di Silvio Paone
Impazza il dibattito, sul web e sui media, intorno alla proposta del Presidente dell’antitrust Pitruzzella sulla possibilità di istituire un organo pubblico che contrasti il diffondersi di bufale e notizie false sui social network. La proposta non è nuova, e non è un prodotto esclusivo della politica nostrana. Ogni scossone politico verificatosi negli ultimi mesi nel mondo ha aperto un acceso dibattito sulla questione della cosiddetta “post verità”. Dalla Brexit, all’elezione di Trump, fino alla sconfitta di Renzi al referendum costituzionale.
Negli States la proposta di Mark Zuckerberg è stata di individuare degli “esperti di fact-checking” tra i principali organi d’informazione nazionali per una verifica rapida ed indipendente delle notizie che circolano sul social network di cui è amministratore delegato. Numerose son state le protese, provenienti sia dalla destra di Trump che dalla sinistra meno moderata, dato che i principali organi d’informazione individuati erano stati in larga parte tra i più ferventi sostenitori della Clinton durante la campagna elettorale. Il dibattito si è rapidamente sviluppato anche in Germania dove Thomas Oppermann, capogruppo dei socialdemocratici, ha proposto multe di 500 euro per ogni bufala che facebook non dovesse provvedere ad eliminare tempestivamente. La sua proposta è giunta pochi giorni dopo le affermazioni della cancelliera Merkel sulla possibilità che cyberattacchi e false informazioni provenienti dalla Russia possano viziare la campagna elettorale.
Anche in Italia, le affermazioni di Pitruzzella non sono casuali, ma vanno collocate nel contesto di continuo attacco alla libertà del web sferrato da eminenti personaggi della politica nostrana. Da Napolitano alla Boldrini passando per Orlando, fino ad arrivare allo stesso Renzi che pare convinto di aver perso il referendum costituzionale proprio a causa del web, dove a fronte del diffondersi di continue notizie false la presenza del fronte del si sarebbe stata inerziale. Grillo dal canto suo risponde col suo solito stile provocatorio. Accusa “la casta” di voler istituire una sorta di tribunale dell’Inquisizione e rilancia immediatamente proponendo “tribunali popolari” che dovrebbero valutare i media mainstream sulla base della veridicità delle informazioni che diffondono e chiedere conseguenti sanzioni. Una retorica forcaiola che tuttavia paga. In effetti Grillo è stato capace anche in questo caso di ribaltare le accuse che gli venivano lanciate, cambiarle di segno e rivolgerle contro il nemico di sempre: la casta, con i suoi mezzi d’informazione deputati al mantenimento dello status quo. La riproposizione su un tema differente del celebre “apriremo il Parlamento come una scatola di tonno” che fu lo slogan del M5S alle ultime elezioni politiche. Uno sglogan che ha pagato, fin qui. E che non si vede perché non dovrebbe ancora pagare, in un clima di generale crisi di legittimità di un intero sistema di potere politico, economico, mediatico. Uno sglogan che potrebbe essere anche condivisibile (auspicare che la società possa verificare la veridicità delle informazioni che vengono fornite da politici e media maistream e sbugiardare chi ne diffonde di false è un principio assolutamente sano), se non fosse che viene portato avanti all’interno dei soliti schemi giustizialisti tipici del M5S. Ed in effetti il concetto di “tribunale del popolo” assume un significato inquietante se espresso da chi fa firmare contratti privati che impongono assoluta obbedienza ai propri candidati o che concepisce la partecipazione popolare solo come un susseguirsi di votazioni a crocette degli iscritti ad un sito web che porta il proprio nome. Da più l'idea di un’Inquisizione a 5 stelle da contrapporre all’Inquisizione della casta.
Ma l'immagine che ci fornisce questo quadro è innanzitutto quella di un establishment in piena crisi di legittimità che non riesce più a veicolare nella società narrazioni che costruiscano un senso comune atto a legittimare le proprie politiche. E' Una crisi complessiva delle istituzioni che fin qui hanno plasmato il nostro vivere sociale. Non solo delle Istituzioni statuali e/o economiche nazionali e/o sovranazionali. Ma anche di quegli organi che definiscono consuetudini, regole formali o meno, opinioni (in tal senso, i media sono a tutti gli effetti delle istituzioni). E allora la cosìddetta post-verità non si ferma al campo ristretto dell’attacco alla casta o a determinate strategie politiche che non vengono tollerate da parti significative della società (politiche migratorie, sostegno alle banche, politiche fiscali etc). Le bufale sul web riguardano gli argomenti più disparati. E la profondità di questa crisi complessiva della legittimità del sistema neoliberale che conosciamo da trent’anni si vede dal fatto che anche i postulati delle cosiddette "scienze dure" sono messi in crisi dal diffondersi di dietrologie e teorie del complotto. Ne è un esempio la questione dell’eventuale relazione tra vaccini ed autismo, o quella del presunto utilizzo delle scie chimiche da parte dei governi come strumento di “controllo sulle masse”. Narrazioni che anche dinanzi a robuste evidenze mostrate dai massimi esperti dei più disparati settori scientifici non sembrano placarsi. Perché non sono il frutto di un’analisi oggettiva (esercizio tra l’altro difficoltoso per non addetti ai lavori) ma di una profonda diffidenza verso il mondo della scienza visto come distante, chiuso in se stesso ed asservito agli interessi privati delle multinazionali. Dopo anni di scandali riguardanti le politiche delle industrie farmaceutiche, il proliferare di ricerche ad altissimo impatto verificatesi poi false, il diffondersi di medicinali inutili e atti solo ad accrescere i profitti privati, era inevitabile. Se a monte non viene più riconosciuta alla comunità scientifica l’autorevolezza di cui avrebbe bisogno, a poco servono le urla sguaiate di egregi professori che continuano a bacchettare quei poveri ignoranti privi di laurea, dottorato e cattedra universitaria che ritenengono che i vaccini siano dannosi. Perché questi egregi professori non hanno più l’autorevolezza per far accettare le proprie posizioni. E se questo accade anche per le scienze dure, i cui robusti criteri di verifica della realtà oggettiva dei fatti dovrebbero essere una garanzia riconosciuta dalla società, figuriamoci nell’ambito della politica.
Qui risiede tutta l’incapacità dell’establishment occidentale nel gestire la questione. Continuano a vedere solo il dito che punta la luna. O forse fanno finta di vedere solo il dito, perché se dovessero guardare la luna dovrebbero probabilmente prendere atto del proprio fallimento e ritirarsi a vita privata. La questione della post-verità, delle bufale sul web, viene affrontata in termini repressivi. Chi le diffonde è un ignorante nel migliore dei casi. Nel peggiore, è in mala fede. I social network sono la ragione per cui esistono le bufale. E quindi, bisogna semplicemente disciplinare il web. Peccato che il diffondersi virale di bufale non sia riducibile ad un qualche complotto ordito da un qualche gruppo più o meno organizzato di esperti di comunicazione social e manipolatori delle coscienze (idea che soffre della stessa dietrologia di chi crede che le scie chimiche diffondano sostanze psicoattive utili al controllo della società). Le bufale danno semplicemente corpo a sentimenti, paure, diffidenze già esistenti. In tal senso, per dirne una, quando la Democrazia Cristiana diffondeva la leggenda dei comunisti che si nutrivano di neonati, sarebbe servito a ben poco portare prove inconfutabili dell’assenza di questo particolare alimento nella dieta degli abitanti dell’URSS. Perché quella verità (o post-verità) all’interno di un settore della società era tale, senza bisogno di alcuna evidenza empirica. Semplicemente dava corpo ad una serie di pregiudizi ed opinioni diffuse rispetto alla brutalità ed all’assenza di umanità dei comunisti. Prendeva corpo a partire da un substrato culturale dato. I social network non creano nulla. Sono una superba cassa di risonanza per ciò che la società già sente. Il che non significa che in assenza dei social determinati fenomeni non sarebbero ridimensionati o che le interazioni che si svolgono sui social non abbiano un ruolo significativo nell’orientare l’opinione pubblica in una fase di crisi dei mezzi d’informazione classici. Significa semplicemente che non sarà la censura a spostare di una virgola l’appoggio di cui potranno godere governi ed istituzioni nella prossima fase. Che è quel che in fin dei conti interessa, dato che questi stessi governi ed istituzioni non sembrano aver mai avuto a cuore la verità in quanto tale.
Ricordate le armi di distruzioni di massa di Saddam mai esistite a causa delle quali tutto l’occidente ha dichiarato guerra all’Iraq? O gli scenari apocalittici che sono stati descritti in caso di sconfitta della Clinton, del si al referendum costituzionale, della Brexit, del no al piano di aiuti europei per la Grecia?
Nel più classico degli schemi, quando alcuni processi della società non possono più essere controllati, subentra la brutalità della coercizione e della censura: un organo statale che dovrebbe dire cosa è vero e cosa non lo è. Aprendo a scenari distopici degni del Ministero della Verità di Orwell. Quali sarebbero i limiti entro i quali tale organo dovrebbe muoversi, quali i criteri del fact checking, quali le competenze, e soprattutto i controlli su un simile organo non è dato saperlo. L’unica cosa che pare certa è che non si tratterebbe di uno strumento aperto ai cittadini, ma dell’ennesima istituzione scollegata dalla realtà e priva di ogni riconoscimento sociale.
Il problema è che quella dell'establishment è una crisi di legittimità a cui tuttavia non si è ancora contrapposta una proposta politico-culturale in grado di mettere in crisi effettiva l’egemonia culturale neoliberale. La cultura dell’individualismo sfrenato, della guerra tutti contro tutti, della competitività più disperata, del merito come unità di misura per l’accesso ad ogni diritto, è profondamente diffusa nella società ed è proprio il connubio tra questa e la retorica nazionalista e identitaria che nascono la maggior parte delle bufale (i famosi migranti negli hotel a 5 stelle senza muovere un dito mentre gli italiani che lavorano sodo e pagano le tasse sono costretti a stare in strada…).
Nel mezzo, tra le false narrazioni che ci presentano determinate politiche come naturali ed ineluttabili quando sono semplicemente frutto di una precisa razionalità politica ed economica e le bufale xenofobe e reazionarie diffuse sul web, la sfida è trovare uno spazio per raccontare altro. Per diffondere una cultura di profonda critica al sistema che non si fermi ad attaccare i singoli provvedimenti o le singole istituzioni, ma che colpisca i pilastri ideologici sui quali si è affermato il neoliberismo. Per veicolare narrazioni che presentino l’unica evidente verità: il capitalismo globale ha fallito. Ha prodotto impoverimento, tagli ai diritti, devastazione ambientale, guerre e di conseguenza migrazioni di massa.
Senza affermare nella società una cultura radicale e solidale che sia però comprensibile e comunicabile a livello di massa e non ristretta a piccoli gruppi contigui, si lascia il terreno della battaglia complessiva ai populismi più o meno destroidi. Ma a 100 anni dall’Ottobre, in questa fase di crisi sistemica, porsi la sfida di processi di massa e della trasformazione dell’esistente è quanto mai necessario. E’ la storia che ci morde la nuca.
Fonte: communianet.org
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