di Federico Rampini
Il mondo sembra impazzito. Stagnazione economica. Guerre civili e conflitti religiosi. Terrorismo. E, insieme, la spettacolare impotenza dell’Occidente a governare questi shock, o anche soltanto a proteggersi. Senza una guida, abbandonate dai loro leader sempre più insignificanti e irrilevanti, le opinioni pubbliche occidentali cercano rifugio in soluzioni estreme. La vittoria di Brexit nel referendum in Gran Bretagna che ha sancito l’uscita dall’Unione europea. I messaggi radicali di Donald Trump. Le derive autoritarie in Polonia e Ungheria.
Che si tratti di fenomeni durevoli o transitori, passeggeri o irreversibili, tutti hanno un elemento in comune: alla paura si risponde con la fuga indietro, verso il recupero di identità nazionali. Si cerca di alzare il ponte levatoio. Di isolarsi da tutto il male che viene da «là fuori».
Che si tratti di fenomeni durevoli o transitori, passeggeri o irreversibili, tutti hanno un elemento in comune: alla paura si risponde con la fuga indietro, verso il recupero di identità nazionali. Si cerca di alzare il ponte levatoio. Di isolarsi da tutto il male che viene da «là fuori».
È una reazione comprensibile. È normale cercare di proteggersi dall’inaudita violenza di attentati terroristici di matrice islamista sul suolo europeo: un’escalation che dopo Charlie Hebdo ha colpito ancora Parigi nel novembre 2015, Bruxelles nel marzo 2016, Nizza nel luglio 2016. L’America non è immune. Ed è normale cercare una via d’uscita dalla stagnazione economica ultradecennale, che ha reso i figli più poveri dei genitori.
Immigrazione e globalizzazione, sono i due fenomeni sotto accusa. Il grande tradimento delle élite spinge alla ricerca di soluzioni nuove… oppure antichissime. Quel tradimento è reale.
Per élite intendo un ceto privilegiato che estrae risorse dal resto della società, per il potere che esercita direttamente: politici, tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti, banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Più coloro che hanno un potere indiretto attraverso la formazione delle idee, la diffusione di paradigmi ideologici, l’egemonia culturale: intellettuali, pensatori, opinionisti, giornalisti, educatori. Ci sono dentro anch’io.
Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teorizzato e propagandato i benefici delle frontiere aperte: e questi per la maggior parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare un’astratta retorica europeista mentre per milioni di persone l’euro e l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento.
Il tradimento delle élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro il mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori.
Il tradimento delle élite è continuato praticando l’autocolpevolizzazione permanente, una sorta di riflesso pavloviano ereditato dai tempi in cui ”noi” eravamo l’ombelico del mondo: come se ancora oggi ogni male del nostro tempo fosse riconducibile all’Occidente, e quindi rimediabile facendo ammenda dei nostri errori.
Il tradimento delle élite ha giustificato ogni violenza contro di noi riconducendola ai nostri peccati ancestrali; e così ha illuso che il mondo possa tornare ”in ordine” se soltanto l’Occidente si pente e imbocca la retta via.
Il pensiero politically correct, dominante fra i tecnocrati, le élite e tanta parte della sinistra di governo, ha continuato a recitare la sua devozione a tutto ciò che è sovranazionale. Tutto ciò che unisce al di là delle frontiere è stato considerato positivo per definizione: trattati di libero scambio, organizzazioni multilaterali. Si è reso omaggio sempre e ovunque alla società multietnica, senza voler ammettere che questo termine in sé non vuol dire niente: «società multietnica » non ci dice qual è il risultato finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una società capace di assorbire flussi d’immigrazione crescenti. Da tempo gli Stati Uniti sono multietnici; lo è l’India; lo è il Brasile; lo è la Russia; lo sono la Turchia e l’Iraq con le loro minoranze armene o curde. E noi, a chi vogliamo assomigliare?
Può sembrare anacronistica l’attuale riscoperta, da destra, di un modello russo. Ma è anche questa una conseguenza del «tradimento delle élite ».
Alle paure di un’opinione pubblica angosciata dalla stagnazione economica e dal terrorismo, l’establishment globalista e ottimista ha risposto recitando a oltranza la stessa fiaba a lieto fine: «E dopo avere abbattuto le frontiere vissero per sempre felici e contenti ».
Se ormai ci credono in pochi, la colpa non è di Putin. Più in generale, per molti decenni abbiamo raccontato che in questo mondo sempre più connesso lo Stato-nazione è superato; e quindi, implicitamente, lo stesso esercizio della sovranità popolare che aveva fondato la democrazia su basi nazionali viene condizionato e limitato da forze superiori. Salvo scoprire che queste «forze superiori» non sono né oggettive né naturali; producono risultati che avvantaggiano pochi, sempre gli stessi. Come stupirsi, allora, se una parte di noi perde fiducia nella democrazia stessa?
«Non hanno dimenticato nulla. E non hanno imparato nulla». Si dice che Charles- Maurice de Talleyrand, celebre figura della Rivoluzione francese e del periodo napoleonico, diede questa definizione dei nobili esiliati, quando tornarono in patria con la Restaurazione del 1815. Evitiamo che quella frase finisca per descrivere anche la nostra generazione, il nostro tempo.
Fonte: La Repubblica
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