di Gigi Roggero
Qualche mese fa Franceschini, degno rappresentante della mediocrità politica del suo partito, ha detto che oggi lo scontro oggi non è più tra destra e sinistra, ma tra sistemisti e populisti. Se perfino un dirigente del PD arriva a cogliere qualche elemento di realtà, vuol dire che esso dovrebbe essere piuttosto lampante. Così non è, se guardiamo al dibattito che ha preceduto e seguito le elezioni americane dentro le sinistre conventicole dell’opinione pubblica nostrana, infarcita di paura per il fascismo che avanza e stretto attorno al simulacro democratico che arriva addirittura ad assumere il mostruoso volto di Hillary Clinton.
Un merito indiscutibile dell’ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista (DeriveApprodi, uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza timore delle accuse e dei latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi la lotta di classe nel neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la sfida, collocarsi su quel terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Un merito indiscutibile dell’ultimo libro di Carlo Formenti, La variante populista (DeriveApprodi, uscito in ottobre), è di prendere di petto il tema, senza timore delle accuse e dei latrati che si alzano dalle rancorose e marginali fila del frontismo neo-dem. La tesi del volume è infatti nitida: oggi la lotta di classe nel neoliberismo avviene innanzitutto sul terreno disegnato dal populismo. Secondo l’autore bisogna quindi accettarne la sfida, collocarsi su quel terreno, lì costruire egemonia in senso gramsciano.
Formenti arriva a sviluppare la sua tesi attraverso un confronto selezionato con autori e posizioni che, come sempre nei suoi testi, vengono sintetizzati in forma estremamente chiara e utile. Il libro si articola in quattro parti: un’analisi del progetto politico ordoliberista, la constatazione della morte della socialdemocrazia e dell’eutanasia delle sinistre, il tentativo di archiviare l’operaismo, infine la discussione sulla variante populista. Correremo veloci sui punti di accordo, ci concentreremo sui problemi. Non perché i secondi siano superiori ai primi, al contrario: proprio perché troviamo in Formenti una base di riflessione comune, è politicamente utile soffermarsi sui nodi irrisolti. Lo stesso autore, del resto, ha continuamente la capacità di porre e porsi dei problemi, non accontentandosi del già noto, senza esitare nell’autocritica laddove le sue posizioni precedenti non hanno funzionato o non funzionano più. Qualità piuttosto rara di questi tempi, per quanto più indispensabile che mai in una fase di tumultuosi cambiamenti, in cui una buona parte dei paradigmi del passato risulta inadeguata o fuorviante per leggere la realtà. E ancor più per provare a trasformarla.
Contro e oltre la sinistra
Quasi interamente condivisibili sono le prime due parti, una sorta di manuale per fissare dei punti fermi di analisi. Finanziarizzazione e ordoliberismo, lungi dall’appartenere a una presunta oggettività dei meccanismi di mercato, è frutto della lotta di classe dei capitalisti contro i proletari. Questa tesi, ripresa da Gallino, è argomentata in modo efficace e dettagliato. L’autore, qui come in tutto il volume, si confronta in particolare con La nuova ragione del mondo di Dardot e Laval; come i due autori francesi, rischia talora di dipingere un quadro in cui i “denti del capitale” affondano nella carne del lavoro vivo senza incontrare resistenze e opposizione, in cui cioè l’indiscutibile progetto politico dei padroni agisce su uno spazio liscio e omogeneo, continuamente plasmabile secondo la loro volontà. Lo stesso Formenti è peraltro consapevole del rischio, quando avverte nell’approccio di Dardot e Laval e più in generale del campo foucaultiano in cui si inseriscono la descrizione di un “ordine liberal-liberista come un sistema totalizzante, e dunque sostanzialmente privo di vie di uscita”.
Il contenuto del secondo capitolo è ben riassunto nel titolo: l’eutanasia delle sinistre. Nel panorama funerario tracciato dall’autore, la socialdemocrazia è morta, il sindacato si è suicidato, le sinistre più o meno radicali hanno ormai celebrato le proprie esequie, al più tardi con il becchino Tsipras. Sulle ragioni strutturali del passaggio avvenuto Formenti non ha dubbi: “A vietare un ritorno al passato è la radicale cesura storica fra il mondo del trentennio glorioso e il mondo attuale. [...] Il sistema non è più ‘scalabile’ dalle opposizioni, né tantomeno riformabile dall’interno”. Alla luce di tale discontinuità storica, radicata nella materialità dei processi, e ancor più alla luce della critica dura e corretta lungo tutto il libro verso il lessico progressista, teleologico, illuminista e dei diritti che costituisce il fondamento della sinistra, sorge una domanda: perché Formenti insiste nel nominare come “sinistra” l’opzione politica da costruire? Siamo piuttosto certi che sia una convenzione linguistica per opporla alla destra, e tuttavia si tratta di una convenzione strategicamente sbagliata, tatticamente inutile. Si tratta allora di radicalizzare il pensiero dell’autore, o meglio portarlo alle sue logiche conseguenze. Ma su questo punto, su cui crediamo Formenti possa essere d’accordo, ritorneremo in seguito.
Soggetto e processo
Anche il titolo del terzo capitolo è esplicito e programmatico: archiviare l’operaismo. Non vi è solo una ripresa della critica liquidatoria del cosiddetto post-operaismo, al centro di Utopie letali e già presente in altri lavori di Formenti. In questo libro l’autore si propone di mettere una pietra sopra all’impianto originario dell’operaismo; tale tentativo va di pari passo con un parziale allontanamento dallo stesso Marx, nella presa d’atto di una distanza storica che ne renderebbe irriproponibili alcune delle tesi principali, a cominciare dalla contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione.
Date per buone le critiche a una certa teleologia sviluppista, o “mistica dell’evoluzione”, che connota alcune letture (post)operaiste, esse ci paiono insufficienti per l’ambizioso tentativo di archiviare l’operaismo. In particolare, la sua intera costellazione rivoluzionaria risulta ancora una volta schiacciata soprattutto su una figura, quella di Toni Negri, ricalcando così la semplificazione che ne viene data sul piano internazionale, o “cosmopolita” per usare un’espressione giustamente biasimata dall’autore. Non c’è per esempio traccia in queste riflessioni di una figura come Romano Alquati: non lo diciamo per semplice correttezza filologica, ma perché senza il confronto con Alquati è impossibile capire l’operaismo e un concetto come quello di composizione di classe, su cui Formenti si concentra in alcune pagine. Questa la definizione che ne viene data nel libro: “per composizione di classe si intende la relazione fra trasformazioni dell’organizzazione produttiva del capitale (composizione tecnica) e orientamenti strategici (obiettivi, pratiche di lotta e loro forme organizzative) dei vari strati di classe (composizione politica)”. Proprio dal mancato confronto con Alquati ci sembra derivi qui un equivoco di fondo, nella misura in cui i due termini sembrano riprodurre la dialettica marxista tra classe in sé o classe per sé, o comunque fissare l’esistenza di soggetti già dati: il soggetto costruito dal capitale da una parte, il soggetto rivoluzionario dall’altro. Sparisce dunque l’ambivalenza che sta dentro entrambi i termini, sparisce cioè il rapporto antagonistico non solo tra l’uno e l’altro, ma all’interno dell’uno e dell’altro, determinando i processi di assoggettamento e di controsoggettivazione della classe.
È proprio il processo che scompare. È come se si scattasse una fotografia del punto iniziale e del punto finale, descrivendo ex post la logica causale che ha portato dall’inizio alla fine. Invece a essere determinante nella formazione del punto iniziale e di quello finale è appunto il processo, lo sviluppo antagonistico del rapporto, il conflitto e la possibile rottura tra l’oggettività delle premesse e la soggettività delle conclusioni. In questo modo si rischia di arretrare dalla composizione alla stratificazione di classe, attribuendo a ogni segmento esclusivamente il ruolo dato dal capitale, ovvero pensando la soggettività come inevitabilmente determinata dalla funzionalità sistemica e non invece come un campo di battaglia.
Insomma, il punto di partenza e il punto di arrivo sono già dati, nel primo caso il militante arriva troppo presto, nel secondo troppo tardi. È il processo lo spazio dell’iniziativa e dell’azione politica, della ricerca sulle forze in campo e dell’anticipazione del loro possibile controsviluppo. Un giorno prima è troppo presto e un giorno dopo è troppo tardi, questo era Lenin; la ricomposizione della quantità di massa contadina con la qualità della tendenza operaia. Buttando via con l’acqua sporca della teleologia il bambino, cioè il metodo della tendenza, si finisce per rinunciare alle armi dell’organizzazione. Perché la tendenza rivoluzionaria non è previsione del futuro, ma scommessa sulla sua sovversione.
Oltre il populismo
Arriviamo infine all’ultima parte del libro, in cui la “variante populista” è delineata attraverso il confronto teorico in particolare con Laclau e una serie di esempi concreti, innanzitutto l’America Latina, poi Europa e Stati Uniti.
Va qui fatta una prima constatazione. A livello di massa il termine populismo si è ormai sempre più svuotato da determinazioni concrete, in misura direttamente proporzionale al suo occupare il centro delle cronache mediatiche, delle analisi politologiche, degli incubi incrociati a destra e soprattutto a sinistra. C’è poi un problema storico, cui faremo solo un breve accenno. Storicamente il populismo – per come si è configurato nella tradizione dei narodniki russi nella seconda metà dell’800 – designava la fiducia dei rivoluzionari nella spontanea capacità del popolo di creare e autorganizzare le proprie istituzioni, tanto da vedere in esse un socialismo che già esiste ed è da difendere dalla colonizzazione capitalistica. È chiaro quindi che le etichette di “populismo” appiccicate a destra e a sinistra poco o nulla hanno a che vedere con la sua realtà originaria; semmai, potremmo dire che teorici populisti sono coloro che ideologicamente si affidano alla spontanea capacità della cooperazione sociale di creare le proprie istituzioni, immaginando il co-working come la riedizione dell’obscina russa.
La categoria di populismo è quindi diventata non solo vuota, ma prettamente istituzionale, una sorta di scomunica verso chiunque non si allinei alla gestione dello status quo. Se lo usiamo come termine convenzionale, nella specifica declinazione che ne dà Formenti, rileviamo un paio di problemi. Il primo riguarda i soggetti in cui si incarna l’opzione populista, identificati dall’autore innanzitutto con coloro che sarebbe “fuori” o comunque ai margini dei processi di sussunzione del capitale. Gli esempi in particolare europei citati (i 5 stelle in Italia o Podemos in Spagna) mostrano però come la parte qualitativamente prima ancora che quantitativamente centrale sia in realtà individuabile nelle figure di un ceto medio impoverito e in via di declassamento. E configurano un’espressione politica (per quanto ambigua o molto diversa da quella immaginata) di quei processi di profonda stratificazione, gerarchizzazione e spaccatura dei lavoratori cognitivi che da tempo Formenti ben descrive, a differenza di chi resta ancorato a un’immagine dottrinale e smaterializzata del lavoro cognitivo stesso. Anche in questo caso, il punto non è solo vedere i soggetti come sono, ma come potrebbero diventare, cioè quale campo di possibilità per il conflitto si apre in figure che – anche volendo – non possono più vivere come prima. Ben sapendo che se tali possibilità non vengono organizzate in direzione ricompositiva, si sfogheranno in un’ulteriore e violenta frammentazione. Qui servono ricerca, capacità di anticipazione, voglia di scommettere politicamente.
Conseguentemente, il secondo problema – su cui tuttavia crediamo che la convergenza sostanziale con Formenti sia maggiore delle questioni nominalistiche – è che non si tratta di dare una declinazione di sinistra al “populismo”, quanto invece una declinazione di classe. La sinistra è ormai irrevocabilmente assestata su posizioni frontiste a difesa di una mitologica democrazia che del capitale è stata la principale alleata. A questo punto, possiamo spingerci più avanti rispetto alla retorica del populismo fagocitata dalle istituzioni: l’obiettivo è di trasformare la lotta tra basso e alto in lotta di classe contro classe, ovvero trasformare la cosiddetta anti-politica in contrapposizione al sistema politico. In questo senso siamo ora in grado di riprendere la frase di Franceschini e dare pienamente corpo al suo terrore: la divisione oggi non è tra destra e sinistra, ma tra sistemisti e anti-sistemisti.
Proprio qui pensiamo di poter riscontrare la sintonia centrale, l’accordo di fondo, con Formenti: la ricerca del punto di rottura, della divisione tra amico e nemico, di ciò che spacca la stabilità e non di ciò che la sutura o conserva. Senza paura di muoversi nell’ambiguità, nel pericolo, in terra infidelium. Perché un rivoluzionario che ha paura di rischiare non è un rivoluzionario.
Fonte: commonware.org
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