di Alfonso Gianni
Nell’editoriale di fine anno dedicato al populismo, tema principe nei commenti giornalistici e nella saggistica degli ultimi mesi, Norma Rangeri ci ripropone il marxiano hic rhodus, hic salta, riferendosi al dilemma del se e con chi allearsi: con il Pd o con i 5Stelle. Il soggetto dubitante dovrebbe essere ciò che ancora non c’è, una nuova formazione di sinistra dotata di autonomia di pensiero e d’azione e di sufficiente massa critica. In compenso ce ne sono diverse, forse troppe, tutte prive delle doti di cui sopra e ciascuna già indirizzata lungo un percorso proprio che non contempla neppure il parlarsi reciproco.
EPPURE L’ANNO CHE ABBIAMO alle spalle non si è chiuso male. Le elezioni amministrative in alcune grandi città hanno evidenziato lo sfumare dei consensi attesi attorno al Pd e per converso, seppure in differenti misure, hanno contribuito a solidificare esperienze di lavoro in comune a sinistra al di là delle sigle dei micropartiti, conquistando anche qualche rappresentanza elettiva. Ma è stato soprattutto l’esito del referendum costituzionale a destabilizzare il quadro e lo scenario politico.
NON È STATO IL POPULISMO il protagonista della vittoria del No. Anzi, proprio in questo sta l’originalità del voto italiano. Il parallelismo con quello sulla Brexit o peggio ancora per Trump, come purtroppo si sente dire anche a sinistra, è del tutto infondato.
Al contrario, se riconosciamo nelle teorie populiste e nelle loro realizzazioni un comune denominatore nel rapporto esclusivo e disintermediato fra il capo e il (suo) popolo, il 4 dicembre ha sancito la sconfitta in proporzioni impensate proprio del plebiscito cercato da Renzi. Il populismo «dall’alto» ne è uscito con le ossa rotte. Ma anche quello «dal basso», almeno nelle sue versioni più semplificate, non ne esce trionfante. La geoeconomia del voto è nitida. Tutti gli studi analitici ci confermano l’enorme incidenza della condizione sociale nella scelta di voto. Si potrebbe dire che, anche se sono entità non commensurabili, i giovani e il Mezzogiorno siano stati i protagonisti in carne ed ossa di questa vittoria.
Ma la dimensione orizzontale dell’autonomia sociale – la catena equivalenziale, per usare una categoria di Laclau – si è, quasi con naturalezza, incanalata nell’ambito della difesa del testo costituzionale. Chi ha scommesso fin dall’inizio in un possibile fruttifero incrocio fra questione sociale e questione democratica ha vinto e non era affatto scontato.
La disaffezione verso i partiti e la loro politica non si è tradotta affatto in una indifferenza verso la sorte delle istituzioni rappresentative. Settori di tradizionale non voto hanno contribuito ad innalzare l’afflusso alle urne. La pratica della democrazia diretta; la creazione di spazi innovativi di azione, di produzione materiale e immateriale, di relazione sociale; le conflittualità diffuse dei movimenti, non gerarchizzabili perché non monoegemoniche: tutte queste hanno riconosciuto che le migliori possibilità del loro sviluppo stanno dentro questa Costituzione non fuori da essa; risiedono nella sua piena applicazione ed ampliamento progressivo che essa garantisce; che la sua persistenza è uno scudo contro il pericolo sempre in agguato di essere riassorbiti dal potere costituito a livello di società reale. Il senso di un No costituente – anche se l’espressione fa storcere il naso ai puristi – è quello di un intreccio fra conservazione (della Costituzione) e trasformazione (dei rapporti economico-politici).
TUTTO QUESTO AVVIENE non per caso e non per la prima volta. Anche nel 2006, in un quadro politico completamento diverso, quasi invertito, si manifestò ugualmente una partecipazione al voto maggioritaria, malgrado il non obbligo del quorum. Si delinea quindi un popolo della Costituzione che ha dato prova di sé in due occasioni ove la sconfitta sarebbe stata fatale per l’ordinamento democratico. Un popolo senza principe, nel senso gramsciano del termine. Un popolo composito nei suoi orientamenti. Per questo nessuna forza politica che ne rappresenta una parte può attribuirsi il tutto, inseguendo specularmente il sogno renziano infranto: quello del partito catch all.
EPPURE QUALCHE COSA DA QUI si muove. Anche le destre peggiori hanno votato No. Lo hanno certamente fatto strumentalmente, per puro politicismo. Nessuno nutre diverse illusioni. Ma per farlo hanno dovuto negare, seppure in modo non definitivo, i principi sui quali sono fondate. Il pensiero che muove dal carattere democraticamente progressivo e sociale della Costituzione ha fatto concreta egemonia anche sui suoi tradizionali avversari. Ciò è avvenuto non solo nel contingente politico, ma anche sul terreno culturale. Dopo tanto tempo nelle piazze e sul web si è parlato dei fondamenti della società, non degli algoritmi della politica. Anche per questo la televisione ha perso il confronto con i social media.
MA UNA NUOVA FORZA POLITICA di sinistra non sgorga automaticamente dalla vittoria elettorale. I comitati per il No non devono sciogliersi, e non lo faranno, ma nemmeno essere trasformati in sezioni di un partito che non c’è. Non si dà forza politica senza l’incontro tra un pensiero, necessariamente complesso e articolato, e i movimenti reali. Lo si vede anche nelle difficoltà che incontrano le migliori esperienze europee. Solo che questo non avviene nel piccolo cielo dei ceti politici. La mossa che dobbiamo fare, al di là delle metafore scacchistiche, è sotto i nostri occhi. La ricostruzione di una forza politica di sinistra comincia dalla ridefinizione in concreto del suo popolo e non viceversa. Un popolo di sinistra, per il quale la questione politica è funzione di quella sociale. Per questo lo scontro sui referendum sul lavoro, a cominciare dalla loro ammissibilità da parte della Consulta, è la questione cruciale. Non solo in sé, ma per sé.
Fonte: il manifesto
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