di Lea Melandri
“Vivere soli”, si legge nelle ricerche del Censis, “è una scelta sempre più diffusa: non è solo l’esito dell’età che avanza e della conseguente perdita di relazioni sociali, ma una condizione di vita che coinvolge tutte le fasce d’età”. Il documentario di Erik Gandini, La teoria svedese dell’amore, trasmesso da Rai3 il 27 luglio 2016 e ora presente nelle sale cinematografiche, ha suscitato allarme, giudizi critici su quello che si era annunciato come un sistema “perfetto” di grande benessere fin dal 1972 nel manifesto La famiglia del futuro, voluto dalla sezione femminile del partito socialdemocratico di Olof Palme.
“A quarant’anni dal manifesto”, scrive Marco Dotti, “l’utopia svedese si è rivelata una desolante emancipazione regressiva. Si nasce soli, si vive soli, si muore soli.”
“A quarant’anni dal manifesto”, scrive Marco Dotti, “l’utopia svedese si è rivelata una desolante emancipazione regressiva. Si nasce soli, si vive soli, si muore soli.”
“Ognuno va per la sua strada ma non c’è nulla che li tenga insieme”, è il commento dello stesso Gandini. Ma ciò che colpisce di più è la scelta di un numero apparentemente crescente di donne di avere un figlio senza doversi sobbarcare l’impegno o la dipendenza da un partner: “A cosa serve l’uomo? In Svezia non serve a niente. Con 80 euro vi spediranno anche il kit per la fecondazione artificiale a domicilio”, scrive Dotti.
Rimettere in moto la fantasia
Il quadro che si delinea è quello di una società iperindividualistica, che si libera da vincoli tradizionali di dipendenza per cadere nel suo opposto: un’autonomia che prometteva a ogni individuo di non essere più “l’appendice di qualcun altro” – per condizioni economiche, per bisogni di cura – e che nella sua assolutizzazione – uno stato al servizio del cittadino dalla nascita alla morte – perde ogni interesse per le relazioni. La caduta di legami di necessità, tra donne e mariti, figli e genitori, anziani e familiari più giovani, sembra aprire fatalmente la strada al deserto di singolitudini indifferenti le une alle altre, interni di case dove si può morire senza che nessuno se ne accorga, “soli e con un conto in banca” che nessun parente verrà a reclamare.
Le uniche alternative che compaiono nel documentario di Gandini vanno a collocarsi, non a caso, lontano dal malinconico “benessere” occidentale: nella natura incontaminata dei boschi nordici, dove si ritirano gruppi di giovani in cerca di comunità, contatto fisico, e nell’Africa di un medico svedese che ha scoperto, andando in Etiopia, di poter vivere in un luogo “dove non si è mai soli”, di poter operare con strumenti semplici, di poter rimettere in moto la fantasia.
“È questo il paradiso del welfare, la meta di ogni sogno di liberazione? Che cosa è successo alla Svezia?”, si chiede Marco Dotti di fronte a una società di individui dediti alla loro realizzazione personale, capaci di prendersi cura di se stessi, ma infelici.
A pochi giorni dall’esito delle elezioni statunitensi, non sembra arrestarsi l’allarme di chi ha visto, realisticamente, di nuovo aleggiare sui cieli dell’occidente liberale, progressista, tecnologicamente avanzato, i fantasmi di una “famiglia futura” risospinta verso servitù antiche, chiusure nazionaliste, rivalse del maschilismo, odio per lo “straniero”, ritorno ai valori tradizionali della patria e dei legami di sangue.
Quello che colpisce di due prospettive così lontane è la loro complementarità: da una parte il ritorno a forme di appartenenza autoritaria, sostenute da vincoli “naturali”, dall’altro lo smarrimento di una singolarità a cui sono state tagliate le radici.
Si è tornati a parlare della separazione tra la politica e la vita: la vita delle classi sociali che più hanno pagato in povertà, disoccupazione, insicurezza la globalizzazione, ma anche quella delle donne, avviate verso una libertà contrastata da una crescente violenza maschile, e di tutte le minoranze sessuali e di genere, a cui si negano diritti e cittadinanza.
Forse non è stata fatta abbastanza attenzione al fatto che, con il venire meno dei confini tra privato e pubblico, cambiava anche la figura astratta del “cittadino”, soggetto delle democrazie moderne, e dell’individuo produttore e consumatore, responsabile della sua vita e del suo futuro, a cui fanno riferimento le politiche neoliberiste.
Ma soprattutto ha avuto scarso rilievo o è stata ignorata la politicità del corpo – genere, sessualità, bisogni, desideri, fragilità, interdipendenza – centrale nel pensiero antiautoritario e femminista, e questa ignoranza ha impedito di capire quale passaggio lento e difficile sarebbe stato la creazione di una singolarità incarnata, libera dai modelli culturali che hanno fatto dell’eterosessismo una norma, un privilegio di “natura”, e del prolungamento della relazione originaria madre-figlio una base della stabilità del matrimonio.
Poiché manca una elaborazione adeguata dei rapporti di potere e dell’ostilità che è venuta a incunearsi tra aspetti inscindibili dell’esperienza umana – natura/cultura, individuo/società, vita/morte, forza/fragilità, dipendenza/autonomia – a partire dalla differenziazione del maschile e del femminile e dalla divisione sessuale del lavoro, il terremoto che oggi scuote la convivenza civile e il politicamente corretto non poteva che finire dentro una spirale fatta di capovolgimenti e contraddizioni.
Non c’è da meravigliarsi se l’uscita da dipendenze, servitù e violenze antiche è rimasta impigliata tra un malinconico ideale di autosufficienza e la tentazione di ripiegare su àncore di salvezza tradizionali, come la famiglia, la nazione, il gruppo etnico, la religione, la supremazia considerata “naturale” di un sesso sull’altro.
Fonte: Internazionale
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