di Carlo Formenti
Intervenendo sulle pagine del New York Times Bernie Sanders compie una lucida analisi delle ragioni della sconfitta di Hillary Clinton. Trump ha vinto perché la sua retorica elettorale ha saputo sfruttare la rabbia di milioni di ex elettori democratici, esasperati dalle élite del loro partito che ne hanno ignorato bisogni e interessi, che se ne sono fregate del fatto che le persone devono lavorare più ore in cambio di salari più bassi, che milioni di posti di lavoro se ne sono andati in Cina, in Messico o in altri Paesi in via di sviluppo, che i manager guadagnano trecento volte più di loro, che non possono più avere accesso a cure decenti per i propri figli né far loro frequentare scuole adeguate, che non trovano più abitazioni ad affitti accessibili, che la pensione è diventata un miraggio, ecc.
Dopodiché si chiede se Trump avrà davvero il coraggio di fare alcune delle cose che ha promesso in campagna elettorale: imporrà controlli severi sulle speculazioni finanziarie? Obbligherà l’industria farmaceutica ad abbassare i prezzi? Promuoverà massicci investimenti per ricostruire le infrastrutture senza preoccuparsi dell’aumento della spesa pubblica e senza tagliare la spesa sociale (come chiedono invece i suoi colleghi di partito)? Non darà il suo consenso a nuovi accordi di liberalizzazione commerciale come il TTIP (e quindi a nuove perdite di posti di lavoro per i cittadini americani)? Se dovesse mantenere queste promesse (che, ricordiamolo, erano presenti sia pure in forme diverse anche nel programma elettorale del senatore del Vermont) Sanders afferma che non gli farà mancare il proprio sostegno.
L’affermazione suona spiazzante, visto l’abisso ideologico che separa i due uomini politici, ma Sanders se la può permettere perché sa che le cose non andranno così, che Trump ha mobilitato la rabbia dei lavoratori bianchi poveri per rivolgerla contro le minoranze che stanno ancora peggio di loro, ma che non la scatenerà mai contro le banche, l’establishment politico e la casta dell’1% dei super ricchi. Come si è infatti visto, ha iniziato sfoggiare una maschera moderata sin dai primi minuti successivi alla sua elezione, per cui le borse e i media non hanno impiegato troppo tempo a tirare un sospiro di sollievo e a prendere atto che il Paese sarebbe rapidamente tornato al business as usual. “Non è nemico delle banche e anzi si circonderà di esperti consulenti finanziari come i suoi predecessori” scrivono gli uni. “Farà gli investimenti infrastrutturali promessi, ma li affiderà alle imprese private per non pesare sulla spesa pubblica”, aggiungono gli altri. “Forse non stipulerà nuovi accordi commerciali, ma non potrà spingersi troppo oltre sulla via del protezionismo per non entrare in collisione con la Cina”, argomentano altri ancora. Ma soprattutto: “taglierà le tasse più di Reagan” esultano tutti.
Come si vede un quadro al tempo stesso rassicurante (per le élite) e contraddittorio (come fare tutto ciò senza gonfiare a dismisura il debito pubblico e senza tagliare drasticamente la spesa sociale?). Resta il dato epocale: se è palesemente esagerato parlare di “fine della globalizzazione”, è altrettanto chiaro (come dimostrato anche dalla Brexit e dal cambio di rotta in politica economica annunciato dal nuovo governo conservatore di Theresa May) che si manifestano i primi sintomi di una inversione di tendenza; al punto che il direttore del Wall Street Journal Gerry Baker, intervistato dal “Corriere della Sera”, da un lato rassicura sul fatto che Trump “non è nemico delle aziende e della finanza”, dall’altro prende atto con preoccupazione che, d’ora in avanti, lo scontro politico sarà sempre meno fra progressisti e conservatori e sempre più fra globalisti e populisti.
Il che ci riconduce: 1) al fatto che sempre più forze tendono e tenderanno a convergere in un campo populista che, da destra come da sinistra, raccoglie la rabbia delle classi subalterne, trasformandola o in guerra fra poveri o in quella nuova forma di guerra di classe che è il conflitto alto/basso, popolo/élite; 2) alla necessità per il populismo di sinistra di chiarirsi le idee sulla strategia politica da adottare per opporsi alle élite neoliberiste e, al tempo stesso, per contendere l’egemonia al populismo di destra. Quali sono, per tornare allo scenario americano, le scelte di Sanders per affrontare il compito?
In un precedente intervento su queste pagine ho criticato la sua decisione di concedere il proprio endorsement a una figura politica corrotta e squalificata come Hillary Clinton adottando una logica “frontista” per difendere la democrazia contro la minaccia di destra rappresentata da Trump. Errore perché, come lo stesso Sanders ha ben spiegato nei suoi scritti e discorsi (vedi la sua autobiografia tradotta da Jaca Book), la “democrazia” americana (e lo stesso si potrebbe dire per la nostra) si è da tempo trasformata in un sistema oligarchico che non offre alcun reale potere decisionale al popolo. Errore perché la speranza di riformare dall’interno il partito Democratico si è rivelata illusoria (basti pensare allo “scippo” con cui l’establishment ha regalato la nomination alla Clinton) e apparirà ancora più illusoria quando Sanders la senatrice Warren e altri settori della sinistra proveranno a imporre un cambio di linea (le lobby che controllano il partito non lo consentiranno mai). Errore, infine, perché la rete di attivisti, comitati, sindacati, associazioni che si era coagulata attorno a Sanders ha vissuto con rabbia e frustrazione la scelta di appoggiare la Clinton, tanto è vero che non l’ha votata.
Una rabbia che oggi si esprime con le manifestazioni di piazza contro Trump le quali, contrariamente a quanto scrivono i media, non vedono protagonista un presunto “popolo della Clinton” (la mobilitazione è più forte proprio negli Stati dove la Clinton ha raccolto pochissimo) ma un “popolo di Sanders” che il senatore del Vermont avrebbe dovuto (e che ancora potrebbe) organizzare in vista della costruzione di una terza forza politica da opporre al sistema oligarchico democratico/repubblicano.
Fonte: Micromega online
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