di Matteo Bortolon
Il 2016 è stato certamente un anno di svolta. Appare ancora prematuro un giudizio sulle conseguenze del Brexit, materia densa di tecnicismi e su cui è difficile azzardare previsioni; le negoziazioni devono ancora iniziare e l’appena dimissionario ambasciatore inglese a Bruxelles fa capire che il governo di May non avrebbe una strategia chiara in merito (accenna addirittura a «pensieri confusi»). Qualcosa di più si può capire del perché considerandone gli aspetti economici con un passo indietro nella storia recente del paese.
Le politiche liberiste introdotte dal governo Thatcher nei primi Ottanta e, sostanzialmente, proseguite dai laburisti, hanno avuto un impatto deludente se non disastroso: la crescita del Pil è stata fiacca; la crescita della produttività si è inceppata, rallentando nella prima decade neoliberale e bloccandosi nei Novanta; fra un campione di paesi (Francia, Germania, Giappone, Svezia e Stati Uniti) il Regno Unito è quello che ha investito di meno in ricerca e sviluppo; il tasso di disoccupazione medio post-1979 è considerevolmente più alto che nel periodo precedente; non solo insomma, basandosi sui criteri mainstream stessi per cui un paese si può definire di successo il neoliberismo registra una decisa bancarotta (senza nemmeno citare i risultati in termini di sviluppo umano e povertà).
Ma il processo che sta alla base consiste in una decisa deindustrializzazione del paese, culla della rivoluzione industriale che ha una capacità manifatturiera inferiore non solo a Francia e Germania ma a Polonia e Rep. Ceca. La Gran Bretagna non produce più ma importa di tutto: il passivo sulla bilancia commerciale (cioè il saldo fra export e import) vede una progressione terrificante: da -24,3 miliardi di euro (2005), – 50,9 mld (2010), – 132,6 mld (2015). Il deficit nell’interscambio di beni (no servizi) nel 2014 è pari al 6,3% Pil. Il primo protagonista è il neo mercantilismo tedesco. Vi è stata una massiccia delocalizzazione di produzione nell’est Europa e in estremo Oriente.
Il paese si regge su una robusta finanziarizzazione e sull’indebitamento. Quanto alla prima si fa riferimento ai servizi finanziari e al settore bancario. Un indicatore significativo è che gli investimenti diretti all’estero sono passati dal 22,5% sul Pil (1990) al 74,4% (2013). L’indebitamento privato a sua volta è cresciuto fra il 1979-2007 in media del 7%, di contro ad un 4% del decennio precedente. La famosa City di Londra è conosciuta come «secondo impero britannico», non più basato sulle cannoniere e sulle colonie ma su una fitta rete di interscambi con vari centri finanziari. In questo quadro gli inglesi hanno sempre rifiutato una integrazione europea troppo stretta (vista anche la crescente egemonia tedesca). La crisi europea dei debiti ha però determinato un’accelerazione dei processi, in specie un accentramento su Bruxelles della regolamentazione bancaria (la famose «Unione bancaria»).
Questo non poteva piacere a Cameron che agitando minacciosamente il referendum lo ha usato per fare vittoriosamente pressione sulla Commissione e sulla Bce, strappando a febbraio 2016 condizioni assai vantaggiose a favore di una perdurante autonomia britannica.
Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi: ha vinto il Brexit, facendo emergere tutta la rabbia popolare verso un sistema volto a tutelare l’accumulazione finanziaria. E mentre le anime belle piangono sulla evaporazione del sogno europeo, i vertici della Ue strepitano e minacciano, il nuovo governo britannico non pare avere idee chiare su come gestire l’esito – imprevisto anche agli stessi promotori.
I pragmatici inglesi presumibilmente troveranno un aggiustamento; è l’Ue che deve far fronte alla sua crisi maggiore, in fase di sfaldamento e incamminata verso elezioni con forze euroscettiche molto decise.
Fonte: il manifesto
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