di Sergio Cesaratto
Il dibattito fra economisti su Il Fatto e il manifesto ha visto la contrapposizione fra quelli dell’euro reversibile che cercano di guardare con freddezza oggettiva a costi e vantaggi dell’uscita, e quelli della irreversibilità dell’euro che mancano di proporre un’alternativa alla morte lenta del Paese, limitandosi a frettolosi allarmismi. “Di doman non v'è certezza” per tutti, ma un’evidenza a favore dei primi è che con l’euro il Paese è andato di male in peggio. E vi sono altre certezze a loro favore. La prima è che l’euro entrerà in crisi se e quando in uno o più Paesi esso si rivelerà politicamente insostenibile. L’Italia è una candidata naturale. Come in tutti gli eventi catastrofici, un crollo dell’Italia scaturirà dal combinato disposto di varie cause.
Per esempio l’impossibilità per un governo privo di una sua banca centrale di far fronte a una crisi bancaria che col bail-in penalizzi milioni di risparmiatori (e all’orizzonte sta scomparendo la prospettiva di un fondo di salvataggio europeo sui depositi se non a condizioni capestro per l’Italia); aggiungiamoci i costi della ricostruzione post-terremoto se non a costo di tagli a sanità e istruzione; e magari una sconfitta di Draghi (col mandato comunque in scadenza): se terminasse il QE, l’economista francese Artus prevede che Italia e Spagna debbano entrare in un programma di salvataggio, conosciuto anche come TROIKA. Le incertezze post-Trump sono alle stelle, e un sostegno all’industria Usa attraverso una svalutazione del dollaro potrebbe estinguere la fragile crescita europea, facendo ripiombare noi nel sottozero (v. Giorgio La Malfa, Il Mattino,11 nov.). Supponiamo allora che la risalita degli spread (già belli alti) e/o auspicabili proteste popolari costringano il Paese a scegliere fra Troika e uscita. Con la Troika il Paese languirà, ancor più di ora, coi risparmiatori impoveriti, col suo cuore artistico trasformato in un nuovo Belice, con la bella gioventù scomparsa per il crollo demografico o all’estero, con le città trasformate in suk. Ma c’è qualche ulteriore certezza.
Se oggi il Paese potesse d’incanto riacquistare la sovranità monetaria, i suoi fondamentali economici, sebbene danneggiati, assicurerebbero una sufficiente stabilità, con una contenuta svalutazione e un’inflazione moderata - uno studio condotto a Sciences-Po a Parigi (Durand e Villemot 2016) prevede persino una rivalutazione della nuova-lira. Nessun allarmismo economico di quelli denunciati a suo tempo da Federico Caffè, dunque. Naturalmente il dopo non sarebbe facile, e politiche espansive, pur agevolate dalla flessibilità del cambio, richiederanno misure di controllo dei movimenti di capitale ed eventuali misure commerciali, ma tutte nel bagaglio della politica economica prima della sbornia liberista. E ovviamente dall’euro non s’esce d’incanto, né sappiamo in quale scenario: uscita di uno o più Paesi del sud, euro sud/euro nord e via dicendo. Una certezza condivisa è che l’uscita della Germania sarebbe l’evento più indolore. Un’uscita unilaterale sarebbe più complicata. Ma problemi e piani per affrontarli vanno resi noti per quanto possibile all’opinione pubblica, anche se ha ragione Gawronski (Il Fatto, 8 nov.) che mai la scelta si presentasse, la discussione non potrà andare oltre una seduta parlamentare in un week end, a mercati chiusi.
Nato con l’intento di restituire ai popoli il senso della durezza del vivere (come ebbe a dire Tommaso Padoa-Schioppa), è vero che l’euro è una trappola per topi, quelle a gabbietta con la groviera tedesca dentro. Ma anche da Alcatraz si fugge. Relative certezze sono che, una volta usciti, il ripristino dei sistemi di pagamento fra le banche (da cui dipendono i nostri bonifici ecc.) non costituisce un problema drammatico: impensabile che la Banca d’Italia, che è fra i gestori del sistema Target 2, non abbia piani al riguardo, e Paesi fuori dall’euro partecipano al sistema. Nuove banconote richiederanno più pazienza - ma cosa sono alcune settimane rispetto a un declino secolare? Problemi più seri riguardano i debiti esteri: qualora non ridenominabili da euro a nuova-lira, il deprezzamento di quest’ultima (sebbene contenuto) ne accrescerebbe il valore reale. Tuttavia oscillazioni dei cambi sono la norma della storia economica, senza che ciò scateni necessariamente crisi finanziarie. Gli studi disponibili, come quello citato di Sciences-Po che aggiorna quello di Nordvig e Firoozye, sebbene mostrino la dimensione seria del problema, smentiscono allarmismi roboanti. Il debito pubblico italiano è in massima parte ridenominabile in lire e soggetto comunque alla giurisdizione dei tribunali italiani.
La scomparsa tout court dell’euro, la Lehman Brothers al quadrato, è un caso estremo, di cui non potrà certo essere colpevole un gruppo di economisti preoccupato delle sorti del proprio Paese. Qualunque sia il crollo a cui potremmo assistere, esso sarà il risultato oggettivo della insostenibilità politico-sociale dell’euro, e questo è in un certo senso rassicurante perché a crisi politica si risponde con soluzioni politiche, nessuno vorrà il caos permanente, locale o globale. Certo, la soggettività di chi denuncia il disegno anti-costituzionale che è dietro l’euro e l’impossibilità del “più Europa”, se non nella forma di un federalismo ordoliberista (di cui la riforma Boschi è battistrada), può contare qualcosa nel minare la sostenibilità politica della moneta unica. Ma cosa dovremmo fare, tacere?
Preoccupa invece che economisti dal solido curriculum scientifico, già ben redarguiti da Gawronski, sottoscrivano argomenti da social network alla caccia di contraddizioni nei critici dell’euro sulla base della loro firma a un appello o perché studiano diligentemente i precedenti storici. Si concorre così a far scadere il dibattito, non capendo che il catastrofismo alimenta il populismo, Trump docet.
Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano
Fonte: politica&economia blog
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