, capitanati, oltre che dalla vecchia guardia (Felipe González, José Luis Rodríguez Zapatero, Alfredo Pérez Rubalcaba), dalla presidentessa regionale andalusa Susana Díaz, stanno prendendo tempo, mentre minacciano un repulisti di tutto il settore critico. Si stanno valutando misure disciplinari nei confronti dei 15 deputati che nella sessione di investitura di Rajoy non si sono astenuti e, nel caso dei 7 deputati del Partit dels Socialistes de Catalunya (Psc) che hanno votato in blocco “no” al leader dei popolari, si sta decidendo se modificare le relazioni esistenti tra il Psoe e la formazione catalana. Per di più, non si è decisa ancora una data per la celebrazione del prossimo congresso – si parla della primavera o addirittura dell’autunno del 2017 – e si stanno levando sempre più voci critiche riguardo alla celebrazione delle primarie. Nel 2014 Sánchez era stato difatti il primo segretario socialista eletto mediante delle primarie aperte alla militanza. Togliere le primarie e posticipare il più possibile il congresso permetterebbe alla nuova dirigenza di disinnescare il tentativo di Sánchez di seguire la via Corbyn, trovando il sostegno nelle basi del partito.
Il suicidio della socialdemocrazia
Ma, al di là delle beghe interne del Psoe, ciò che è palese è il suicidio del socialismo spagnolo, in linea con altri partiti socialdemocratici europei. L’onta di aver permesso un nuovo governo del Pp non si laverà facilmente. Il rischio di una pasokizzazione, per quanto possa sembrare eccessivo, è ora reale. O, più semplicemente, quello della trasformazione del Psoe da un partito che ha governato per oltre vent’anni la Spagna postfranchista a un partito radicato essenzialmente nel sud del paese (Andalusia, Estremadura, Castiglia La Mancia). Come reagiranno le basi che avevano votato il Psoe per evitare un nuovo governo di Rajoy è difatti ancora un’incognita.
È pur vero che non si tratta di una grande coalizione alla tedesca, ma solo di un’astensione per sbloccare la situazione, come si preoccupano di ripetere continuamente i dirigenti socialisti. Ma la spada di Damocle penderà durante tutta la legislatura sul capo del Psoe, a partire dalla legge di bilancio che si dovrà discutere nei prossimi mesi. In quel caso cosa faranno i socialisti? Voteranno contro? Rajoy farà pressioni, minacciando nuove elezioni e cedendo su questioni minori, con una strategia che mischierà sapientemente il bastone e la carota. Come alcuni attenti osservatori hanno rilevato, il Psoe sarà molto probabilmente costretto a fare opposizione di giorno e ad arrivare a compromessi con i popolari di notte.
Podemos, l’unica vera opposizione
L’astensione dei socialisti ha spianato la strada a Unidos Podemos che si è convertito seduta stante nell’unica vera opposizione in Parlamento. Le tensioni interne alla formazione guidata da Pablo Iglesias, criticato dopo la perdita di oltre un milione di voti nella tornata elettorale di giugno, si sono placate. Anche le divergenze di vedute con il numero due Íñigo Errejón, sebbene non scomparse, sono passate in secondo piano. Non voleranno i coltelli all’interno della giovane formazione e non vi saranno teste mozzate, almeno per ora. Ci sarà, questo sì, un dibattito intenso per capire se si affermerà la linea politica di Iglesias, che spinge per ritornare nelle piazze, o quella di Errejón, che punta sulla trasversalità. La prima prova del fuoco saranno le primarie dell’importante federazione madrilena di Podemos, in cui si sfidano le candidate della corrente errejonista, l’assesore comunale di Madrid, Rita Maestre, e l’ex dirigente di Izquierda Unida e ex compagna di Iglesias, Tania Sánchez, e il candidato della corrente iglesista, il senatore Ramón Espinar, appoggiato anche da Izquierda Anticapitalista, favorevole a un ritorno nelle piazze di Podemos. I risultati si conosceranno il prossimo 9 novembre. Ma tutto si deciderà nella prossima Asamblea Ciudadana – il congresso nazionale di Podemos – che si dovrebbe tenere a inizio 2017. Nel frattempo, però, Podemos, sfiancato da una campagna elettorale durata oltre un anno e svaniti i sogni di un governo progressista, potrà dedicarsi al suo nuovo ruolo: quello di partito di opposizione ad un governo conservatore.
Rimangono ancora dei punti di domanda sulla tenuta dei governi regionali, insediatisi nel giugno del 2015, in cui i socialisti hanno l’appoggio di Podemos, come a Valencia, in Estremadura, in Aragona o in Castiglia La Mancia, anche se per ora sembra che nel partito di Iglesias si preferisca evitare che il Pp ritorni al governo in queste regioni. Maggiori sono i dubbi, invece, riguardo ai comuni dove sono delle liste municipaliste integrate da Podemos a governare con l’appoggio esterno dei socialisti, come nella capitale con Ahora Madrid. Un voltafaccia del Psoe potrebbe essere il prezzo che i popolari fanno pagare ai socialisti per evitare che si torni alle urne.
Le incognite della nuova legislatura
La legislatura che si apre è ricca di incognite. In molti hanno sottolineato che un governo di minoranza come quello di Rajoy sarà molto debole e rischierebbe di cadere più presto che tardi. In realtà, la Costituzione spagnola blinda il presidente del governo: mettere l’esecutivo in minoranza non è sufficiente per farlo cadere, serve un candidato alternativo. E in un Congreso così frammentato e diviso sulle questioni chiave (riforma della Costituzione, questione catalana, politiche sociali, ecc.) è utopico pensare che socialisti, Unidos Podemos e Ciudadanos riescano a mettersi d’accordo. Il che significa che, al contrario di quanto si è sostenuto negli ultimi mesi, il governo Rajoy non avrà durata breve, ma arriverà probabilmente a fine legislatura. A meno che non sia proprio il leader dei popolari a voler convocare nuove elezioni che in questo momento sia Ciudadanos sia il Psoe vogliono evitare a tutti i costi. Rajoy userà dunque la minaccia di tornare alle urne come uno spauracchio per far ricapacitare, in caso di divergenze di vedute, chi gli ha permesso di continuare alla Moncloa.
Si è detto anche che un governo in minoranza darebbe centralità e potere al Parlamento. In realtà, però, come ha sottolineato Pablo Iglesias, “è falso che dal Parlamento si possa governare”. Le leggi proposte dal Parlamento grazie a possibili maggioranze alternative possono essere rispedite al mittente dal governo del Pp, che per di più può contare sulla maggioranza assoluta di cui dispone al Senato. La riforma della Costituzione, di cui si parla da tempo, è dunque piuttosto improbabile o, come minimo, molto difficile, se non si ottiene il consenso del Partido Popular.
A questo proposito, Rajoy è stato molto chiaro nel suo discorso di investitura: “Dialogo, sì, tutto quel che serve. Ma non ci si sbagli. Non sono disposto a distruggere quel che è stato costruito. Si può migliorare, senza dubbio, ma non posso accettare la sua demolizione. Non ha nessun senso liquidare tutte le riforme”. Ossia, l’opposizione si può sognare la deroga o l’annullamento della riforma del lavoro o del codice penale approvate nella scorsa legislatura. Potrà al massimo ottenere delle briciole, come la costituzione di commissioni d’inchiesta parlamentare su alcuni dei casi di corruzione che infangano il Pp o la riforma su alcune leggi, come quella dell’educazione, su cui anche i popolari hanno iniziato a fare marcia indietro.
In molti sono convinti che il nuovo governo sarà più dialogante rispetto al passato. È possibile, e nel caso solo per necessità e non per cultura politica, ma è difficile da credere visti i precedenti. Anche perché i problemi sono numerosi e riguardano tutto il sistema spagnolo figlio della Transizione alla democrazia di fine anni Settanta. In primo luogo, vi è la questione catalana a cui Rajoy ha risposto solo con il silenzio e i tribunali. Il governo regionale catalano ha rinnovato la sua road map per costituire uno stato indipendente catalano, convocando un referendum d’indipendenza, accordato con lo Stato allo stile scozzese o unilaterale, per l’autunno prossimo. O il nuovo esecutivo si siede e dialoga facendo un’offerta seria e convincente oppure lo scontro, con tutte le sue conseguenze, è servito. In secondo luogo, vi sono le politiche sociali in una Spagna che, per quanto cresca al 3,2% quest’anno, vede ancora il 20% della sua popolazione disoccupata. La fine dell’austerità è un miraggio se si tiene conto che Bruxelles ha chiesto 5,5 miliardi di tagli allo scopo di portare il deficit dal 4,6% del 2016 al 3,1% del 2017 e al 2,2% nel 2018. Per giunta, i calcoli sono ottimistici visto che si prevede una crescita dell’economia spagnola del 2,3% per l’anno prossimo, senza tenere conto, tra i molti fattori che potrebbero variare, dei possibili aumenti del prezzo del petrolio, di cui la Spagna è grande importatrice. In terzo luogo, vi è la questione della rigenerazione del sistema politico: è piuttosto improbabile pensare a grandi svolte quando il partito al governo è sotto processo proprio in questi mesi, tra il caso Bárcenas, il caso Gürtel o il caso delle black card di Caja Madrid che vede coinvolto Rodrigo Rato, uomo forte del Pp nell’epoca di José María Aznar.
La nuova fase appena iniziata è dunque estremamente complessa. E l’elezione di Rajoy, che è il vero e unico vincitore dei dieci mesi di impasse, non fa prospettare nulla di buono. Il cambiamento politico che a fine 2015 sembrava dietro l’angolo per la Spagna è stato posticipato a data da destinarsi.
Fonte: Micromega online
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