di Juan Cole
La vittoria di Donald Trump alle presidenziali del 2016 non ha solo implicazioni nazionali. Il Medio Oriente è stato un punto fondamentale della strategia politica degli Stati Uniti nel periodo successivo alla guerra fredda. George W. Bush si è occupato di quest’area più che di altre nel mondo, e ancora oggi si discute dei suoi metodi. Barack Obama ha cercato di spostare l’equilibrio verso l’estremo oriente, ma si è trovato coinvolto nelle questioni mediorientali a causa delle primavere arabe del 2011 e delle loro conseguenze, e dell’ascesa del gruppo Stato islamico (Is) in Iraq e in Siria. Che impatto avranno, adesso, le politiche di Trump sulla regione?
Una delle difficoltà nel rispondere a questa domanda sta nell’indole megalomane di Trump che si è spesso schierato da entrambi i lati di una questione controversa. Per esempio ha criticato i suoi predecessori per essersi invischiati troppo negli affari mediorientali, ma poi, a un certo punto lo scorso marzo, ha proposto di inviare una divisione di ventimila o trentamila soldati statunitensi per combattere l’Is. Ma è possibile che l’Is come entità territoriale sia già sconfitto prima che Trump entri in carica.
C’è poi da chiedersi se, considerata la volubilità delle sue affermazioni e del suo comportamento, il governo e l’inamovibile burocrazia di Washington – lo “stato nello stato” – gli consentiranno di modificare radicalmente la linea della politica estera statunitense.
Effetti collaterali in Siria
Ma supponiamo che in casi specifici ottenga il sostegno politico necessario e che gli sia realmente consentito di realizzare i suoi obiettivi.
Trump ha detto che gli interventi in Iraq e in Libia sono stati un errore e che preferirebbe lasciare Bashar al Assad da solo a Damasco. Ha anche ripetutamente sollecitato una collaborazione tra gli Stati Uniti e la Russia contro il gruppo Stato islamico in Siria. Se desse seguito a queste affermazioni, potrebbe ritirare il sostegno alle circa trenta milizie ribelli “accreditate” dalla Cia e appoggiate al momento in Siria, che stanno cercando di rovesciare il regime baathista di Assad.
Molte di queste milizie siriane sono sostanzialmente fondamentaliste e alcune di esse hanno talvolta stretto alleanze di convenienza sul campo di battaglia con gli affiliati siriani di Al Qaeda, che oggi si chiama Jabhat fateh al Sham (Jfs). Il Jfs è un obiettivo primario del presidente russo Vladimir Putin (molto più di quanto lo sia l’Is) e Mosca tende a considerare “terroristi” tutti i gruppi ribelli fondamentalisti. È possibile che l’amministrazione Trump adotti la definizione russa e volti le spalle ai gruppi “accreditati”. Dal momento che la Cia presumibilmente si serve dell’Arabia Saudita per far arrivare finanziamenti ai ribelli fondamentalisti, se Trump dovesse abbandonarli, causerebbe di sicuro attriti con Riyadh.
La monarchia saudita e i suoi alleati nel Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) la leggerebbero come una capitolazione dell’amministrazione Trump di fronte a Putin in Siria, come una politica di non intervento verso Damasco e, de facto, come l’accettazione del dominio iraniano in Siria e in Libano.
Questo risultato non può essere il reale obiettivo di Trump, ma sarebbe l’effetto collaterale del consegnare la politica siriana a Mosca, poiché sia la Russia sia l’Iran vogliono mantenere Assad al potere. Questa posizione, inoltre, aumenterebbe il nervosismo all’interno del Ccg, già convinto che Barack Obama li abbia abbandonati quando ha cercato un riavvicinamento con l’Iran. Oltre ciò, la minaccia di Trump di revocare l’ombrello di sicurezza statunitense su Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman se non pagheranno il dovuto, ha già provocato un bel po’ di ansia. Le monarchie del Golfo potrebbero reagire diversificando le loro relazioni di sicurezza. L’Arabia Saudita ha già mostrato aperture alla Cina e di recente, per la prima volta, ha tenuto esercitazioni militari congiunte con Pechino.
Il sempre più autoritario presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che pure sostiene le milizie fondamentaliste in Siria, si sentirebbe piantato in asso nel caso di un’intesa fra Trump e Putin sulla Siria. Al momento, comunque, sembra aver fatto marcia indietro sulla precedente minaccia di negare all’amministrazione Trump l’accesso alla base aerea di Incirlik, fondamentale per gli Stati Uniti nella campagna contro il gruppo Stato islamico.
D’altro canto, la determinazione di Trump di annullare il Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa), che limita il programma nucleare iraniano ad attività strettamente civili in cambio di un allentamento delle sanzioni, potrebbe far piacere alle monarchie petrolifere del golfo Persico; sempre se andrà fino in fondo. Il ministro degli esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, ha già esortato la nuova amministrazione a rispettare l’accordo.
Tuttavia, la guida spirituale dell’Iran, Ali Khamenei, che ha sempre avuto un atteggiamento ambiguo sull’accordo, ha dichiarato che non sarebbe un problema se gli Stati Uniti lo cancellassero. Le probabilità di una rinegoziazione positiva del Jcpoa sembrano scarse e non è chiaro quali altre rinunce possa fare l’Iran. Ha già spento il reattore ad acqua pesante di Arak, ha dato il via libera alle ispezioni a sorpresa dell’Onu, ha ridotto le scorte di uranio a basso arricchimento e ha diminuito enormemente il numero delle centrifughe operative.
Difficilmente le sanzioni statunitensi, da sole, potranno riportare l’Iran al tavolo delle trattative, ed è ancora meno probabile che i partner europei degli Stati Uniti siano disposti a rinunciare alla prospettiva d’investimenti in Iran per unirsi a un nuovo round di sanzioni in nome di un ipotetico “accordo migliore”. La riluttanza europea aumenterà con l’invito di Trump ad andare ognuno per la propria strada e a sciogliere le organizzazioni multilaterali guidate dagli Stati Uniti come la Nato.
Le contraddizioni pericolose
Il gigante petrolifero francese Total ha già deciso di finanziare un progetto iraniano sul gas in euro invece che in dollari e di accettare pagamenti dall’Iran sotto forma di baratto (in concentrati di gas, che venderà sul mercato mondiale). Il progetto, ora legale secondo il diritto internazionale nonostante le continue sanzioni statunitensi, potrebbe essere ancora considerato illegale dal dipartimento del tesoro, specialmente sotto un’amministrazione Trump.
Tuttavia, se non è stata utilizzata alcuna risorsa statunitense, l’ufficio di controllo dei beni stranieri del tesoro non ha basi per sanzionare la Total. Una crisi diplomatica tra un’amministrazione Trump determinata a costringere l’Iran a un accordo ancora più rigido sul nucleare e un’Unione europea interessata a nuovi centri di profitto come l’Iran, potrebbe rovinare le relazioni tra Washington e i suoi alleati tradizionali. È altrettanto difficile immaginare che Putin voglia tirarsi indietro dal Jcpoa che il suo stesso governo ha contribuito a negoziare.
La politica di Trump, così come è stata annunciata, contiene contraddizioni rilevanti. Lasciare Assad al potere in Siria significa accettare il persistere del potere iraniano in Medio Oriente. Revocare l’accordo sul nucleare con l’Iran, però, costituisce un tentativo di bloccare e isolare il paese finanziariamente. Un obiettivo difficilmente raggiungibile dato che il resto del mondo non apprezzerebbe la prospettiva di perdite economiche dovute a quello che può essere interpretato come un capriccio. Inoltre, la Russia, con cui Trump desidera collaborare in Siria, si opporrebbe sicuramente a ogni modifica del Jcpoa, data l’alleanza di convenienza tra Mosca e Teheran.
Insistere perché il Consiglio di cooperazione del golfo fornisca truppe di terra per combattere il gruppo Stato islamico oppure paghi per l’assistenza militare di sicuro non riscuoterebbe l’accordo di questi grandi produttori di petrolio. Entrambe queste politiche, verso l’Iran e verso l’Arabia Saudita, causerebbero gravi tensioni in una regione già molto inquieta.
Questo articolo è uscito sul settimanale statunitense The Nation.
Traduzione di Sonia Grieco
Fonte: Internazionale
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