di Neve Gordon e Nicola Perugini
In un’intervista del 2014 trasmessa dalla CTV News sulla possibilità della soluzione “due popoli, due stati” tra israeliani e palestinesi, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha sostenuto che i palestinesi concepiscono il loro Stato in Cisgiordania come un atto di pulizia etnica: “Loro dicono che lí non ci può vivere nessun ebreo, che deve essere libero da ebrei, pulizia etnica”. In questo modo il premier israeliano ha lasciato intendere che qualsiasi smantellamento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e il loro trasferimento entro i confini del 1967 avrebbe implicato un atto di “pulizia etnica”.
Questa descrizione apocalittica della decolonizzazione come pulizia etnica riflette una specifica economia morale del colonialismo da insediamento in base al quale lo smantellamento degli insediamenti è equiparato a un’ingiustizia. Mette anche in evidenza una convergenza tra attori statali e attori non statali che hanno progressivamente adottato il paradigma morale ed epistemico che noi chiamiamo il diritto umano di dominare. […]
Poco tempo dopo questa intervista a Netanyahu, l’ONG israeliana per i diritti umani Shurat HaDin chiese alla Corte Penale Internazionale di aprire un’inchiesta sul presidente palestinese Mahmoud Abbas per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questi due eventi sono strettamente connessi tra loro. Utilizzando l’espressione “pulizia etnica degli ebrei”, Netanyahu mobilita un concetto che è profondamente radicato nella memoria collettiva ebraica e che costituisce, per gli attivisti dei diritti umani, la linea da non oltrepassare. Al tempo stesso, rinnova l’idea dei diritti umani dei coloni: i diritti umani di un gruppo etnico dominante, istituito sulla base di espulsioni e assoggettamento.
In questo modo, egli contribuisce a configurare il colono come il soggetto originario dei diritti umani e fa intendere che il ruolo dello Stato è di garantire i diritti di questo gruppo. La richiesta di Shurat HaDin alla CPI contribuisce a rafforzare questa logica. Trasforma colui i cui diritti sono stati violati nel responsabile di violazioni dei diritti umani, il dominato in dominatore e il dominatore in dominato. […]
In Le origini del totalitarismo, Arendt osservava che “i diritti umani si sono rivelati inapplicabili, persino nei paesi che basavano su di essi la loro costituzione, ogni qualvolta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di uno Stato sovrano”. L’affermazione che la separazione tra lo Stato sovrano e l’umano porti a una condizione di assenza di diritti, conserva tutta la sua causticità. In questa sede, non ci interessa specificamente il modo in cui Arendt cerca di salvare i diritti umani, mentre vogliamo continuare a concentrarci sull’impatto che lo Stato sovrano esercita su di essi.
Se i diritti umani hanno bisogno dello Stato per essere tutelati, quest’ultimo non è mai universale e conseguentemente interpreta i diritti umani e li traduce in maniera da poter perseguire politiche specifiche che, come abbiamo tentato di dimostrare in questo libro, a volte coincidono con l’assenza di diritti e con la dominazione.
[…] Dopo le convergenze, il rispecchiamento e le inversioni che abbiamo descritto, i diritti umani possono ancora essere impiegati come discorso antiegemonico contro la dominazione? Per parafrasare Walter Benjamin, la sopravvivenza dei diritti umani può ancora implicare l’emancipazione, dal momento che essi sono diventati uno strumento che potenzia la dominazione?
Noi pensiamo di sì. Paradossalmente, le condizioni che hanno trasformato i diritti umani in strumenti di dominazione sono anche le condizioni che assicurano la loro sopravvivenza. Non concordiamo con la deduzione semplicistica secondo la quale, dato che i diritti umani equivalgono alla dominazione, dovremmo abbandonarli. Essi possono sempre essere riappropriati e reinterpretati per contrastare la dominazione e per tornare a produrre in forme diverse il soggetto dei diritti umani. Possono sempre essere ridefiniti in un modo nuovo che possa muovere le persone a lottare per progetti di emancipazione. […] Adesso esploreremo brevemente come si possa dare nuova vita ai diritti umani in modo che riescano a contrastare la dominazione.
Una delle caratteristiche principali dell’odierno regime dei diritti umani è la sua subordinazione al proprio paradigma giuridico e metodologico. Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch per oltre due decenni, mette ben in evidenza questo aspetto quando scrive: “Penso che il movimento internazionale per i diritti umani non abbia altra scelta che fondare la giustificazione del proprio lavoro sul diritto positivo”.
Roth non sembra rendersi conto che il nesso diritti umani/ diritto internazionale è collegato all’intricata relazione dei diritti umani con lo Stato. Anzi, il regime dei diritti umani emerso nel dopoguerra si è trovato strettamente connesso allo Stato proprio attraverso i diversi strumenti letali che esso ha prodotto.
Al tempo stesso, non è solo il rapporto con lo Stato a impedire che i diritti umani diventino antiegemonici, ma anche il modo di operare e la concezione di sé che ha l’attivismo dei diritti umani, quando è centrato esclusivamente sulla dimensione giuridica. Lo si può osservare molto bene nell’attività di Human Rights Watch, probabilmente l’organizzazione per i diritti umani meglio finanziata al mondo, che sfoggia un bilancio annuale di oltre 50 milioni di dollari e uno staff di quasi 300 persone. HRW ha la sua sede centrale nell’Empire State Building (con tutta l’ironia del caso), accanto a quelle di grandi corporation come Walgreen, Bank of America, LinkedIn e ad alcuni dei più rinomati studi legali. Questa prossimità spaziale ne rivela una più ampia, che ha a che fare con la versione impoverita della politica dei diritti umani adottata da HRW.
Di solito HRW non promuove cause in tribunale. Ciononostante, le sue campagne invocano i diritti umani e il diritto umanitario (a volte mediante deposizioni spontanee e memoriali). In un articolo in difesa di HRW contro l’accusa di dedicare scarsa attenzione ai diritti economici e sociali, Roth spiega che il tipo di questioni che la sua organizzazione affronta è determinato dalla metodologia adottata più che, per esempio, dalla gravità dell’abuso. […]
L’organizzazione si oppone in maniera esplicita alla partecipazione popolare nella politica dei diritti umani. Human Rights Watch, spiega il suo direttore, può solo affrontare questioni nelle quali la natura della violazione, il responsabile e il rimedio siano ben chiari, e ciò è possibile soprattutto quando si è in grado di “identificare un comportamento di governo arbitrario o discriminatorio che causa o contribuisce in maniera sostanziale a una violazione”. È da notare che parlare di “comportamento arbitrario o discriminatorio” è un altro modo di dire che il comportamento non si uniforma al Diritto Internazionale Umanitario e alla normativa sui diritti umani. HRW, in altre parole, si occupa principalmente di quei casi nei quali può individuare una carenza, un errore o una discriminazione nell’applicazione della legge. Ma, come abbiamo dimostrato in tutto il libro, il problema è che nei vari contesti globali della violenza, il diritto umano di dominare prende proprio la forma di un dibattito intorno all’adeguata applicazione della norma.
Se nel suo articolo Roth risponde alle critiche mosse a HRW perché l’organizzazione non affronterebbe un certo tipo di problemi sociali, noi siamo piú interessati a esaminare cosa succede ai diritti umani quando vengono sottoposti a una metodologia legalistica di questo tipo. Un esempio illuminante è un rapporto del 2013 sugli attacchi statunitensi tramite l’uso di droni, in cui HRW esamina sei attacchi non dichiarati contro presunti membri di al-Qaida in Yemen. In questi sei attacchi furono uccise 82 persone, 57 delle quali civili – e questo è solo un campione degli 81 attacchi condotti nello Yemen che fanno parte di quella che recentemente è stata chiamata “guerra dei droni” e che include anche centinaia di omicidi mirati in Pakistan e in Somalia. Secondo HRW, “ognuno di questi attacchi aerei ha le caratteristiche dei cosiddetti omicidi mirati, ovvero il deliberato assassinio legalizzato di un particolare individuo a opera di un governo”.
Allargando il campo, HRW sostiene che due dei sei attacchi esaminati nel rapporto “hanno costituito chiare violazioni del Diritto Internazionale Umanitario – le leggi di guerra – perché hanno colpito solo civili o hanno utilizzato armi indiscriminate. Gli altri quattro casi potrebbero aver violato le leggi di guerra perché la persona attaccata non era un legittimo obiettivo militare o perché l’attacco ha provocato eccessivi danni civili, il che rende necessarie ulteriori indagini. Inoltre, in molti di questi casi gli USA non hanno preso tutte le precauzioni possibili per minimizzare i danni ai civili, come richiesto dalle leggi di guerra”.
Queste frasi iniziali del rapporto di HRW sugli attacchi con i droni forniscono già una chiara indicazione di come la riduzione dei diritti umani a un discorso legalistico abbia portato al loro impoverimento. Secondo questa ONG liberal, il fatto che gli Stati Uniti conducano attacchi con i droni nello Yemen non è una violazione dei diritti umani, eccetto quando i droni colpiscono “solo civili” o usano “armi indiscriminate”.
In altre parole, se gli Stati Uniti utilizzano armi di precisione, prendono tutte le “necessarie precauzioni”, e avendo come obiettivo i militanti di al-Qaida uccidono molti civili, allora il “deliberato assassinio a opera di un governo” in un altro paese dall’altra parte del globo non costituisce una violazione. Per cui il massimo che i diritti umani possono fare quando sono soggetti al discorso legalistico è pretendere una riduzione delle vittime civili, l’erogazione di compensazioni economiche e la garanzia che tutti i futuri omicidi mirati rispettino la legge.
Se il ristretto paradigma legalistico invocato in questo rapporto può essere leggermente più esplicito di altri, il resoconto esemplifica comunque l’approccio generale di gran parte delle ONG liberal per i diritti umani. Tali rapporti mettono in evidenza cosa succede ai diritti umani una volta che sono diventati ostaggio della legge, trasformandosi di conseguenza solo in un prisma per dibattere la legalità o illegalità della violenza, senza porsi domande sulla moralità e legittimità della legge stessa. Indipendentemente dalle migliaia di civili uccisi durante la guerra dei droni e dall’effetto terrorizzante che questa guerra ha avuto su centinaia di migliaia di civili, essa non è un atto terroristico, secondo HRW o Amnesty International, dal momento che i droni sono dotati di armi di precisione e non operano con l’intenzione di uccidere civili.
Questo è il dominio della legge nell’epoca del diritto umano di uccidere. La legge che permette al dominante di uccidere è salvaguardata e per no rafforzata da coloro che sostengono di lottare per i diritti umani. Quando le denunce di violazioni sono articolate in un modo che si conforma al diritto sovrano di uccidere, i diritti umani diventano facilmente un discorso che razionalizza l’assassinio.
Come abbiamo accennato, la legislazione sui diritti umani opera sia mediante cause legali vere e proprie, sia attraverso campagne legalistiche. Entrambe queste strategie possono a volte mettere in discussione strutture sociali ingiuste. Di norma, però, la critica sociale che portano avanti si limita a mitigare gli eccessi della struttura senza contestarla. […]
L’approccio legalistico ai diritti umani nega e spesso reprime alcune forme di politica più radicali e finisce per supportare quel tipo di scelte che coincidono con politi- che internazionali omicide, come la guerra dei droni. Questo accade perché la legge è spesso cieca nei confronti delle asimmetrie di potere sottostanti. Quando le campagne legali non mettono in discussione questo tipo di strutture, la critica si limita di solito a correggere alcune “disfunzioni” della struttura, specialmente se la struttura politica è quella di uno Stato liberale.
L’impiego dei diritti umani in conformità alla legge produce quindi la convinzione che esista un sistema imparziale in grado di fungere da arbitro neutro tra le parti in causa e di retti care le storture. Esso esclude dalla sua critica gli elementi costitutivi del sistema giuridico. In questo modo, contribuisce a mettere sotto silenzio la resistenza contro le strutture sociali, economiche e politiche della dominazione che sono radicate e supportate dalla legge che le riproduce. Noi riteniamo che questo sia uno dei tratti fondamentali che portano all’impoverimento dei diritti umani, facilitando a sua volta lo sviluppo del diritto umano di dominare.
[…] Come può essere sovvertito il rapporto tra diritti umani e dominazione, così che il linguaggio e le strategie dei diritti umani possano mettere in discussione e destabilizzare la dominazione? In che modo possiamo riannodare le odierne lotte per i diritti umani con quelle eredità emancipatorie – come l’anticolonialismo, l’antiapartheid o l’antischiavismo – che sono state in gran parte cancellate dall’“ONGortodossia”?
In primo luogo, è di vitale importanza che l’appropriazione dei diritti umani avvenga in una prospettiva non legalistica. Se, come abbiamo illustrato, la legislazione internazionale sui diritti umani e il diritto umanitario spesso rafforzano la dominazione, i diritti umani dovrebbero essere utilizzati come critica della legge. Questo non significa che essi dovrebbero essere mobilitati in un modo che ignori la legge. Gli attivisti dovrebbero anzi appropriarsi dei diritti umani per attaccare la legge dove e quando essa accresce la dominazione.
Sembra una questione banale, ma in fin dei conti non lo è: i militanti e i movimenti anticoloniali volevano una riforma dei sistemi coloniali, o il loro completo smantellamento? Nelson Mandela e il movimento antirazzista sudafricano lottarono per una riforma dell’apartheid, o volevano distruggere il sistema in quanto tale? Hanno usato la legge per indirizzare la loro lotta all’apartheid, o hanno adottato una serie di strategie illegali di sabotaggio violento che sono state rifiutate da Amnesty International, la principale ONG per i diritti umani? Le diverse storie ed esperienze di spoliazione ci hanno insegnato che le richieste di riforma e correzione degli eccessi istituzionalizzati di regimi giuridici oppressivi non conducono alla dissoluzione della dominazione, ma alla sua riorganizzazione.
Se l’uso della legge conferisce legittimità al dominante, bisogna creare un cortocircuito che combini i diritti umani a discorsi e pratiche di emancipazione per spezzare il nesso tra legge e legittimità. Ci sembra che questa possa essere una raccomandazione valida per tutti quei contesti nei quali l’osservanza della legge (invece che la sua critica) riproduce i meccanismi della dominazione. […]
La sfida è quella di sviluppare forme di appropriazione che possano produrre una resistenza alla dominazione. Quasi come in un’etica negativa, i diritti umani dovrebbero sempre essere misurati in rapporto alla dominazione: laddove una specifica mobilitazione dei diritti umani supporti la dominazione, dovrebbe essere rifiutata. Dovrebbe essere contrastata e abolita, e considerata come un punto di partenza per un nuovo modello di appropriazione dei diritti umani.
È una questione di forma e di sostanza al tempo stesso. Quando in una data situazione le forme esistenti di mobilitazione dei diritti umani non contribuiscono a inficiare la dominazione, gli attivisti dovrebbero riconcettualizzare e reinterpretare la loro lotta. […] In questa nuova interpretazione, i diritti umani possono essere chiamati in causa a favore della liberazione. Invece che lubrificare un apparato di ingiustizia irrecuperabile, possono contribuire a creare nuove comunità politiche basate sulla giustizia.
Fonte: che-fare.com
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