di Nicolas Cheviron
In una prigione turca una figlia racconta al padre le ultime notizie. All’improvviso la detenuta si mette a gridare: “Chi è questo assassino? Perché lo portate qui? Fate uscire questo criminale!”. La conversazione finisce tra proteste e insulti. Le guardie hanno fatto entrare un prigioniero comune nella stanza dove Yıldız Keskin sta parlando con i genitori. Ha diritto a una telefonata di dieci minuti a settimana. Keskin, 36 anni, si è sentita minacciata e ha cominciato a urlare.
Suo padre spiega che gli incidenti di questo tipo sono diventati molto frequenti dal luglio scorso, quando la donna, condannata all’ergastolo per la sua militanza in un gruppo armato di estrema sinistra, il Fronte rivoluzionario di liberazione popolare (Dhkp-c), è stata trasferita insieme a una trentina di altre prigioniere politiche nella prigione di Silivri. Prima si trovavano nel carcere femminile di Bakırköy, un quartiere di Istanbul, ma sono state trasferite perché avevano dato fuoco ai mobili delle celle per protestare contro la confisca dei libri e delle riviste.
L’esperimento di Silivri
Le trenta carcerate sono state le prime detenute del gigantesco complesso penitenziario di Silivri, che si sviluppa su un’area di cento ettari e ospita 13mila persone, tra cui duemila dipendenti, in una zona rurale isolata ai confini della provincia di Istanbul. È il non plus ultra dell’industria carceraria turca: comprende un ospedale, una moschea, aule, un supermercato, campi sportivi, due tribunali e alloggi per le guardie. La compresenza di uomini e donne tra i carcerati si è rapidamente trasformata in una fonte di problemi per le detenute.
“Insieme alle detenute sono arrivate anche dieci guardie penitenziarie donne. Ma gli altri agenti sono uomini e non hanno mai visto prigioniere politiche che si ribellano, scandiscono slogan e battono contro i muri. Non ci sono abituati e si comportano come fanno con gli uomini”, spiega Fahrettin Keskin, il padre di Yıldız, rivelando che sua figlia ne porta i “segni sul corpo”. “Le guardie hanno l’abitudine di osservare le donne nelle loro celle e fare commenti pesanti”, aggiunge.
Trenta donne in mezzo a tredicimila uomini. La situazione è incomprensibile e i motivi sono altrettanto oscuri. Ufficialmente si parla di una rappresaglia contro la rivolta delle prigioniere, ma in un articolo del quotidiano filogovernativo Aksam del febbraio del 2014 si legge che il trasferimento delle detenute era già previsto due anni e mezzo fa, e che erano in costruzione nuovi edifici per accogliere le prigioniere. Il sito T24 ha svelato nel giugno del 2015 il possibile obiettivo dell’operazione: liberare i terreni occupati dalla prigione di Bakırköy per fare spazio a un progetto immobiliare di un imprenditore edile vicino al governo.
La chiusura delle piccole strutture carcerarie nelle città e l’apertura di grandi complessi fuori dagli agglomerati urbani sono il frutto di scelte ben precise. Questo processo è al centro di un ambizioso programma di costruzione portato avanti da dieci anni dal governo islamico conservatore del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), un’operazione dal grande impatto economico che si accompagna a un aumento vertiginoso del numero dei detenuti.
Negli ultimi dieci anni sono state chiuse 187 carceri e sono state inaugurate altre 118 strutture più grandi nelle periferie delle grandi città. Questi trasferimenti hanno permesso di ospitare più detenuti, passando dai 114mila del 2010 ai 189mila dell’ottobre del 2016, come rivelano i dati dell’istituto di statistica turco e della direzione delle prigioni turche (Cte). Questo processo non si fermerà: nel gennaio del 2014 il ministro della giustizia turco ha dichiarato di voler portare la capacità complessiva delle carceri a 250mila detenuti entro la fine del 2017.
Allo stesso tempo il numero dei prigionieri in Turchia è aumentato del 340 per cento: dai 55mila del 2005 ai 187mila della primavera del 2016, secondo le statistiche della Cte. Nella repressione seguita al tentativo di colpo di stato del 15 luglio sono finiti in carcere 34mila presunti golpisti. Le autorità hanno risposto all’improvviso sovrappopolamento delle carceri liberando 38mila detenuti comuni, fatta eccezione per i condannati per omicidio e per stupro. Ma a metà ottobre le prigioni erano di nuovo sovraffollate e il numero dei prigionieri sfiorava i 195mila, come rivela il direttore della Cte, Yavuz Yıldırım.
In dieci anni la Turchia è diventata il primo paese per numero di carcerati in Europa (Russia esclusa), staccando Inghilterra e Galles (85mila detenuti) e Polonia (71mila). La Germania, che ha una popolazione di 80 milioni di abitanti, pochi milioni in più della Turchia, nel 2015 contava appena 62mila detenuti. Su scala mondiale il paese guidato da Recep Tayyip Erdoğan si trova al nono posto, superato solo da paesi più popolosi (Stati Uniti, Cina, Russia, Brasile, India, Messico, Iran) e dalla Thailandia (321mila detenuti su una popolazione di 67 milioni di abitanti).
Non solo prigionieri politici
La spiegazione del fermento nella macchina carceraria turca non va cercata solo nell’incarcerazione degli oppositori e di altri presunti terroristi. Tre mesi dopo il tentativo di golpe, i prigionieri politici sono un quarto del totale. Rimangono altri 150mila detenuti comuni, una massa di persone che tutte le prigioni di Francia e Germania non potrebbero contenere.
Mehmet Metiner, l’esponente dell’Akp che presiede la sottocommissione parlamentare per le carceri, denuncia un aumento della criminalità: “Abbiamo bisogno di più carceri di massima sicurezza perché è aumentato il numero dei sospettati e dei condannati”. Dietro la recrudescenza della criminalità si nasconde la mano del “terrorismo”, spiega Metiner. “Per contrastare la criminalità bisogna adottare misure economiche e sociali, ma quando la situazione economica sembra migliorare i nemici della Turchia cercano di provocare nuove crisi con l’aiuto di organizzazioni terroristiche”. Le autorità turche puntano su una lotta al crimine più efficace e sull’allungamento della durata delle pene.
Le parole di Metiner non convincono Burcu Çelik Özkan, una deputata del Partito democratico del popolo (Hdp, filocurdo): “È vero che, se esaminiamo i reati commessi contro le donne, riscontriamo un aumento del 140 per cento durante gli anni di governo dell’Akp”. Ma per lei le motivazioni sono essenzialmente politiche: “Chiaramente per le autorità turche il carcere è un modo per gestire i problemi politici e sociali”.
I ricercatori che lavorano su questi temi sono altrettanto dubbiosi. “È difficile stabilire una relazione chiara tra il livello di criminalità e l’aumento della popolazione carceraria”, spiega Helen Fair, dell’Institute for criminal policy research di Londra, sottolineando che diversamente dalla Turchia, l’Europa ha registrato un calo del 21 per cento nella popolazione carceraria dall’inizio degli anni duemila. “Quando il numero di prigionieri si moltiplica per tre o quattro significa che c’è un altro motivo, una forma di ingegneria sociale in atto”, ipotizza Mustafa Eren, del Centro di ricerca sulle prigioni turche. Secondo il ricercatore, “in Turchia c’è stata una pianificazione. Non si costruiscono nuove prigioni per rispondere a un aumento del numero di detenuti, ma il contrario”.
Il governo turco ha scelto di seguire il modello carcerario statunitense, con vere e proprie città penitenziarie dove raggruppare diverse strutture detentive e tutto il necessario per la vita delle guardie e delle loro famiglie. L’esempio più riuscito è il complesso di Silivri. Questo sistema presenta innegabilmente dei vantaggi. Per esempio, permette economie di scala e la costruzione di strutture più vicine agli standard internazionali. La costruzione di queste strutture arricchisce le aziende che operano nel settore dell’edilizia pubblica, come il gruppo Aras, dell’imprenditore Tekin Yıldız, originario del mar Nero come Erdoğan.
Però c’è un rovescio della medaglia. “Per le famiglie, generalmente povere, le visite diventano più difficili. Per i prigionieri si tratta di una doppia pena: non solo vengono privati della libertà, ma vengono allontanati dalla città, dalla società, dalla gente”, spiega Burcu Çelik Özkan. Lo stesso vale per le guardie, che non fanno più vita di quartiere e sono sempre più costrette nel loro ruolo professionale.
La Turchia di Erdoğan ha preso in prestito dagli Stati Uniti un’altra pratica, quella di far lavorare i detenuti. Nel 2015 circa 49mila carcerati sono stati impiegati in diverse attività, dalla confezione di uniformi all’allevamento di bovini, alla stampa di documenti amministrativi. Questa attività è redditizia perché i lavoratori ricevono una paga compresa tra i 2,7 e i 3,5 euro al giorno, quattro volte meno di un operaio, con tutele limitate agli incidenti sul lavoro.
Lavoratori in affitto
“Lo stato ha trovato manodopera a buon mercato e ha deciso di usarla. Quando osserviamo i precedenti a livello mondiale ci rendiamo conto che queste pratiche sono il frutto di un liberismo selvaggio”, commenta il sociologo Tayfun Koç, autore di una ricerca sul lavoro carcerario.
L’amministrazione penitenziaria turca nel 2015 ha “affittato” i servizi di circa duemila detenuti ad aziende private, principalmente per lavori di sartoria, dalle lenzuola per alcune catene di alberghi alle uniformi per aziende di consegne. Nel 2015 il lavoro dei detenuti ha portato 325 milioni di euro nelle casse dell’amministrazione penitenziaria turca, contro una spesa di appena 6,8 milioni di euro per i salari. Ironia della sorte, buona parte di queste entrate è stata investita nella costruzione di nuove carceri e tribunali, spiega Koç.
In occasione di una fiera di prodotti dell’artigianato carcerario l’assistente del ministro della giustizia Bilal Uçar ha dichiarato con orgoglio: “Abbiamo fatto passi avanti nel campo delle condizioni di incarcerazione, dei diritti e delle libertà. Tuttavia, e questo è molto più importante, le nostre carceri sono diventate delle fabbriche. Molti cittadini non lo sanno ma queste fabbriche danno un contributo importante alla produzione nazionale. E lo sfruttamento di questo potenziale cresce di giorno in giorno”.
Traduzione di Andrea Sparacino
Questo articolo è uscito su Mediapart.
Fonte: Internazionale
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