di Massimo Di Palma
La prima scena è quella di centinaia di persone in movimento, molte chiome ingrigite, alcune bianche. Li vedi: alcuni sono proprio anziani. Poi ventenni, trentenni, quarantenni, e bambini. Tanti. Camminano uniti dietro lo striscione, i celerini sullo sfondo. Uno striscione lì davanti: “Giù le mani dal Corto Circuito”. La piazza è gremita. Determinata e insieme attonita. Non capisce. O forse capisce troppo bene, perché è l’ennesima volta che succede, in questi mesi. E stavolta è toccato al Corto.
La seconda scena vede due persone, brave persone, che indossano una pettorina e sbiancano una scritta alla fermata della metro. La scritta è una frase famosa: “Le strade libere le fanno le donne che le attraversano”. Una lavora spugnetta alla mano, un su e giù frenetico. L’altra discute con uno che fa mostra di non capire. Quella sorride, replica serena – i muri sono di tutti, dice. Tutti li vogliono puliti, dice. Tutti.
Va di moda il cinismo. Va per la maggiore, nell’era del gigantesco balzo a destra, dei Trump, dei Putin, del “diventiamo tutti più populisti e vediamo che succede”. Va di moda sfottere, con maggiore o minor sagacia, chi la pensa diversamente, chi non si arrende ai dettami dell’individualismo imperante e disperato. Il cinismo va di moda in cabina elettorale e nelle amministrazioni locali. Va di moda anche a Roma, dove la sconquassante vittoria Cinque Stelle ha unito all’indignazione voci di giubilo e di speranza, seguite da una serie di mosse inesistenti, un sequel del governo del “Doppio Prefetto” andato in onda fino a giugno, ma molto più rumoroso. Oggi, mesi dopo, decine di sgomberi dopo, sembra continuare quel giro di basso non-politico che ha preso decisioni al posto della politica per un anno. Per questo in periferia continua la moda dello sgombero degli spazi sociali cominciata sotto Marino – si fa piazza pulita. Di cosa? Di situazioni di illegalità, si ripete. E ben venga, verrebbe da dire, in un Paese con tassi mostruosi di evasione, un sommerso che non emerge, potenze criminali parastatali che tengono lo Stato per il collo da decenni.
E però l’illegalità, oggi, viene vista sotto un’angolatura particolare. È illegale, sembra, tutto ciò che va contro il decoro (c’è un pamphlet di Tamar Pitch che si chiama così, Contro il decoro, e spiega un bel po’ di cose). Perché assieme al cinismo va di moda il decoro. E con lo slogan del decoro va di moda dire che Roma è schifosa, va schifata, ovvero ‘schivata’. Che problemi di specie assai diversa come la raccolta dell’immondizia – tema politico romano dei più seri, furto politico da più generazioni – e non-problemi come un tag sotto un ponte possano essere accomunati sotto l’unica grande dizione scatologica dello “schifo”.
Nel frattempo nelle grandi città, nella Capitale, sotto i ponti, sotto i tag vi sono ovunque non-presenze, non-persone, che galleggiano sospesi all’esistente, ai criteri sempre più al ribasso della sopravvivenza. Sono migliaia gli homeless, migranti o di fiera italica stirpe – non importa. In migliaia dormono sui cartoni, negli antri dei palazzi, nelle baracche delle ciclabili sul Tevere. Ma il degrado, per il nuovo civismo indignato, restano gli adesivi sui pali, le scritte sui muri.
In fondo la legge vieta a tutti di dormire sotto i ponti: lo diceva Anatole France cento e passa anni fa. È sempre questa l’idea d’uguaglianza che va di moda oggi. È questa la legalità di cui si parla, quando si schifa la povertà che non si nasconde, quando si cancella ogni traccia di protesta, perché così, al di fuori di alcune regole, non si fa.
E quindi se ci sono spazi in cui c’è una trattoria sociale, qualche cantuccio per un sacco a pelo, se c’è una biblioteca, uno sportello dove un avvocato, un commercialista offrono ascolto e servizi, dove chi perde lavoro può conoscere i suoi diritti, chi lo cerca può trovarlo, se c’è un palco per suonare, una palestra popolare, se ci sono spazi che concentrano tutto questo, le amministrazioni, le questure, le prefetture non guardano ai centinaia di volti che entrano ed escono più felici, o anche semplicemente meno soli nella lotta quotidiana. Guardano ai permessi, alle ordinanze, alla lettera di norme senza più presa sulla realtà.
Per questo chi si occupa dei diritti fondamentali di una vita vissuta in una città tosta come Roma, nei quartieri più abbandonati dalla politica, chi si batte per i diritti sociali, chi li esercita e li reclama, viene sistematicamente bandito, proprio in base a questa visione distorta della legalità. Realtà territoriali che tra mille difficoltà costruiscono nuove socialità, realtà che contano anni, decenni, un quarto di secolo di storia (è il caso del Corto Circuito, creato a Cinecittà quando c’era ancora l’URSS), vengono invitate a farsi da parte.
Anche a Milano, realtà come Zam e Lambretta sono state messe di fronte ai sigilli nell’impotenza dell’amministrazione. Così a Roma negli ultimi mesi sono stati chiusi sgomberati o minacciati Corto Circuito, Scup, Casetta Rossa, Auro e Marco, Esc, Brancaleone, Init e tanti spazi sociali – i “luoghi comuni”, li hanno chiamati – di un territorio che da anni è in sofferenza e galleggia a fatica in una palude di malapolitica, incuria, profitti enormi per pochissimi rimediati nell’antico sport palazzinaro di edificare mostri di cemento, spalleggiati dai buoni uffici capitolini. E allora conviene dire con chiarezza che questi elementi di attivismo civico, colpevoli di condotte indecorose e di idee collocate nell’alveo di una sinistra non esattamente benpensante né ben vestita, sono esempi di quel “protagonismo istituzionale” – la formula è di Rodotà – che la Costituzione e ogni scienza giuridica che abbia a che fare con la democrazia individuano nell’attività di comunità di cittadini che si autoorganizzano. Sì, in questi spazi c’è una produzione di conflitto, ma il conflitto è il sale della democrazia. Sì, questi cittadini occupano spazi – ma li usano. E si può usare una cosa senza esserne proprietari. C’è un diritto all’uso, perché un bene inutilizzato sta lì e basta, ma se occupato prende vita, dà frutto.
Il succo è questo: si trovano spazi non usati e si decide di usarli, di riempirli di contenuti politici e sociali. Li si riempiono di parole, scritte, canzoni, di gente che dorme, mangia, fa festa, e poi lotta, protesta, incrocia la rabbia e la trasforma. Vi si svolgono riunioni politiche, presentazioni di libri, laboratori per bambini, si mettono su squadre di rugby, palestre. Si cucina, si consuma assieme. Si decide insieme, in riunioni-fiume che fanno orrore al decisionismo esibito. Si decide insieme l’uso, il progetto, come, con chi lottare. Poi basta un nulla, un esposto, una voce stonata, e si sveglia l’autorità, intima l’addio a tutto, ai piani, alle lotte di quel posto, agli anni di storie vissute, di uso di luoghi che sono diventati case senza esser proprietà. Si trova un cavillo burocratico per far sì che chi occupa spazi – pubblici, demaniali, privati – inutilizzati venga messo all’indice, se ne debba andare. La politica, interpellata, è sistematicamente in ritardo. Sistematicamente impotente. Perché è la legge ad autorizzare queste misure – e la proprietà è un diritto terribile, si sa.
È proprio questa la strategia in atto da anni. Criminalizzare non solo il dissenso, ma le forme di vita alternative all’unico modello ammesso. Ci penserà la penna pensante assai seguita a ingrassare il flusso d’odio contro chi resiste e resistendo fa una vita diversa, semplicemente più libera di quella coatta del nostro grigissimo tempo. L’obiettivo, nell’abbandono di ogni partecipazione alla politica, è spoliticizzare in fretta chi cerca altre strade. Ghettizzarlo, ridurne le fila. Il cinismo, il riflusso infinito farà il resto.
Eppure, al di là di ogni retorica che li bolla come facinorosi sediziosi rivoltosi anarcoinsurreziocosi, gli spazi sociali sono luoghi istituzionali. Istituzionali, nel senso che sono radicati nei territori in cui vivono, stabiliscono pratiche comuni, sono punti di riferimento. Creano comunità. Educano alle differenze. A prendere parte – a non sentirsi soli. Seminano anticorpi al cinismo. Non è esattamente poco, far coincidere la vita e la democrazia, l’indisciplina e la festa. Per questo il calcolo repressivo è sbagliato. Chi ha visto una vita migliore non la dimentica: se gliela tolgono, la rivuole.
Articolo pubblicato sul Mucchio n.749 – dicembre 2016
Fonte: dinamopress.it
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