di Alessandra Mecozzi
Il 31 ottobre mi trovavo a Mar Mikhael, zona armena, animato centro di vita notturna a Beirut, prima noto come il quartiere delle officine di riparazione delle auto. Ammiravo i begli edifici, il buon gusto di numerosi locali, quando sono stata sorpresa da rumorosi scoppi di petardi e fuochi d’artificio, mentre le strade si svuotavano…Era il giorno dell’elezione del presidente (posto vacante da due anni) e i “botti” festeggiavano il “nuovo” eletto: l’ ultraottantenne Michel Aoun, cristiano maronita, uno dei signori della guerra civile durata dal 1975 al 1990.
Ma se qui si festeggiava, tra molte delle persone che ho incontrato in questi 10 giorni in Libano, c’è scetticismo, se non avversione: “Io sono dell’82 – mi ha detto Joanna Nassar, libanese, direttrice per l’UNDP di un progetto sulla “riconciliazione e la pace” – e questi politici li vedo tutti come mostri. Ma la generazione che ha vissuto la guerra civile (1975-90), vuole soprattutto dimenticare, cerca “stabilità”, parola magica in nome della quale si fanno le cose peggiori. Manca, dal 1936, un censimento ufficiale, per la paura di alterare l’equilibrio tra comunità religiose, naturalmente cambiato rispetto a quando era stato stabilito.” La legge prescrive che il presidente debba essere un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita, il portavoce del parlamento un musulmano sciita e i ministeri vengono distribuiti tra le diverse comunità (18): spartizione che informa anche i corpi dello Stato.
Un paese “tranquillo” in una regione in fiamme. “Le ragioni?” Mi ha risposto Nahla Chahal, libanese vissuta molti anni in Francia, creatrice e direttrice del supplemento settimanale sociopolitico del quotidiano Assafir. “E’ il primo paese della regione per l’accoglienza di chi fugge dalle guerre; per il suo ruolo di anello di comunicazione tra i paesi arabi dell’area; per la presenza massiccia di cristiani, circa il 50% della popolazione, che stanno scomparendo sia in Palestina che in Iraq. E poi è il regno delle banche! E’ interesse di tutti i potenti che qui non ci sia guerra…Il Libano dipende soprattutto da fondi dei paesi del Golfo, soprattutto Arabia Saudita e Qatar, da cui subisce una continua pressione perché la sua politica si uniformi alla loro, nel caso della Siria, di forte opposizione al regime.” Ma le milizie sciite di Hezbollah combattono in Siria, con quelle iraniane, a sostegno di Assad. Di conseguenza dal Golfo non arrivano più clienti a fare acquisti nei lussuosi negozi del centro di Beirut, Cartier, Armani, Fendi, Bulgari…oggi deserti e quasi inutili…
Il peso politico di Hezbollah in Libano ha probabilmente determinato anche la sua assenza dallo scenario delle “rivoluzioni arabe”. Hezbollah, simbolo della resistenza, amato per le sue vittorie su Israele, nel 1990 e nel 2006, al tempo delle rivoluzioni arabe non aveva fatto mistero della sua posizione negativa: “Questo è il Nuovo Medio Oriente che abbiamo sconfitto nel 2006, e che sta ritornando”. Oggi la sua popolarità è in calo a causa dell’invio di tanti giovani a combattere e morire in Siria per sostenere Assad: una causa, per dir così, che la società libanese non sente affatto sua. L’esercito siriano (del precedente regime di Hafez el Assad), è bene ricordarlo, ha di fatto occupato militarmente il Libano per quasi 20 anni, fino al suo ritiro nel 2005 in seguito alla popolare “rivoluzione dei cedri”.
E tuttavia il Libano, un paese di 4 milioni di abitanti, accoglie oltre 1.800.000 profughi dalla Siria (di cui 1.200.000 registrati): a dir poco sorprendente per chi viene da un paese dove qualche centinaio di persone fa le barricate per respingere un gruppo di rifugiati con bambini! Certo i problemi sociali provocati dall’ afflusso di profughi dalla Siria non mancano. A cominciare da quello, sentito diffusamente, della concorrenza al ribasso nel lavoro: chi ha perso tutto accetta di lavorare con salari più bassi e orari più lunghi, nei settori della ristorazione, delle costruzioni, ai distributori di benzina. “Ma noi siamo un paese di profughi – dice Lena Merhej, disegnatrice di fumetti satirici che ha subito censura e un processo da parte del Governo, sollecitato da istituzioni religiose – prima dei siriani, qui sono arrivati gli armeni, gli iracheni, i palestinesi (v. intervista). E Rania Masri, vicedirettrice dell’Asfari Institute for civil society and citizenship: “ Non vedo i siriani come altri da noi, in un certo senso mi sento parte della Siria, penso che dobbiamo avere tutti gli stessi diritti, ma non è così. Il Governo ha paura che restino e che cambino la composizione religiosa del paese (sono in maggioranza sunniti), per questo, anche se prendono 7 dollari ogni 100 degli aiuti internazionali, non fanno molto più che creare qualche campo”.
Ma l’ assistenza materiale non basta. In un paese dilaniato dalla guerra civile non c’è mai stato un processo di “riconciliazione”. L’ UNDP, con il progetto “Il consolidamento della pace in Libano” (www.lb.undp.org), si rivolge alle comunità libanesi dal 2007, e a quelle siriane. “Qui è stata vissuta traumaticamente la presenza dei profughi palestinesi (250.000) e la situazione di guerra degli anni ’80. La crisi siriana si è aggiunta a tensioni e conflitti esistenti (c’è stata di fatto fino al 2005 una occupazione siriana)! Ma bisogna riconoscere che il Libano si è fatto carico dei nuovi profughi e vogliamo dare una mano, lavorando, tra le altre, con l’associazione di ex combattenti della guerra civile (fightersforpeace.org), sulle relazioni tra comunità libanesi e tra libanesi e siriane. Facciamo piani di coesione sociale con comuni, nei villaggi lavoriamo sulla memoria, nelle scuole pubbliche costruiamo con genitori e alunni messaggi contro la violenza, sui concetti di diritti umani, di tolleranza. In base ad un accordo con vari giornalisti sulla questione dei linguaggi, distribuiamo un supplemento trimestrale con tre giornali (arabo, francese, inglese), dove scrivono donne e uomini del mondo della ricerca, dell’arte, dei media libanesi, palestinesi, siriani. E’ un lungo lavoro sulla cultura”.
Nei campi profughi palestinesi
Avevo visto il campo di Chatila nel il 1987, appena finito l’assedio da parte di Amal, del campo presidiato dall’esercito siriano. Ero in un gruppo di donne di diverse associazioni femministe e/o pacifiste, in solidarietà a quelle donne palestinesi che, lo vedevamo in tv, sotto l’assedio tentavano di provvedere all’acquisto di viveri, spesso colpite da cecchini. Il campo era una immensa distesa di baracche, case semi distrutte, con una popolazione stremata, ancora sconvolta dal massacro di qualche anno prima ad opera dei falangisti sostenuti da Sharon. Oggi non ci sono più baracche, ma un agglomerato di case di due, tre piani, separate da vicoli, prive di elettricità, fognature, acqua…. Condizioni terribili per una popolazione di 22.500 abitanti, di cui 5000 siriani. Nel 1949 era stato costruito per 3000 persone! Chi può se ne va, i palestinesi rimasti sono il 55%.
Eppure, in questo disastro materiale e sociale, Abu Mujaed, con cui ricordo il tempo dell’assedio, ha costruito nel 1997 un Centro giovani: tre piani, con aule piene di ragazzini/e che fanno i compiti, stanze per i volontari, una biblioteca di 7000 volumi: miracolosa abilità dei palestinesi di costruire anche nelle situazioni peggiori, cose belle, guardando al futuro e alle giovani generazioni. Un kindergarden è in costruzione (con un progetto dell’associazione per la pace). Abu Mujaed ci dice la sofferenza e il senso di ingiustizia per non poter incontrare i suoi familiari nei territori occupati, racconta commosso che un suo zio gli ha fatto avere, tramite un amico svedese, un pugno di terra e qualche rosa rossa del suo giardino!
Analoga ammirazione la provo nel vedere il campo di Burj el Shemali, vicino a Tiro, nel sud, territorio di Hezbollah, come ci dicono le tante bandiere gialle e verdi del partito di Dio, presenti in città, perfino attorno alle colonne romane in riva al mare. Il campo di Burj el Shemali, 25000 abitanti in maggioranza palestinesi, è in condizioni migliori di Chatila, ma anch’esso sovraffollato, e comprende 650 famiglie profughe dalla Siria. Anche qui c’è un centro giovani che ospita una scuola di musica, “Banda senza frontiere”, (sostenuta da un progetto di Ulaia arte sud) che visito con Amal Kaawash, la cantante palestinese invitata in Italia per un concerto con il gruppo Jussur project, il 17 settembre. Anche Amal fa volontariato e aiuta la scuola.
Incontriamo Abu Wassim, direttore del Centro Beit Atfal Assumoud, Dima e Farah, destinatarie delle borse di studio che l’associazione Cultura è Libertà ha loro destinato con il ricavato del concerto a Roma, per il Conservatorio nazionale di musica di Saida, in collaborazione con Ulaia arte sud. Contentissime dello studio e della attività di volontariato, Dima (violino) e Farah (sassofono), ragazze indipendenti, cosa non scontata, vanno e tornano da sole dal Conservatorio e qui aiutano l’insegnante di violino, Inga, una giovane volontaria norvegese, Inga, entusiasta dell’intelligenza e della voglia di imparare di allievi e allieve. C’è un bel sole, le lezioni si fanno nel giardino rallegrato dai murales sulle pareti del centro.
Contro la corruzione
In un paese dove tutto è privato, dove girano miliardi, dove l’economia è assistita dai petrodollari dei paesi del Golfo, non c’è da meravigliarsi se la corruzione è radicata ed estesa, nel pubblico e nel privato: dalle “mance” richieste per qualsiasi atto “burocratico”, alla montagna di soldi profusa in privatizzazioni con speculazione edilizia e distruzione dell’ambiente. Un esempio è il tratto di costa su cui affaccia Beirut. Assistiamo a questo scempio in un giro in barca organizzato da Qalandia international, il festival palestinese quest’anno sbarcato anche a Beirut. Ce lo racconta un pescatore, Adnane, che conosce ogni palmo della costa e mare bellissimo. E’ triste è che di questa bellezza possano goderne solo ristrette cerchie di militari o di ricconi, perché l’accesso è consentito solo a loro, privilegio delle stellette o dei portafogli ben forniti.
Proprio contro la corruzione è sceso in piazza, nell’estate 2015, il movimento “You stink” (voi puzzate) nato come ribellione contro la “crisi dei rifiuti”,quando le strade di Beirut erano invase da montagne di rifiuti, senza che il Governo avesse trovato una soluzione, dopo la chiusura di una discarica ormai inagibile. A You stink si era unito anche il movimento “We want accountability” e in migliaia denunciavano l’appropriazione di fondi pubblici da parte del Governo e l’assenza di servizi essenziali come elettricità (sempre intermittente), acqua (sempre scarsa), e raccolta dei rifiuti. Il movimento, diventato politico e duramente represso dalla polizia, con gas lacrimogeni, idranti, manganelli e pallottole di gomma, denunciava corruzione e immobilismo. Il Parlamento, eletto 2009, alla scadenza del mandato nel 2013 si è auto-prolungato il mandato. Paradosso: la gente ha festeggiato l’elezione del presidente dopo due anni, da parte di un Parlamento illegale!
Meno incline alla protesta di piazza, c’è chi, come l’associazione Saqqera el dekkene (chiudi il negozio) lavora dal 2014, perché cittadini e cittadine prendano coscienza e lottino contro questo “sistema di vita”, corruzione sociale e istituzionale. Me ne parla Sara Rammal, studentessa di legge e attivista per i diritti umani, che segue, tra l’altro, la hot line dedicata a ricevere, in modo anonimo, denunce di casi di corruzione (ad esempio la vendita di patenti false), o a informare gli studenti sui professori che all’Università trattano il tema. Vengono forniti aiuto e assistenza, oltre che ricevere denunce. “Per noi sono essenziali la presa di coscienza e l’ educazione: sapere come comportarsi, ad esempio, nei confronti della polizia. Abbiamo creato una app che consente di conoscere le procedure necessarie e i comportamenti adeguati da seguire, se vengono richieste mance…”. Ma, per quanto smartphone e Iphone siano onnipresenti, c’è chi non vi accede. “Usiamo anche parcheggiare una Smart “anti-corruzione” fuori da luoghi “sensibili” (per esempio quelli autorizzati a rilasciare i certificati di revisione delle auto) per incoraggiare le persone a denunciare episodi di corruzione a cui hanno assistito o di cui sono stati partecipi…Si tratta di un lavoro lungo e difficile, ma vogliamo provarci, perché pensiamo che in questo paese la lotta alla corruzione sia un principio fondamentale…”.
Fonte: comune-info.net
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