Intervista a Carmelo Romeo e Luciano Trina di Nicolas Martino
In queste settimane stiamo pubblicando le immagini di alcune azioni e mostre pubbliche collettive, la serie N.d.R., gli Avvisi alle popolazioni, le copertine della rivista Aut.Trib.17139, e in particolare alcune opere di Carmelo Romeo e Luciano Trina, che a quelle iniziative parteciparono o che organizzarono direttamente. Protagonisti di un percorso artistico e politico particolarmente interessante, in questa lunga conversazione proviamo a ricostruirlo. Per tutte le informazioni e altri approfondimenti rimandiamo al sito arteideologia.
1. Se nel presentarvi dicessi che siete artisti sareste d’accordo? Ovvero vi riconoscete nella definizione di artista, e che cos’è per voi un artista?
R – Ci metti in difficoltà, tenuto conto che una delle prime cose che abbiamo realizzato è stato un timbro con il quale annullavamo i nostri dati anagrafici trascritti in certificati e carte di identità, e naturalmente tra questi dati da disconoscere era incluso pure quello della «professione».
T – Se però ti viene facile puoi definirci anche artisti. Terremo presente che in questa circostanza non è una provocazione o un insulto, e serve a ricordarci che viviamo la divisione sociale del lavoro e la spartizione diseguale delle risorse.
R – Questo concetto lo hanno espresso meglio i giovani americani di Occupy Wall Street, che non sono comunisti ma solo pragmatici e non ideologizzati come i vecchi europei. Tieni conto che noi rovesciamo la visione corrente che vuole che ogni periodo storico trovi la propria espressione attraverso uomini «illustri», e adottiamo quella precisamente contraria per cui ogni periodo storico produce uomini più o meno dotati di talento. Giusto per tirar via, possiamo dire che la diversità fra la scultura di Policleto, Antelami, Michelangelo, Thorvaldsen o Brancusi, non è altro che la diversità fra le epoche nelle quali essi vissero. Ma oggi l’artista è così vecchio che tanto oramai l’arte si fa da sola, come i sentieri nei giardini di Kensington.
2. Siete marxisti? Avete militato anche in qualche gruppo politico organizzato?
R – Preferiamo riferirci a noi stessi come comunisti, anche se è diventata una parola imbarazzante. Ma siamo su un terreno che richiederebbe troppe precisazioni teoriche e storiche che ci porterebbero in posti frequentati da pochissime persone, e quasi nessuna affetta da «creatività artistica». Per venire invece a chi se l’è presa, ognuno di noi due e di quelli con cui abbiamo lavorato avevano posizioni differenti da rivendicare, raccolte tutte in quella nebulosa che, giusto per capirci, diciamo di sinistra. In quella confusione teorica, credo che noi siamo partiti con in tasca forse solo una fin troppo facile parafrasi da Marx, per le quale gli artisti avevano finora rappresentato in vari modi il mondo, si trattava invece di trasformarlo. Ma la rivoluzione non è frutto della volizione, e la trasformazione è affidata all’agire di una forza storica reale e materiale, non certo a prassi artistiche o all’immaginazione. La nostra concezione considera l’arte strettamente legata ed inseparabile dall’intera produzione della vita materiale; la sua propria storia è solo una specifica manifestazione, un aspetto del modo di vivere delle società umane. E se il modo di vivere diventa incerto e confuso e la vita stessa perde di senso, anche le cose e la loro produzione perdono di senso. Allora si tratta di capire il verso di queste perdite, il retro e la sua direzione futura. Così, dopo tanti anni, possiamo anche riconoscere di non aver fatto altro che mantenere il punto, e prendere atto che questo era precisamente ciò che dovevamo fare su di un terreno ingombro di strascinamenti estetici pervasi dall’ideologia dominante e impeciato di falsificazioni storiche decorate a più mani.
T – Comunque, se vuoi sapere se noi due siamo mai stati iscritti, simpatizzanti o espressioni di qualche partito, parlamentare o extraparlamentare, la risposta è decisamente negativa. Negli altri con cui abbiamo lavorato finora, si potevano registrare dei tratti nichilisti o anarchici, o erano assidui di gruppi operasti extraparlamentari; c’erano fuoriusciti del Manifesto ed elementi internazionalisti; alcuni, ispirati dal gramsciano «intellettuale organico», erano vicini al partito comunista di allora o al sindacato scrittori. Insomma, stavamo tutti nel paniere assortito dagli anni Settanta, ma quelli attuali non mi sembrano meno confusi.
R – Se sul versante politico non esistevano i presupposti per un unico orientamento, sul versante artistico si era tuttavia polarizzata la possibilità di una «intesa» operativa tra elementi di una certa area politica. L’appartenenza partitica era un dettaglio personale che non impediva a ciascuno di rappresentare uno specifico nodo operativo in una rete di lavoro costituita da legami forti e deboli che si attivava per concretizzare determinate iniziative pratiche o elaborazioni teoriche. Ma a questa descrizione sintetica della situazione in cui operavamo allora siamo arrivati solo da poco tempo; prima si dovevano spegnere tutti gli ardori giovanili degli anni Settanta, e poi ancora attendere che venisse la tecnologia a darci una mano fornendoci, con il modello e i termini per riconoscerla, anche la forma per risolverla.
3. Nel 1970 fondate il «non gruppo Erostrato» che rimane attivo fino al 1975. Perché il riferimento al noto incendiario della Grecia antica, e qual era l’impostazione del lavoro che portavate avanti?
T – Ricordo che all’epoca si parlava di «committente di riferimento»; la cosa ci divertiva perché dimostrava che gli artisti non riuscivano proprio a fare a meno di un Principe personale, e per lavorare se ne dovevano trovare per forza uno, a costo di andarselo a prendere nel loro cervello. Allora, se ne poteva anche immaginare uno che era andato per le spicce, come ad esempio Erostrato.
R – La tradizionale sentenza che ha trattato Erostrato come un criminale che voleva immortalare il proprio nome nella storia quadra troppo con il radicato senso di venerazione verso l’arte e l’individualismo di epoche più recenti per non diffidarne. Erostrato ci è piaciuto vederlo come un pastore che sulla spianata del tempio voleva solo farci pascolare le pecore, da sacrificare magari agli uomini, mai più agli Dei; un rivoluzionario, insomma, cioè un demolitore di forme. E così, con l’aggiunta di Erostrato ai classici Prometeo e Spartaco guadagnavamo l’iconoclastia e il proposito di procedere fino a criticare noi stessi. Ma intanto bisognava avere tra le mani l’oggetto su cui esercitare l’analisi, e allora uno ci provava con la pittura o la scultura.
4. Qual era, soprattutto a Roma, la scena dell’arte negli anni Settanta, e come vi collocavate singolarmente e come gruppo rispetto a essa?
T – C’era chi orbitava attorno alla Tartaruga, all’Attico di Sargentini o alla Salita di Liverani. Poi giravano ancora quei pittori sindacalizzati che facevano del realismo in onore dei partiti socialisti o comunisti nazionalpopolari, e che dopo il ’68 pensavano di aver ancora qualcosa da dire anche da morti. Tutti indistintamente restavano attenti agli spifferi delle segreterie politiche. Nomi e vicende sono noti. Anche se molto di tutto questo si svolgeva nell’area di Piazza del Popolo, dove alcuni di noi vivevano, ci si poteva pure incontrare casualmente, poi ognuno tirava via.
R – Non si può dire, e non l’abbiamo mai detto, che eravamo un «gruppo» per come lo si intende comunemente. Eravamo in cinque, una specie di pattuglia che si era aggregata per caso e che procedeva senza collegamenti. Ognuno metteva in comune con gli altri le risorse di cui disponeva, sia teoriche che lavorative; sulle prime guardando particolarmente al Suprematismo o al Costruttivismo e anche alle correnti più attuali, poveriste o concettualiste. Non abbiamo mai buttato via nulla per principio.
T – Per vivere facevamo dell’altro e quindi non stavamo lì ad escogitare strategie per procurarci delle referenze. È stato ancora il caso e qualche circostanza un po’ forzata a fare incontrare la nostra autonomia, ad esempio, con Nancy Marotta, con Fabio Mauri o con Tullio Catalano; la nostra continuità con Cesare Pietroiusti, con Lucrezia de Domizio o con Dora Garcia.
5. Oltre agli «Uffici per l’Immaginazione Preventiva» avete avuto rapporti, per esempio, con gli Incontri Internazionali d’arte di Palazzo Taverna organizzati da Graziella Lonardi Buontempo e Achille Bonito Oliva?
T – Abbiamo avuto ben altro che dei semplici rapporti con gli Uffici, e fin dalla loro costituzione, se non addirittura prima che si formassero sulla base di una ispirazione marxista, in noi preesistente. L’idea di aprire degli «uffici» richiamava infatti quell’Ufficio di Corrispondenza fondato nel 1846 a Bruxelles da Marx e Engels allo scopo di creare una rete di lavoro, e già questo rispecchiava i nostri stessi intendimenti.
R – Con gli Uffici si presentava quella vocazione organizzativa che alcuni dei suoi elementi, soprattutto Tullio Catalano, traevano dal Surrealismo, e che da loro veniva resa con la formulazione concisa di alcuni proponimenti estetici dalle valenze operative; concetti come «immaginazione preventiva», e denominazioni come «Società per Azioni» o Imprinting, non potevano mancare di suscitare il nostro interesse. Oggi posso dire che si anticipava in qualche modo quella prassi artistica che solo recentemente viene chiamata «relazionale». Con gli Uffici la forma organizzativa stessa intendeva presentarsi come compiuta forma estetica; e ritengo che questo sia stato il loro contributo più interessante e significativo, il resto è secondario. Come del resto è secondario tutto ciò che abbiamo fatto e facciamo noialtri rispetto alla messa in opera di Forniture Critiche.
T – Riguardo agli Incontri Internazionali, facemmo pure una mostra come Area Operativa di Base nel corso di una rassegna del Centro di Informazione Alternativa di Achille Bonito Oliva. Tramite alcuni elementi degli Uffici non eravamo estranei a quell’ambiente.
6. Nel 1973 si tiene «Contemporanea» a cura di Achille Bonito Oliva nel parcheggio di Villa Borghese, una mostra che voleva documentare anche la scena alternative e militante dell’arte. Voi vi avevate preso parte? Qual era il vostro giudizio su quella mostra?
R – Achille Bonito Oliva non si curò né di noi né degli Uffici. In occasione dell’inaugurazione di Contemporanea noi ci limitammo a inviare per posta dei comunicati e a far circolare e diffondere un Certificato per il superamento dei limiti da Stato e di Storia, di cui solo Berenice (una popolare redattrice di Paese Sera) ne rese conto. Probabilmente Achille diffidava dei personaggi, e forse solo in seguito ebbe qualche ripensamento, come si indovina dalla sua successiva attività agli Incontri Internazionali.
T – In quell’articolo di Berenice, più lungo dei suoi soliti, mi pare ci fosse anche qualche considerazione interessante; ma non abbiamo più la pagina, che forse dovremmo proprio recuperare dall’archivio dell’Emeroteca di palazzo Mattei. Che dire infine di Contemporaneae di Achille? Una bella pensata.
7. Negli anni Settanta avete collaborato anche con Fabio Mauri, c’era una affinità nelle vostre rispettive ricerche?
T – Per diverso tempo avevamo prodotto manifesti in sostegno delle lotte sociali e in particolare del movimento per l’occupazione delle case, e Fabio Mauri, su indicazione di Gino Marotta, ci chiese se potevamo fare anche per lui delle serigrafie. Erano i primi mesi del 1970, noi stavamo preparando la mostra Appunti per Erostrato, ma accettammo di stampare delle grandi serigrafie su tela olona colorata che vennero montate su telai per allestire lo spazio di Fabio Mauri alla mostra Amore mio a Montepulciano.
R – In seguito con Fabio ci fu una frequentazione abituale e spesso parlavamo del rapporto tra arte e politica, un argomento verso cui si mostrava sempre più interessato. A me del suo lavoro interessavano di più i suoi «schermi»; e difatti dopo qualche tempo gli consegnai uno studio che riguardava la superficie in pittura e lo schermo, di cui persi quasi memoria finché non lo rividi pubblicato venti anni dopo, nel catalogo della sua mostra alla GNAM del 1994. Non so neppure se quel mio studio fosse stato capito, perché Fabio traduceva tutto in impegno civile, in testimonianza morale e storica, mentre tra noi circolavano anche orientamenti analitici e concettuali.
T – Una volta ci disse che una giovane critica d’arte, incontrata durante l’inaugurazione della mostra Ebrea alla Salita di Liverani, gli aveva chiesto chi fossero gli artisti che lui teneva in maggior considerazione; e quando Fabio indicò noi e i componenti degli Uffici, il commento che seguì non fu proprio dei migliori. Probabilmente lei si aspettava di sentire da Mauri dei nomi più venerabili.
R – Credo proprio che le affinità con Mauri, se ci sono, vadano cercate in una comune concezione dell’arte come prassi sociale e conseguente «prender partito». Detto così è troppo generico, e non si può comprendere il rapporto che avevamo con Fabio se si trascura, oltre alla stima reciproca, la vicinanza umana e amicale che aveva stabilito specialmente con alcuni di noi.
8. Nel 1972 organizzate alla galleria Mana di Nancy Marotta «Germinal», una mostra accompagnata da una lettera «Sulla mercificazione dell’opera d’arte», indirizzata a un critico d’arte dal nome, così dicevate, ormai dimenticato? Era indirizzata a un critico in particolare o alla critica in generale? Quali sono stati i vostri rapporti con i critici d’arte, e per esempio con Filiberto Menna?
R – Quella lettera è stata proprio una riflessione in risposta ad una reale conversazione avuta con un critico, di cui veramente ho dimenticato il nome, che ci imputava l’incongruenza di essere «comunisti» che però producevano delle «merci». Riletta oggi in quella lettera si potrebbe precisare qualche passaggio, ma sostanzialmente regge ancora.
T – In genere il rapporto con i critici è stato sporadico e accidentale. Tullio Catalano avrebbe potuto rispondere più dettagliatamente a questa domanda. Lui stesso era stato per diverso tempo un critico attivo e conosceva tutti i critici «militanti», come si diceva allora. Aveva anche affiancato Politi per far nascere «Flash Art», e per le nostre iniziative metteva in movimento un po’ tutto l’ambiente. Noi lasciavamo andare le cose per il loro verso, così capitava pure di rimanere sorpresi quando qualche critico d’arte citava il nostro lavoro in un articolo o in un libro. Una qualche attenzione ci riservavano Filiberto Menna e Alberto Boatto, Achille Bonito Oliva, Bruno Corà, e pochi altri. Comunque sia andata, credo che noi e gli Uffici dai critici non abbiano ricavato molto di più che spunti occasionali per qualche buona riflessione.
R – Tuttavia, sono ancora convinto che Menna in uno scritto del 1980 ci riservò una piccola stoccata, che purtroppo rimase senza replica. E lo dico così, tanto per dire che non c’era poi tutta questa la voglia di andare a fondo, quanto quella di andare avanti. Detto questo, è da ritenere che le ridotte relazioni e i quasi inesistenti dibattiti con i critici o artisti locali e nazionali, hanno favorito una certa separatezza che ci risparmia la sentenza analoga a quella che Nizan indirizzava ai filosofi, per la quale gli artisti finiscono sempre per lasciar intravedere le persone con cui bazzicano. Sicuramente questo distacco non era preso in nome di un qualche principio, semplicemente risultava esserci, e basta. Sto anche pensando che deve certamente essere sintomatico il fatto di non avere da parte quasi nessuna foto di noi assieme ad altri o in certe situazioni. Ma questo vuol dire che proprio non ci pensavamo a farle o a farcele fare, non eravamo mica Gilbert & George.
9. Il rapporto tra arte e mercato è un rapporto conflittuale? Sottrarsi alla cattura del mercato può significare mettere in atto un’opera di sottrazione e smaterializzazione dell’opera?
R – Nessun conflitto: specialmente oggi che forse solo ricorrendo all’adozione di vistosi anacronismi tecnici e istituzionali si può ingannare il pubblico di essere davanti ad un’opera d’arte piuttosto che ad una sua caricatura che darà del filo da torcere agli archeologi del futuro. Ma questo per noi è un gran risultato raggiunto dal cammino dell’arte, e dimostra che quella vecchia talpa della rivoluzione continua a scavare bene anche sotto i piedistalli dei feticci culturali. La volontà, poi, di sottomettersi o di sottrarsi al mercato, di materializzare o smaterializzare l’opera, non conta nulla per il semplice fatto che tutto questo si è già realizzato ed è in atto, anche se nessuno ancora se ne capacita e tiene d’occhio le apparenze che non coincidono mai con i fenomeni reali. E l’opera d’arte attuale è più un epifenomeno che altro.
T – Ma cosa vuoi che importa se uno fa o non fa, aggiunge o sottrae un prodotto, sia pure pomposamente definito artistico, quando ci sono depositi chilometrici di merci invendute e flotte di cargo giganteschi che non trovano più un molo dove scaricare container ricolmi di prodotti high tech che nessuno compra.
R – Giravolte politiche o economiche e trovate estetiche che credono di poter incidere con la volontà sul processo storico per modificare lo stato attuale sono tutte manifestazioni reattive al marasma sociale in cui ci troviamo, ne vediamo gli aspetti e ce ne terrorizziamo. Certamente questo produce anche interessanti tentativi pratici per resistere, ma è altrettanto certo che neppure la loro somma basterà per uscirne. Ma, poiché ci siamo detti rivoluzionari, dobbiamo dirci anche ottimisti di venirne fuori.
T – Decisamente, se l’artista è troppo vecchio per l’arte, anche la sua opera lo è. Detto questo, dopo che si sono capite certe cose uno è libero di fare o di non fare, materializzare o smaterializzare tutto ciò che gli pare e piace, visto che questo è proprio ciò che il capitale ha sempre fatto con tutte le cose degli uomini, che oramai gli sono proprio totalmente indifferenti.
R – Non ci piace affatto parlare in certi termini, e specialmente in questa occasione. Ma nel quadro d’insieme non poteva mancare una tensione che a volte raggiungiamo involontariamente anche nelle riunioni con altri gruppi di lavoro con cui ci colleghiamo settimanalmente tramite skype.
10. Sempre nel 1973 nasce, dall’ex «non-gruppo Erostrato» la «Frazione Clandestina». Se non sbaglio si trattava di un gruppo interno all’ «Ufficio per l’Immaginazione Preventiva» (fondato da Maurizio Benveduti, Tullio Catalano, Giancarlo Croce e Franco Falasca). Ci potete spiegare meglio in cosa consisteva l’attività della «Frazione Clandestina» e come funzionavano i rapporti con l’«Ufficio per l’Immaginazione»?
R – La Frazione Clandestina si forma del tutto unilateralmente come un preventivo Ufficio (clandestino) per l’immaginazione (clandestina) operando autonomamente dagli altri Uffici,con i quali tuttavia collaborava.
T – Praticamente la Frazione Clandestina si avvia diffondendo per posta tutta una serie di Informative politiche, proseguendo quell’attività di mail art avviata dagli Uffici con l’iniziativa di S.p.A.. Ha poi affiancato altre iniziative degli Uffici, come gli interventi per N.d.R. e i quaderni di Imprinting. Del tutto autonomamente la Frazione realizzò degli incontri pubblici sulla Geometria della Gediqureusi, organizzò delle proiezioni su richiesta di pellicole e nastri RVM, coordinò gli incontri di lavoro comune nel Convento Occupato e fondò la rivista Aut.Trib.17139, supportata da elementi provenienti dalla rivista La Comunee dall’Ufficio di Tullio Catalano.
R – Comunque per noi due la Frazione è soprattutto una linea ostinata che ci collega idealmente al nostro Erostrato del 1970, nella quale far convergere ogni iniziativa, comune o individuale, svolta prima di costituirci come Forniture Critiche nel 2004.
T – Nel nostro sito credo ci sia tutto quanto è necessario per ricavare un quadro chiaro delle vicende. Della parte che riguarda gli Uffici dobbiamo dire che al momento di costituirci come Forniture Critiche, ed in seguito, l’unico superstite degli Uffici iniziali non rispose all’invito di partecipare o collaborare al sito e, per quanto disponibile, provvedemmo noi a sistemare la loro documentazione.
11. È all’interno di questa collaborazione che partecipate a «N.d.R.», un’iniziativa voluta da Maurizio Benveduti e Tullio Catalano: una serie di opere di artisti diversi che si succedono su un cartellone pubblicitario a Porta Portese, un progetto a lungo termine, iniziato nel 1973 e conclusosi nel 1979, al quale hanno partecipato tra gli altri Shusaku Arakawa, Gabor Attalai, George Brecht, Giuseppe Chiari, Claudio Cintoli, Francesco Clemente, Fernando De Filippi, Robert Filliou, Gerz, Peter Hutchinson, Vettor Pisani, Terry Smith e Jlia Soskic. Ci potete dire qualcosa in più sulla vostra partecipazione e sul progetto in generale?
T – Ci rattrista che a questa domanda non possano più rispondere né Tullio né Maurizio; e noi non ce la sentiamo di aggiungere parole a quello che loro hanno già detto al proposito e riportato nel nostro sito. Posso tuttavia dire che il mio intervento sul cartellone N.dR. fu un’affermazione contro l’indifferenza.
R – Detto così semplicemente sembra riduttivo e invece è efficace; e forse è anche una frecciata alla mia petulanza, che però non cede. A me interessava contrapporre, alla visione gradualista dello sviluppo storico, una visione catastrofista desunta dalla teoria del matematico René Thom. Sul cartellone di N.d.R. l’immagine dei due grafici e della didascalia, che si poteva leggere solo avvicinandosi, non favoriva certo all’efficaciadell’affissione; ma questa conta in parte. Ciò che importa del funzionamento di un metodo o di un sistema, sociale o termodinamico e forse anche estetico, è il rendimento. Così ho inseguito il rendimento di quell’immagine, riproponendola in periodi diversi agli Incontri Internazionali o in Aut.Trib. 17139 e in altre occasioni più recenti, per metterla in salvo dalla provvisorietà delle circostanze espositive.
T – In effetti i lavori affissi dai vari autori sul cartellone di N.d.R. erano tutti degli originali «a perdere»; e questo solo fatto, al netto di ogni altra considerazione, sistemava le nostre due affissioni sotto la costellazione di Erostrato e in linea con la Frazione.
R – Spero solo che a nessuno venga in mente di sistemare l’N.d.R. sotto l’etichetta della street art, perchè non lo era affatto. Stavamo in Italia e a Roma negli anni Settanta. Ricordo che molto dopo, nei primissimi anni ’80, vedendo i lavori di Jenny Holzer e simili, Tullio commentò che quella roba lì noi l’avevamo già fatta: se fossimo stati a New York avremmo risolto l’N.d.R in quegli stessi modi, luminosi e gloriosi. Ecco, era questo tipo di considerazioni che rimetteva le cose sul nostro binario clandestino.
12. Qual è secondo voi il rapporto tra arte e politica, e com’è cambiato nel tempo anche nella vostra stessa esperienza artistica?
R – All’epoca uno parlava di politica ma in realtà si riferiva ai partiti, quindi al rapporto dell’arte con le segreterie dei partiti che potevano spalleggiare qualche iniziativa «culturale». Non credo che da allora ci siano state grandi modifiche nell’intendere tale rapporto, anche se oggi è chiaro che dei «partiti» e delle loro espressioni «politiche» sia sopravvissuto solo il discredito e le parole, che sono quanto di peggio oggi si può dire rivolgendole a chiunque. Se dunque si intende il rapporto dell’arte con i partiti formali e la loro politica, credo di aver già detto che ciò poteva forse riguardare qualcuno tra noi, ma a noi due proprio non interessava neppure allora. Ognuno tra tutti noi – Uffici, Frazione o ex La Comune – aveva certamente le proprie mappe di orientamento, pratiche o teoriche, che non posso mescolare alla mia, rimasta sostanzialmente invariata e, riteniamo, sufficientemente documentata nel sito. Accenniamo qui solo al fatto che noi abbiamo avuto sempre presente la distinzione tra partito formale e partito storico, ed è dai capisaldi teorici di quest’ultimo che eventualmente desumiamo, o presumiamo desumere i rapporti dell’arte con la vita; mentre la politica è solo un aspetto che attiene all’amministrazione dello stato di fatto, e sparisce quando ad agire è la rivoluzione.
T – Alla fine degli anni Sessanta aveva ancora una qualche influenza la teoria lukacciana del rispecchiamento e della partiticità, o partitificazione dell’arte, di staliniana memoria, che si era insediata così saldamente nell’abituale pensare che neppure il ’68 riuscì a liquidarla, anche se forse ha creduto di poterlo fare sostituendo l’enfasi retorica con la disinvoltura dell’impertinenza e le arguzie dell’ironia.
T – Nel ’70, durante la mostra Amore mio, ci è capitato di cogliere un interrogativo di Gianni Colombo: possibile, si chiedeva, che l’arte contemporanea non riesce ad andare avanti senza fare delle battutine? Era una domanda che non aspettava risposte dal suo interlocutore, ma è lì che ancora stiamo.
R – Le cose sembravano iniziare a cambiare un poco solo quando Internet ci mise lo zampino. Ma… tanto va la gatta… che uno a ben guardare ci ritrova ancora lo zampino del consueto. D’altronde non esiste altra arte all’infuori di quella che c’è, e di reale c’è solo quella espressa finora dalla classe dominante. La nostra esperienza, allora come ora, può consistere solo nel fare certe cose e nel conoscerne altre, diverse però da tutte quelle preparate in una delle tante agenzie ideologiche della cultura, pubbliche o private che siano. Di tutto questo che abbiamo detto e di altro che magari diremo, non si capisce nulla se non si comprende appieno che noi ci muoviamo, o pensiamo di muoverci, nel verso di una necessità manifestata dall’arte stessa, la quale preme per sviluppare sé stessa ma trova, nelle condizioni materiali dell’attuale società, stramatura, le catene che la trattengono. Questo movimento non è cambiato, e neanche noi con lui.
13. Nel 1978 organizzate «Avvisi alle popolazioni», un’azione che consiste nell’affissione di una serie di manifesti in occasione del convegno su «Arte e Politica» di Parma. I manifesti riportavano una serie di dichiarazione sull’immaginazione e sull’arte. Qual era il senso di quell’operazione?
R – Ecco, quegli «Avvisi alle popolazioni» cercavano di dar forma appunto a ciò che si è appena detto. E mettevano le popolazioni sull’avviso nei confronti dell’arte la quale, ad esempio, «è determinata» (ideologicamente), «è improbabile» (distribuzione diseguale) ecc., ma che in fondo «non è negata» (scuce un baffo) anche se «è clandestina» (sovversiva). Mi accorgo ora che certe cose le abbiamo già dette qui in altri modi, finendo anche ad includere noi stessi tra gli oggetti di cui le popolazioni vengono esortate a diffidare.
T – Le formulazioni di tipo estetico inserite sotto la dicitura «avviso alle popolazioni» le fanno ricadere nel campo sociale e sottoporle così alla sua critica. E sto pensando che ognuna di quelle formule poteva anche essere percepita come l’avvio o l’incipit di un discorso non svolto.
R – Vorrà dire che non ci resta che svolgerli, ma non è detto che non l’abbiamo già fatto. Quei manifesti affissi per le strade di Parma e di Roma, potevano pure risultare enigmatici e privi di un senso compiuto e diretto; ma pure noi un senso glielo abbiamo appena dato, parlandone di nuovo adesso. Forse non avevano un senso, statico, ma un verso, dinamico; ed è al verso, alla direzione e alla spinta che uno li affidava, non certo all’istante: questo lo fa la pubblicità commerciale e la propaganda politica.
14. La vostra ricerca artistica e politica è stata influenzata in qualche modo dall”esperienza dell’Internazionale situazionista?
R – Non troppo specificatamente. L’esperienza dei situazionisti ce la siamo trovata per strada. Quando i loro motti si respiravano nell’aria è stato preferibile lasciarci influenzare da chi almeno si richiamava all’internazionalismo comunista piuttosto che all’interclassismo resistenziale.
T – Sicuramente i situazionisti fanno tuttora parte dei nostri riferimenti e lo abbiamo anche mostrato più volte limitandoci a citarne i documenti senza occuparcene in maniera approfondita, come invece meriterebbero.
15. Le ricostruzioni mainstream dell’arte italiana tendono a racchiudere il decennio che va dal ’69 al ’79 tra le due sigle dell’Arte Povera e della Transavanguardia, come dire dalla sperimentazione, giocosa più che politica, alla fine delle ideologie. Sono ricostruzioni che tendono a disinnescare il carattere più sovversivo, esteticamente e politicamente, di quel decennio. Per voi cosa sono stati gli anni Settanta?
R – Nel periodo attorno alla prima guerra mondiale l’arte dell’epoca borghese ha già consumato tutte le sue risorse, e lo ha sancito chiaramente con pochissime opere d’arte che ne approvavano la fine; e potevano pure essere solo dei lapsus, comunque rivelatori della condizione reale e del traguardo a cui era giunto il suo millenario cammino. Dopo di che si è fatto di tutto per revocare questo semplice dato di fatto. Così, favoriti dalla mancata sincronia con l’esaurirsi di tutte le forze produttive ancora disponibili allo sviluppo della società capitalistica, inizia un ravvoltolarsi dell’arte con paradigmi estetici praticamente e teoricamente dissolti. Assistiamo ad un fenomeno simile a quello gestaltico, per cui quando la forma ha una incompletezza nella sua reale definizione ecco che viene compensata percettivamente con dati oggettivamente inesistenti, richiamati automaticamente dal nostro cervello per rendere l’immagine ottica soddisfacente all’interpretazione cognitiva. Ad essere richiamati dal regno dei morti per completare una persistente concezione dell’arte, ma che l’arte corrente non è più in grado di fornire essendosene liberata, sono soprattutto le vestigia dell’opera d’arte e l’artista, tutti e due intesi nel senso tradizionale radicato nella memoria. Solo l’attività dell’ideologia può spiegare l’incapacità di vedere che certi involucri di cui tutti si occupano non corrispondono più al loro contenuto; e questo non vale solo per l’arte. Altro che fine delle ideologie: siamo nel loro regno assoluto.
T – Si possono fare tutte le periodizzazioni e le lottizzazioni che si vogliono per scendere di scala temporale o geografica e andare a cercare di qua o di là gli aspetti particolari con cui si è manifestata l’arte in un determinato periodo, in Italia o in Austria, in Russia, in America o in Cina, negli anni Settanta o negli anni Ottanta o Novanta, ma è un po’ come andare per mercatini di Natale: sempre il solito Babbo a far boccacce.
16. Sempre nel 1978 fondate la rivista «Aut.Trib.17139 – Rivista di estetica operativa», che termina la sua attività nel 1983, dopo aver raccolto pagine di Giuseppe Chiari, di Art & Language, Fabio Mauri, Julia Kristeva, Cesare Milanese, Alberto Boatto, Fernando de Filippi, Ben Vautier, Luca Patella, Achille Bonito Oliva, Maurizio Nannucci, Aldo Braibanti, Cloti Ricciardi, Amerigo Marras e diversi altri, tra cui Bordiga e Gadda. Ci potete raccontare di cosa si trattava esattamente, che temi voleva affrontare la rivista, a quale rete di autori e idee faceva riferimento?
T – È stata una iniziativa voluta da noi due come Frazione Clandestina per verificare se esistevano le condizioni reali di svolgere una riflessione critica comune, più pertinente e incalzante di quanto si era fatto fino allora. Il nome della rivista esprimeva un sarcasmo nei confronti delle autorità di polizia, oltre a nascondere l’acrostico di AUTonomia TRIBale.
R – Era una rivista di grande formato composta da tutte prime pagine, ognuna messa a disposizione di artisti o critici. Sostanzialmente una specie di trappola con la quale accalappiare l’individualismo tipico dell’intellettuale corrente. E quasi tutti rimanevano impigliati nella trappola. Noi continuavamo ad inserire intere pagine con argomenti e questioni che speravamo potessero meritare un dibattito e che invece non suscitavano un bel nulla. È risultato comunque un bel giro d’orizzonte. C’era pure qualche giovane che si metteva a vendere la rivista di domenica sulla scalinata della Galleria d’arte moderna di Roma, e con il ricavato poi ci andava al cinema.
17. La rivista esce dal 1978 fino al 1983, un momento particolarmente significativo, sono gli anni della grande trasformazione, della sussunzione della vita sotto il capitale, se vogliamo dire così, gli anni in cui la spinta delle neoavanguardie si esaurisce definitivamente e si comincia a parlare di postmoderno. Voi come avete vissuto quella trasformazione? E cosa avete fatto negli anni Ottanta e Novanta quando il grande freddo congelava le passioni collettive e la realtà sembrava trasformarsi in uno spettacolo a colori?
R – Una ricostruzione mainstream. Lasciami dire che si era già consumato da tempo un tradimento nei confronti dell’arte da parte dell’intero mondo dell’arte moderna quando ha voluto riportare nell’alveo delle consuete opere d’arte l’orinatoio che Duchamp aveva gettato oltre i tradizionali confini dell’arte, e che l’epoca così detta postmoderna ha continuato a tenerlo in questi limiti come in un campo profughi. Tuttavia, se quell’orinatorio o il quadrato bianco di Malevich segnavano un primo punto di non ritorno nello sviluppo dell’arte dell’epoca moderna, non rappresentavano ancora il consumo totale delle sue riserve. Così l’arte ha potuto iniziare a replicare sé stessa e distrarre il pubblico (l’hai detto tu) con uno spettacolo colorato, ipnotico e autoipnotico. Avevo in progetto di fare una pubblicazione dal titolo Le leggi dell’Ospitalità, e ne parlai con un noto critico che negli anni Settanta si era occupato proprio di Duchamp; invece eravamo nei primi anni Novanta e mi rispose cortesemente che oramai preferiva Matisse: quell’altro adesso lo rattristava. Ecco; e lo diceva a me che apprezzo tutto e non brucio nulla. Comunque anche in quegli anni, comunemente definiti di grande freddo, noi abbiamo potuto continuare a svolgere tranquillamente ciò che avevamo iniziato solo perché – crediamo di poter dire – non eravamo mai stati preda di collettive passioni prêt-à–porter, ma di passioni storicamente determinate, che non abbiamo neppure scelte.
18. Nel 2004 la «Frazione clandestina» riprende le attività con il nome di «Forniture Critiche» e nel 2006 nasce arteideologia.it – sito Autonomo di Forniture Critiche, un archivio online per immagini e testi di tutta la vostra attività dagli anni Settanta a oggi. Perché avete deciso di rendere pubblico il vostro archivio? Cosa pensate della politica degli archivi tanto in voga nel sistema dell’arte?
T – La denominazione «arteideologia» è un avviso e un giudizio che mi sembra corrispondere perfettamente a quanto detto finora dell’arte e dell’ideologia. Ci dispiace però che il sito possa venir indicato come un archivio on line. Ma se questo è ciò che risulta, vuol dire che ci chiederemo dove abbiamo sbagliato. Non fraintenderci, non siamo in polemica con la tua domanda, che invece ci offre la necessità di una riflessione.
R – Prima si parlava di postmoderno, oggi si parla di post o supercapitalismo, ma sembra proprio che non si riescano a vedere le forme che mutano già verso nuovi paradigmi. Che il sito di «Forniture Critiche» sia una di queste mutazione non spetta a noi stabilirlo, ma, insomma, è qui che il nostro processo lavorativo ci ha portato, e non credo proprio che partendo da certe premesse potesse portarci altrove, o anche farci tornare indietro, agli annali, ai cataloghi, o a qualsiasi altra forma di rappresentanza, quantunque on line.
T – Conosciamo perfettamente la difficoltà di muoversi nel nostro sito; alcuni se ne sono pure rammaricati definendolo «labirintico», ma abbiamo grande fiducia nella capacità di chi intanto è riuscito a scovarlo nella nebulosa della rete. Certo, siamo coscienti e disillusi sull’attenzione degli utenti frettolosi, ma, non avendo nessuna cosa da vendergli e nessun passato da conservare, visto che fin dall’inizio il nostro sguardo era già decisamente rivolto al futuro, non adottiamo neppure nessuna accortezza per accalappiarli o essere convincenti. Ad ogni modo nel sito c’è tutto quanto basta, e anche di più, per farsi da soli un’idea di cosa realmente è o di cosa potrebbe essere o non essere.
R – Certamente senza memoria non c’è futuro; e così, il sito conserva i ricordi di sé e del suo farsi, ma credo sia riduttivo definirlo con il termine di archivio, il quale evoca solo la memoria e la conoscenza senza riunirla al corpo. Comunque, nessuno al mondo, e non è tanto per dire, potrà convincermi che, ad esempio, le nostre pagine html dell’Edicola e dell’Almanacco possano manifestarsi e offrire una fruizione corrispettiva da qualche altra parte che non sul monitor; e neppure nelle medesime pagine della versione pdf dell’almanacco, che facciamo solo per condiscendenza. A pensarci, si possono fare pure delle analogie tra il sito e lo spazio espositivo, tra la pagina html e il dipinto bidimensionale, tra l’almanacco web e un catalogo cartaceo, e fermarsi qui. Se non fosse, mi viene da pensare, che l’unificazione e il funzionamento organico di tutto questo è qualcosa di equivalente ad un fenotipo, che poi sarebbe in pratica un nostro fenotipo esteso. Interessante. Ci si può lavorare.
T – Gli anni Ottanta e Novanta sono per noi punteggiati di vari interventi condotti sia come Uffici Unificati che singolarmente. Quello che importa dire è che, dall’esordio di Erostrato alla Frazione, il filo della continuità resta del tutto conseguente quando alla fine degli anni Novanta si polarizza nel web. Se si seguisse soltanto una linea intrapresa, ad esempio il filo del lavoro svolto fin dall’inizio con la superficie e lo schermo, si capirebbe meglio come tutto ci portava proprio qui, all’appuntamento con Internet.
R – Come forse abbiamo già detto, si trattava solo di aspettare che la tecnologia sviluppasse le forme adatte a risolvere un problema, e noi ci siamo ostinati ad aspettare. Alla fine degli anni Novanta mettemmo subito on line (quella volta sì) l’archivio di tutti i materiali che ci riguardavano, e si passarono al vaglio. E qui siamo al punto. Una volta sistemati tutti gli elementi del quadro sorse l’esigenza di una forma superiore, realizzata in seguito appunto con la creazione del sito di «Forniture Critiche»; che non è un archivio, ma la forma risultante di un processo lavorativo e di un metodo conoscitivo, che contiene la propria morfogenesi a partire dal 1970 e il suo concreto modo di conoscere e conoscersi. Noi abbiamo fatto il possibile affinché tutto questo possa intendersi chiaramente, ma se è utile spiegarci meglio, possiamo anche precisare che non solo tutto ciò che facciamo ora viene realizzato per manifestarsi nel sito, ma addirittura anche tutto ciò che abbiamo realizzato prima dell’esistenza stessa del web trova finalmente nel sito la sua ultima rifinitura.
T – Ti racconto che alcuni amici avevano fatto diversi screenshot dalle pagine web del sito, li avevano fatti stampare su cartoncino fotografico e – e qui casca l’asino – volevano incorniciarle e appenderle con le nostre firme: metteteci le vostre, gli abbiamo spiegato. Èstato divertente anche il silenzio tombale che è seguito alla richiesta di partecipare ad una mostra d’arte in Canada, dopo che autorizzammo i curatori a far tutto loro, utilizzando a piacere quello che c’era nel sito per allestire lo spazio che ci avevano riservato. Forse hanno capito meno dei nostri amici. Oppure molto di più, e si sono piccati.
R – Magari il nostro sito è solo una sorta di dispositivo logistico ubiquitario, o anche qualcos’altro di imprecisabile. Fatto sta che non abbiamo più altri originali che non derivino dal sito, solo residui di lavorazione, nessuna cosa da difendere, solo da distruggere. Che tutto questo abbia o non abbia a che fare con l’arte non ci interessa affatto. Sappiamo solo che, a partire dall’ossessione per l’arte, Erostrato ha fatto il suo lavoro, e la spianata è sgombra per le incursioni dei barbari.
19. Nel 2011, come «Forniture Critiche» e «Ufficio per la Balcanizzazione dell’arte», partecipate alla 54 Biennale di Venezia all’interno del Padiglione Spagnolo curato da Dora Garcia, con la Valigetta Rossa. Cosa conteneva quella valigetta e cosa pensate di quella esperienza?
R – Quella partecipazione la dobbiamo all’ottimo Cesare Pietroiusti. Fu lui difatti che segnalò a Dora Garcia l’esistenza di una valigetta di ferro che gli Uffici (unificati) avevano riempito di materiali e documenti per farla viaggiare attraverso la Serbia, forzando l’embargo cui il Paese era stato sottoposto nel corso della guerra dei Balcani. Nella valigetta avevamo messo i volumi degli Uffici, le foto originali di N.d.R, le lastre slides di Di.a.rte, le pubblicazioni della Frazione, tutti i numeri della rivista Aut.Trib.17139, lo striscione di stoffa e i manifesti degli Avvisi alle Popolazioni, alcuni nastri sonori e diversi disegni e maquette. Insomma, tutto quello che poteva essere utile alle iniziative che l’Ufficio serbo intendeva attuare nel paese bombardato.
T – Dora Garcia voleva proprio quella valigetta di ferro, recuperata fortunosamente appena qualche mese prima, per includerla nel suo lavoro alla Biennale del 2011, e così invitò noi due a fare un intervento. Stavamo preparando un nuovo Avviso alle Popolazioni assieme ad una giovane collaboratrice, che invitammo a nostra volta a terminare l’Avviso e raggiungerci alla Biennale. Detto in breve, l’avviso combinava tre cose: il cervello sociale, una specie di mappa perimetrale del nostro lavoro che incorniciava la terza componente, cioè dei testi sul «debito pubblico»: l’incubo di quel momento, sia in Europa che in America. Così, quando per l’intervento ci raggiunsero a Venezia anche alcuni ex componenti dell’Ufficio per la Balcanizzazione, provenienti dalla Serbia, ci accorgemmo che sulla pedana de L’Inadeguato avevamo riunite tre generazioni.
R – L’immaginazione preventiva non avrebbe potuto prevedere quello che solo il caso poteva realizzare: l’esperienza della combinazione felice di un incontro improbabile, che dobbiamo alla sensibilità di Dora Garcia, alla gentilezza delle sue assistenti, e alla onestà intellettuale di Cesare Pietroiusti. Quella situazione è stata anche la prova della validità di un metodo che bada al rendimento dei sistemi piuttosto che alla loro efficacia; e per conoscere il rendimento di quella valigetta rossa abbiamo dovuto aspettare diciassette anni. Era il 1994 e ricordo che preparando quella valigetta dicevamo tra noi: la Jugoslavia è il mondo, riferendoci al processo di balcanizzazione, che si avviava localmente per prolificare altrove. Ogni particolare crisi del sistema sociale, che fino al ’68 era stata solo ricorrente, alla fine degli anni Settanta inizia a sincronizzarsi con le altre, e con le guerre del Golfo e dei Balcani degli anni Novanta lo stato di crisi diventa sistemico. Oggi nessuno se ne avvede, figurarsi poi a fronteggiarlo. E dato che l’immaginazione non può andare oltre ciò che la realtà consente, il compito si presenta tuttora come capacità di intravedere, nella società così com’è, tutte quelle manifestazioni che si sviluppano dal movimento reale che abolisce lo stato di cose presente, incluso quello dell’arte.
T – Tornando a noi, per L’inadeguato svolgemmo la nostra relazione, ma più di ogni altra cosa ci importava riprendere tutto con la telecamera e preparare il filmato per il sito. Si badi bene: non un filmato e basta, ma un filmato da vedere intarsiato in una pagina html del nostro sito. Magari poi messo così non piacerà a nessuno, e certi giorni non piace neppure a noi, ma è un modo come un altro per rimanere alla destra della pittura, e per il momento è il nostro modo.
20. Che cos’è, oggi, un’immagine?
R – È una domanda di tipo metafisico che non può ricevere altro che una risposta metafisica; diverso sarebbe chiedere come è un’immagine. Ma posta così, possiamo anche dire che un’immagine è ciò che deve apparire sullo schermo.
Fonte: operaviva.info
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