di Luigi Pandolfi
Sono lontani i tempi in cui un sovrano poteva rifiutarsi di pagare i debiti contratti per le sue guerre, quando erano gli Stati a far fallire le banche. Oggi, gli Stati possono al massimo dissanguarsi per riparare ai fallimenti delle banche, ovvero fallire essi stessi. Altri tempi, per intenderci, quelli in cui banchieri fiorentini come i Bardi e i Peruzzi potevano solo soccombere di fronte alla potenza sovrabbondante di una corona insolvente. Un mondo capovolto, ormai. Una regola – sia chiaro – alla quale, in linea di principio, non può sfuggire nemmeno la più grande potenza del mondo, gli Stati uniti d’America, per quanto sia forte il suo peso politico e militare.
Obama, possiamo dirlo, ha fatto meglio dell’Europa per portare il suo paese fuori dalla Grande Recessione. Il tasso di disoccupazione è ritornato ai livelli pre-crisi, l’economia è cresciuta in questi anni ad un ritmo che potremmo definire accettabile.
Non ha fatto abbastanza però, perché le disuguaglianze sociali hanno toccato livelli inaccettabili, sono cresciute in maniera inversamente proporzionale alla ricchezza nazionale. Evidentemente, qualcosa non ha funzionato nella politica «espansiva» del governo e della Fed: troppo grande è infatti lo scarto tra la soglia di indebitamento raggiunta dal paese e le condizioni della popolazione.
Diamo i numeri. Attualmente, il debito federale supera i 19 mila miliardi di dollari, il 105 per cento del Pil (120 per cento se si aggiunge il debito dei singoli Stati e dei comuni). Alla vigilia della crisi, nel 2007, il suo valore superava di poco i 9 mila miliardi, che facevano il 65 per cento del Pil.
Una crescita monstre, che solo in minima parte può essere spiegata con le politiche keynesiane – si fa per dire – dell’amministrazione Obama. Basta ricordare che dopo lo shock del 2007-2008, i salvataggi bancari valsero 500 miliardi di dollari in più dell’American Recovery and Reinvestment Act, il pacchetto di misure a sostegno dell’economia e delle fasce sociali più colpite dalla crisi, che si fermava a poco più di settecento miliardi di dollari. Nel frattempo il bilancio della Federal Reserve, per effetto del quantitative easing, è passato, in otto anni, da 800 a 4500 miliardi di dollari e il debito totale, compreso quelle delle corporations e delle famiglie, è arrivato a lambire la cifra record di 70 mila miliardi di dollari.
Dove sono finiti tutti questi soldi? In gran parte sono serviti a puntellare un sistema economico-finanziario che ha vissuto e continua a vivere pericolosamente, sempre sull’orlo di nuove crisi, che, regolarmente, subisce la minaccia di nuovi e più gravi tracolli.
Troppo poco è stato speso in politiche perequative, finalizzate alla lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Quello che Joseph Stiglitz chiama il «problema dell’1 per cento»: l’1 per cento della popolazione americana che «si porta a casa ogni anno quasi un quarto del reddito della nazione e controlla il 40 per cento della ricchezza economica del Paese».
Parlare di fallimento degli States è, ovviamente, un azzardo, per molti una bestemmia. Nondimeno, non è una bazzecola il fatto che oltre il 30 per cento (oltre 6 mila miliardi) del debt held by public, ovvero l’insieme di titoli in possesso dagli investitori esterni al governo, sia in mano straniera.
E che il 50 per cento di questa fetta di debito sia divisa a metà tra Cina e Giappone. Numeri che vanno letti in stretta relazione con le performance della bilancia commerciale, in rosso dal lontano 1976 (il saldo negativo medio dal 2007 al 2015 è stato di circa 750 miliardi di dollari annui).
Cosa accadrebbe se la Cina decidesse di disfarsi dei titoli americani? Precipiterebbe verso il basso il loro valore nominale e, di conseguenza, schizzerebbe verso l’alto il loro rendimento. Si eserciterebbe una pressione così forte sul debito complessivo, da minacciarne seriamente la sostenibilità negli anni avvenire.
Una prospettiva che fa apparire le minacce protezionistiche di Donald Trump contro il colosso asiatico come una pistola scarica.
A maggior ragione, se si aggiunge che negli ultimi cinque anni gli investimenti diretti cinesi in società americane si sono più che triplicati. Circa 70 miliardi di dollari solo dall’inizio di quest’anno. Lo sa bene il presidente neoeletto degli Stati uniti, che nelle scorse ore ha avuto un colloquio telefonico con il suo omologo cinese, dicendosi pronto per un incontro bilaterale, chiarificatore.
Sibillino il monito di Xi Jinping: «I fatti provano che la cooperazione è l’unica scelta corretta tra Cina e Stati uniti». I fatti e i soldi.
Un po’ di anni addietro, l’allora presidente George W. Bush ebbe a dire che «il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile». Il problema è che questo tenore di vita dipende molto da un debito che, invece, è quasi tutto negoziabile sui mercati. E a Pechino questo ovviamente non sfugge.
Fonte: Il manifesto
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