di Tommaso Gianni
La Cassazione con la sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016 ha accolto il ricorso proposto dalla società Riva del sole Spa contro la decisione della Corte di Appello di Firenze, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato nei confronti di un dipendente della società in quanto “motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento del profitto”. Ribaltando la pronuncia di secondo grado, la Suprema Corte afferma che la soppressione di un’individuata posizione lavorativa potrà essere giustificata anche solo dalla ricerca di un incremento della redditività dell’impresa. Nel testo che segue le CLAP analizzano tale sentenza, rilevandone le criticità e avvertendone la pericolosità dei suoi contenuti, anche sotto il profilo costituzionale.
Ai fini della legittimità del licenziamento individuale intimato per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare e il giudice accertare, potendo il riassetto aziendale essere giustificato anche solo dalla ricerca di una maggior redditività dell’impresa.
È questo il principio affermato (rectius: confermato) dalla Cassazione nella sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016, che amplia il campo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo anche a quelle fattispecie in cui l’azienda decide di sopprimere una funzione semplicemente per aumentare redditività e profitti, pur in assenza di una congiuntura sfavorevole, e non meramente contingente, che influenzi negativamente la normale attività.
Per raccontare la genesi di tale sentenza e per valutarne l’impatto sulla disciplina dei licenziamenti, è bene evidenziare che non siamo di fronte, come dalla quasi totalità dei giornalisti annunciato, a una “rivoluzione copernicana”. Il 7 dicembre 2016 la Suprema Corte non ha introdotto ex novo una nuova fattispecie di licenziamento in forza della propria funzione nomofilattica. Nella recente giurisprudenza di legittimità sono infatti rinvenibili diverse pronunce (si veda ad esempio la sent. n. 23620/2015) che, facendo leva da una parte su un’interpretazione letterale dell’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 e dall’altra su un’interpretazione estensiva del principio di libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 della Costituzione, hanno ritenuto il licenziamento non come extrema ratio, ma come una strada sempre percorribile dall’imprenditore in forza della sua autonomia organizzativa e decisionale. Libertà organizzativa che può così legittimamente spingersi sino all’eliminazione di quelle posizioni lavorative ritenute un ostacolo alla massimizzazione del profitto. Libertà decisionale che è insindacabile nel merito dall’autorità giudiziaria in base all’art. 30 della legge n. 183 del 2010 (c.d. Collegato lavoro).
Ma qual è l’esatto iter giuridico che ha condotto alla massima in oggetto?
Sono da tempo discussi tra gli Ermellini due contrapposti orientamenti sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, e l’altalenante prevalenza dell’uno sull’altro ha ovviamente risentito dello specifico contesto politico-sociale, sia nazionale che comunitario.
Un primo e più antico indirizzo, da ritenersi maggioritario, prevede che il riassetto organizzativo, da cui discende il recesso datoriale, debba essere eziologicamente collegato a una situazione straordinaria che incida in modo negativo e decisivo sulla normale produzione aziendale e che ne metta a rischio la funzione sociale. È quindi necessaria la sussistenza di una situazione sfavorevole che giustifichi la soppressione del posto di lavoro. Situazione sfavorevole che è antecedente logico sussunto a requisito di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che rientra quindi tra le “ragioni” richiamate all’art. 3 della L. 604/66 e che, pertanto, è oggetto di valutazione del giudice.
Nel secondo e più recente orientamento, cui va ricondotta la sentenza n. 25201/2016, non assume invece rilievo la presenza di una situazione sfavorevole non contingente. La ristrutturazione aziendale può infatti discendere dall’esercizio arbitrario dei poteri organizzativi dell’imprenditore, indipendentemente dalle finalità da quest’ultimo perseguite. In tale prospettiva l’unico limite alla facoltà di licenziare è rappresentato dall’effettiva presenza di un nesso causale tra la modifica organizzativa e la soppressione della posizione lavorativa. In altre parole, la scelta organizzativa del datore integra autonomamente ed esaustivamente i presupposti di legittimità di cui all’art. 3 della L. 604/66, dovendosi limitare il controllo giudiziale alla verifica dell’effettività di questa, senza null’altro indagare.
È evidente come tale seconda interpretazione si muove su una crina scivolosa. Infatti, rinunciare a una prestazione lavorativa perché di ostacolo all’aumento dei profitti altro non vuol dire che ritenere la stessa eccessivamente onerosa. Non sfugge, di conseguenza, come nell’applicare tale orientamento la Suprema Corte abbia ricondotto le valutazioni imprenditoriali di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione al grado di giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Del resto i giudici di legittimità si sono riferiti espressamente all’art. 1467 del codice civile nella citata sentenza n. 23620/2015, nella cui scia la sentenza del 7 dicembre 2016 si inserisce, tanto da richiamare in più punti le medesime argomentazioni. Ebbene, nel suo ragionamento la Corte sembra non tenere conto che la disciplina speciale in tema di licenziamento, in quanto ispirata al principio del favor prestatoris, è assolutamente incompatibile con la risoluzione del negozio giuridico per eccessiva onerosità prevista dalla disciplina generale dei contratti. Ma non finisce qui. Così procedendo la Corte arriva addirittura ad applicare l’art. 1467 cod. civ. senza considerare il limite dallo stesso indicato, ossia la necessaria presenza di avvenimenti straordinari e imprevedibili cui sia causalmente legata l’eccessiva onerosità sopravvenuta e che generano una situazione che fuoriesce dall’alea normale del contratto. In altre parole, tale orientamento determina una macroscopica contraddizione nell’ordinamento giuridico, dato che il rapporto di lavoro risulta persino meno tutelato rispetto ai rapporti tra privati. Di fatti non può di certo ritenersi che le esigenze di riorganizzazione aziendale non rientrino nell’alea normale del contratto. Lo sviluppo di tale interpretazione avrebbe un impatto enorme sulla (residua) disciplina del recesso datoriale, ben potendosi – ad esempio – intendere sorretto da giustificato motivo il licenziamento intimato a un dipendente per il solo fatto di aver maturato uno scatto di anzianità che abbia reso più onerosa la sua prestazione.
Che questo orientamento risulti, come sostenuto nella esaminanda sentenza, da una corretta lettura del testo dell’art. 3 della L. 604/66 è da escludersi nel modo più assoluto. È vero che tale norma ha carattere generale e che al giudice è rimessa un’attività di integrazione giuridica della stessa che tenga conto dei principi dell’ordinamento e che questi hanno fortemente risentito delle recenti riforme del mercato del lavoro, ma si devono evitare slanci interpretativi che non tengano conto del dato testuale finendo per introdurre elementi di irrazionalità nel sistema. Il citato art. 3 prevede che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve essere «determinato […] da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Le “ragioni” sono da intendersi come cause esterne non prevedibili, che impongono al datore di operare scelte organizzative sottoponibili a un controllo non solamente di effettività, ma anche di opportunità e di ragionevolezza. In tal modo l’art. 3 della L. 604/66 traccia una linea netta di separazione tra l’esercizio dei poteri datoriali di organizzazione e le cause esterne giustificanti il riassetto aziendale, implicando che la valutazione di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba indagare quest’ultime. In particolare, tali “ragioni” devono avere un peso specifico tale che – tramite un delicato giudizio di bilanciamento tra gli interessi giuridici in gioco – porti a sacrificare la stabilità del posto di lavoro. Alla luce di ciò è da escludersi, con forza, che una qualsiasi scelta di riduzione dei costi o di aumento dei profitti possa portare a una riduzione del personale.
Ecco quindi che, anche sotto il profilo dell’analisi letterale della norma, il secondo orientamento risulta insostenibile in quanto privo di copertura giuridica. Il che ci riconduce ad affermare la correttezza del primo orientamento giurisprudenziale.
Da ultimo, è necessario spendere due parole sull’art. 41 della Costituzione.
Come già accennato, il principio della libertà imprenditoriale (art. 41, comma 1, Cost.) è uno degli argomenti utilizzati nella sentenza in esame per sacrificare il posto di lavoro sull’altare del profitto.
La premessa da cui partire è che l’art. 41 Cost. non assegna intangibili diritti decisionali e organizzativi all’imprenditore, bensì dispone che questi non debbano essere in contrasto con l’utilità sociale (comma 2). In tal modo il limite costituzionale dell’utilità sociale diviene il parametro giuridico attraverso cui valutare le scelte datoriali, il confine oltre il quale l’iniziativa economica privata diviene illegittima. Ovviamente l’utilità sociale è una clausola generale, che pertanto deve essere concretamente specificata dal legislatore e dagli organi di natura giurisdizionale. Tale processo di specificazione implica la ricerca di un punto di equilibrio tra la libertà di recesso del datore e gli altri valori costituzionali che emergono volta per volta, come la libertà di lavorare (art. 4 Cost. ) e la dignità dei lavoratori (art. 36 Cost.).
Proprio in relazione a tale bilanciamento di diritti fondamentali, la sentenza del 7 dicembre 2016 segna un inspiegabile punto di rottura nella giurisprudenza di legittimità. Infatti gli Ermellini, assumendo come insindacabile la libertà organizzativa, hanno di fatto schiacciato e inficiato le altre regole costituzionali e normative volte a tutelare la personalità del lavoratore. Si tratta dell’ennesimo grave errore ermeneutico compiuto dalla Suprema Corte, che identifica l’iniziativa economica privata con l’utilità sociale e l’aumento del profitto dell’imprenditore con un beneficio per l’intera comunità. In tal modo il diritto alla conservazione del posto di lavoro è degradato a mero interesse sacrificabile in vista di una maggiore efficienza economica e vengono ribaltati i principi regolatori della disciplina dei licenziamenti. Eppure l’art. 1 della Carta Costituzionale è chiaro nel definire l’Italia come una Repubblica fondata sul lavoro, piuttosto che sul profitto del privato imprenditore.
Come detto, quella appena analizzata è una opzione interpretativa ancora minoritaria nella giurisprudenza di legittimità, ma che deve destare massima preoccupazione. Infatti, tale orientamento giurisprudenziale non solo si spinge oltre la riforma Fornero ed il Jobs Act, eliminando quel poco che del diritto del lavoro è sopravvissuto dopo il loro passaggio, ma è altresì emblematico delle drammatiche trasformazioni che stanno colpendo le fondamenta dello Stato sociale e la costituzione materiale del paese. Lo Stato sociale, nella nota definizione del costituzionalista Temistocle Martines, è «uno Stato che pur conservando i tradizionali istituti giuridici della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica privata, non li considera più come un “mito” dal valore intangibile e ritiene necessario […] coordinare l’attività economica ed indirizzarla al raggiungimento di un maggior benessere comune». Perciò è nel mutevole rapporto tra iniziativa economica e intervento dei pubblici poteri – tra i quali è da ricomprendersi la tutela giurisdizionale – che si rinvengono i tratti caratterizzanti lo Stato sociale in un determinato periodo. Nell’attuale fase storica, connotata da una costruzione dell’Unione europea di matrice marcatamente neoliberista, stiamo assistendo al superamento delle forme di tutela nazionali e a un generalizzato appiattimento verso il basso dei sistemi di protezione sociale europei. La beffa è che tale processo è perseguito, o quanto meno spalleggiato, proprio da quel supremo organo giudiziario che dovrebbe essere invece garanzia di corretta applicazione dell’ordinamento giuridico e dei suoi principi solidaristici, primo fra tutti la libertà di lavorare.
Fonte: dinamopress.it
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