di Renato Strumia
“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016. Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi. Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.
A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino. Malamente difese da scalate estere ostili, tramite barriere regolamentari anacronistiche e fusioni “difensive”, che hanno consegnato agli azionisti ricchi e intempestivi dividendi, frutto delle “economie di scala”, le banche italiane sono arrivate alla grande crisi con una struttura patrimoniale inadeguata per solcare mari in tempesta.
Avendo alle spalle uno stato finanziariamente debole e all’interno un management (strapagato) gravemente incapace e incosciente della gravità dei problemi, i banchieri (quasi tutti) hanno respinto sdegnosamente gli aiuti di stato (i famosi Tremonti Bond) per paura di perdere potere. Mentre i crediti dubbi crescevano in modo esponenziale, le fondazioni faticavano a sorreggere gli aumenti di capitale resisi necessari e quindi si cercavano all’estero capitali di ventura (da Blackrock ai fondi sovrani arabi o libici), per racimolare capitale, possibilmente non troppo esigente nel pesare sugli assetti di comando.
Dieci anni di recessione hanno fatto esplodere i casi più disperati, che peraltro non sono frutto del caso, ma della combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Non dimentichiamo che Mussari (MPS) è stato per due mandati stimato presidente dell’ABI, con Berneschi (Carige) tra i vicepresidenti. Un parterre de roi, oggi indaffarato con inchieste penali non di poco conto. Mentre le banche tedesche, francesi, inglesi, olandesi, belghe venivano assistite dallo stato con centinaia di miliardi di euro, per restare in piedi dopo evidenti fallimenti tecnici, le banche italiane affermavano seriamente di essere solide e competitive sul “mercato”, tranne pochi casi isolati, opportunamente commissariati. Si diceva che presto anche per loro sarebbe arrivata una “soluzione di mercato”.
Si procedeva così al recepimento, anche in Italia, della normativa europea del “bail-in”, che significa rifiutare gli aiuti di stato alle banche in difficoltà e azzerare il valore di azioni e obbligazioni subordinate, per passare poi, se necessario, alle obbligazioni senior e ai depositi sopra i 100.000 euro. Ricetta prontamente applicata al caso delle quattro banche fallite nel novembre 2015, scadenza che ha di fatto aperto le porte del baratro al sistema bancario italiano e scatenato una crisi che si cerca ora disperatamente di tamponare con l’intervento pubblico da 20 miliardi, per prevenire crisi sistemiche incombenti.
Le “soluzioni di mercato”, mantra ideologico martellante ma inservibile quando si tratta di scucire miliardi privati per scongiurare disastri imminenti, non si sono viste: Mediobanca e JP Morgan hanno fallito nel trovare compratori per MPS e il fondo del Qatar ha scelto di starne fuori. Il cerino in mano è rimasto ai piccoli risparmiatori, pieni di obbligazioni subordinate, e in ultima analisi ai contribuenti italiani, che dovranno ristorarne le perdite, sempre che l’UE non si metta di traverso, come già stanno facendo i falchi tedeschi e i custodi dell’ortodossia “di mercato”.
Ed è solo l’inizio di una partita lunga, che servirà da battistrada per altri dossier scottanti, che stanno ancora bollendo in pentola. Attaccare il nostro sistema bancario, fragile per i suoi 85 miliardi di crediti deteriorati netti, per la perdita di 5,6 miliardi di ricavi in 10 anni e per il crollo degli utili (dai 22,7 miliardi di euro nel 2007 ai 3,7 miliardi nel 2015) è lo sport preferito negli ambienti finanziari europei: farlo a pezzi è funzionale per chi punta magari a prendere il controllo di questo contenitore, che ingloba pur sempre il corposo risparmio degli italiani, uno dei più alti al mondo.
E arriviamo così al secondo livello del ragionamento, che prende in considerazione la disastrosa gestione politica della crisi bancaria italiana. Non è fuori luogo ricordare le “porte girevoli” che vedono circolare sempre gli stessi personaggi, tra aule universitarie, C.d.a. delle banche e poltrone di governo: Passera, Fornero, Monti, Profumo (Alessandro e Francesco), l’immarcescibile Bazoli, l’impresentabile Verdini, le telefonate compromettenti degli ultimi arrivati (“Abbiamo una banca?”), il conflitto di interessi della Boschi e tanti altri personaggi da operetta, che si sono trovati quasi casualmente a ricoprire ruoli di responsabilità in settori delicatissimi. Basti pensare al duo Renzi-Padoan, cui va attribuita, per intero, non tanto l’origine della crisi di Monte Paschi, ma certamente la sua incredibile e fallimentare gestione finale. Già nel 2013 il Fondo Monetario (avete letto bene, il Fondo Monetario…) aveva suggerito la nazionalizzazione della banca, ma il governo italiano riuscì a far depennare la frase nel documento finale! E per tutto il 2016, a crisi ormai conclamata, sotto i colpi devastanti della vigilanza europea (che sorvola sui derivati delle banche dei paesi “core” ma sbertuccia le banche dei paesi “piigs”) Renzi e Padoan hanno rimandato tutto all’esito del referendum (per fare cosa?), affidandosi alla JP Morgan, che ha imposto a luglio il cambio di direzione, con la defenestrazione di Viola e l’intronamento di Morelli, capo di JP Morgan Europa e già direttore finanziario MPS all’epoca dell’acquisto scellerato di Antonveneta. Intanto i risparmiatori votavano con i piedi, ritirando 20 miliardi di depositi dalle casse del Monte, mentre gli obbligazionisti subordinati, terrorizzati dalla possibile perdita integrale del capitale come nel caso Etruria, accettavano obtorto collo di convertire i propri titoli in azioni. Tutto inutile, tutto da rifare…
Adesso il decreto del governo apre una difficile transizione: lo stato salirà al 70% del capitale, la banca emetterà 15 miliardi di titoli per rifinanziarsi nel 2017, ma non è affatto chiaro cosa significhi il modello di salvataggio prescelto (“burden sharing” in luogo del “bail-in”). Perché non parlare in italiano e spiegare bene ai risparmiatori come funzionerà la conversione delle loro obbligazioni subordinate prima in azioni e poi dopo di nuovo in obbligazioni senior? Quanto perderanno? Quanto costerà l’operazione alle casse dello stato? Perché si insiste già sul ruolo “provvisorio” dello stato, da non protrarsi oltre i 12-24 mesi? Perché bisogna fare intervenire lo stato per evitare casini e poi restituire tutto ai privati quando si può ricominciare a guadagnare?
Sono interrogativi retorici, che denunciano l’avvenuta e totale perdita di sovranità, in cambio dei diktat che recepiscono le direttive “del mercato”…
E così arriviamo al terzo livello, quello che alla fine ci interessa di più: le conseguenze sui lavoratori di questa situazione kafkiana, che vede uscire sconfitti tutti i soggetti “deboli”, mentre i giocatori d’azzardo avranno fatto affari memorabili, puntando prima sui ribassi e poi sul salvataggio pubblico. Negli anni i lavoratori MPS hanno subito svariati piani industriali che hanno pesato enormemente sugli organici, sulle condizioni retributive, sui diritti normativi, sul welfare aziendale. L’esternalizzazione di 1.000 lavoratori in Fruendo è stato il passaggio più traumatico, ancora oggetto di vertenze legali controverse. I diritti sono stati calpestati in nome della sopravvivenza dell’azienda, ma le rinunce non sono bastate per evitare il peggio.
L’ultimo piano industriale, varato a ottobre, prevedeva 2.900 esuberi e 500 chiusure di filiali, ma non è stato mai discusso veramente, dato che tutto dipendeva dalla ricapitalizzazione, poi fallita. L’accordo ponte firmato il 23 dicembre è poco più di un pannicello: manda a casa 600 addetti che maturano i requisiti pensionistici entro il 31.5.2022 e qualche decina di colleghe con “l’opzione donna”. Per gli altri passeranno altri mesi di angoscia e di incertezza, prima che un nuovo e più draconiano piano industriale emerga dalle nebbie dell’intervento pubblico. E’ grave che il management, Morelli in testa, sia stato riconfermato, a prescindere dal fallimento del suo “progetto”. Per i lavoratori MPS si apre una stagione durissima, come già si intravede per i casi più noti (fusione Veneto Banca – Pop. Vicenza, fusione Banco Popolare – BPM, vicenda Carige, accordo Cariferrara e risoluzione delle altre tre banche fallite).
Di fronte ad una riproposizione seriale di piani lacrime e sangue, solo l’unità della categoria e la solidarietà di sistema possono garantire soluzioni accettabili. Non sarà una passeggiata, ma la mobilitazione e la lotta hanno dimostrato, in altre situazioni e in altri settori in crisi, di pagare sul piano dei risultati concreti. Nel contempo bisogna aprire la discussione sul bilancio da trarre da questi 25 anni di privatizzazione del credito e sui caratteri e le prospettive della sua ri-nazionalizzazione.
Ed anche sul ruolo dei rappresentanti sindacali dei lavoratori bancari, che hanno spesso condiviso l’entusiasmo per le privatizzazioni, convinti di avere così un maggior potere negoziale (magari con forme di cogestione), e devono oggi prendere atto di un clamoroso fallimento, dalle conseguenze pesantissime. Non sarà mai troppo tardi per cambiare registro e ricostruire sulle macerie l’idea di un sindacato diverso che, anziché concertare e collaborare con i vertici aziendali, faccia dell’autonomia la propria bandiera ed usi il conflitto per difendere gli interessi di chi rappresenta.
Fonte: La Città Futura
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