di Silvia Borelli
Il 9 aprile dello scorso anno la Cgil ha iniziato la raccolta delle firme per la proposta di legge di iniziativa popolare «Carta dei Diritti Universali del Lavoro ovvero nuovo Statuto di tutte le Lavoratrici e di tutti i Lavoratori», e per tre quesiti referendari. In poco meno di 3 mesi sono state raccolte e depositate in Cassazione 3 milioni e trecentomila firme, 1 milione e centomila per ciascuno dei tre quesiti. Con ordinanza depositata il 9 dicembre 2016, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione ha dichiarato le richieste dei tre quesiti conformi a legge. La Corte costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità delle richieste l’11 gennaio 2017.
Con il primo quesito referendario si intende abrogare talune disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi. Attualmente esistono, nel nostro ordinamento, due regimi in caso di licenziamento illegittimo: il primo, introdotto con uno dei decreti attuativi del Jobs Act, prevede (salvo casi limitati) una tutela di tipo esclusivamente risarcitorio, ed è applicabile ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 e ai lavoratori dipendenti da imprese che, dopo la stessa data, hanno superato la soglia dei 15 dipendenti; il secondo regime è contenuto nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, modificato dalla l. 92/2012 al fine di circoscrivere le ipotesi di licenziamento illegittimo cui è applicabile la tutela reintegratoria (in base all’attuale testo dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori esistono ben sei differenti rimedi la cui applicazione dipende dal vizio cui è affetto il licenziamento e dal numero di lavoratori impiegati dal datore di lavoro).
Mediante l’abrogazione referendaria di alcune parti dell’attuale normativa, si otterrebbe il risultato di estendere a tutti i datori di lavoro, imprenditori e non, con più di 5 dipendenti, la disciplina prevista dall’articolo 18 per il licenziamento ingiustificato nelle imprese agricole. In caso di esito positivo del referendum, il lavoratore illegittimamente licenziato da un datore di lavoro con più di 5 dipendenti potrà sempre ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro anziché, come ora previsto (salvo casi limitati), un risarcimento del danno il cui ammontare dipende dalla data di assunzione, dalla dimensione dell’azienda, dal vizio del licenziamento.
Il secondo quesito referendario riguarda l’abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti. L’attuale disciplina in materia di responsabilità solidale è contenuta nell’articolo 29 del d. lgs. 276/2003, articolo che è stato modificato, ad oggi, ben sette volte. I promotori del referendum intendono abrogare la disposizione - introdotta dal d. lgs. 251/2004, eliminata dalla l. 296/2006 e reintrodotta dalla l. 92/2012 – mediante cui le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative possono sottoscrivere contratti collettivi nazionali di lavoro che escludono l’obbligo, per l’appaltante, di rispondere in solido con l’appaltatore e i subappaltatori dei trattamenti retributivi dovuti ai lavoratori impiegati nell’appalto. Non è chiaro (perché non esistono criteri legali in materia) quali siano le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. È però evidente che, soprattutto in periodo di crisi economica, le parti sociali accettano l’esclusione della responsabilità solidale, in cambio di altre concessioni ritenute prioritarie (es. incrementi retributivi). Il rischio è che venga «sacrificata» una regola – quella della responsabilità solidale – che ha la fondamentale funzione di riconnettere l’esercizio di un potere alle connesse responsabilità: l’appaltante può decidere liberamente di esternalizzare l’esecuzione di opere o servizi, ma rimane (e dovrebbe rimanere) responsabile, nei confronti dei lavoratori, di tale scelta.
Altra disposizione che i promotori del referendum intendono abrogare, è quella che consente all’appaltante di eccepire il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore e dei subappaltatori. La regola – introdotta dalla l. 92/2012 – aggrava gli oneri e i costi del processo esecutivo a carico del lavoratore. Il lavoratore che non sia stato retribuito per l’attività svolta durante l’appalto può infatti intentare l’azione esecutiva nei confronti dell’appaltante solo dopo avere infruttuosamente escusso il patrimonio dell’appaltatore e dei subappaltatori.
Il terzo quesito riguarda invece l’abrogazione della disciplina del lavoro accessorio (voucher). Il voucher è uno strumento mediante cui una qualunque persona fisica o giuridica (inclusi imprenditori e liberi professionisti) può pagare 10€ per ora un lavoratore a cui il legislatore non riconosce alcun diritto, salvo una minima tutela pensionistica e in caso di infortunio. Introdotto al fine di contrastare il lavoro nero, il voucher ha, di fatto, incrementato il lavoro irregolare. Questo strumento è infatti incontrollabile per gli ispettori del lavoro: solo gli imprenditori non agricoli e i professionisti sono tenuti, dall’ottobre 2016, a comunicare preventivamente l’utilizzo del voucher e, comunque, basta la comunicazione di utilizzo di un voucher per evitare la sanzione prevista per il lavoro nero. Non è un caso, quindi, che ogni anno il numero di voucher utilizzati cresca esponenzialmente (nei primi 9 mesi del 2016 sono stati venduti 34,6% voucher in più rispetto allo stesso periodo del 2015).
Se la Corte costituzionale dichiarerà ammissibili le richieste referendarie, si voterà tra il 15 aprile e il 15 giugno (salvo lo scioglimento anticipato delle camere). Sarà un’ottima occasione per rimettere il lavoro al centro del dibattito pubblico in maniera concreta e specifica. Per questo, comunque la si pensi, è auspicabile che il quorum dei votanti (50%+1 degli aventi diritto) sia raggiunto.
Fonte: Rivista Il Mulino
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