di Sergio Bellucci
In queste ore, un caro amico, Attilio Romita, conoscendo le mie riflessioni sulla tecnologia mi scrive, in maniera larvatamente polemica, per segnalarmi che la robotizzazione, ne caso di Amazon, produce occupazione e non la riduce. Mentre sto pubblicando viene lanciata la notizia che la Guardia di Finanza accusa Amazon di aver evaso 130 milioni di Euro di tasse solo nel nostro paese. Cioè, fanno occupazione con i nostri soldi? Quelli che avremmo potuto spendere per migliori servizi sociali, sanità pubblica, scuole e ricerca?
Il casus belli viene fornito dalla notizia, riportata da alcuni quotidiani come La Stampa, La Repubblica, Il Messaggero dell’apertura di un magazzino di Amazon nel nostro paese. Da questa notizia si farebbe discendere, automaticamente, una “nuova” narrazione sull’impatto della robotizzazione sul lavoro umano. Il solito meccanismo lineare che porta a perdere la complessità dei fenomeni, come spesso accade nelle discussioni economiche che fermano le analisi sulla porta della loro fabbrica. Impatti generali, implicazioni ambientali, risvolti sui cicli di vita, umani e non, restano espunti perché non contabilizzati dalle trimestrali delle aziende su cui si calcola il valore nelle borse. Ma pesano sulla storia di tutti noi e su quella del pianeta.
In particolare, in queste ore la nostra attenzione viene richiamata da un’ottima strategia di marketing comunicativo. Personalmente, devo confessare, che l’operazione ricorda molto l’ossimoro della “guerra umanitaria”, uno dei casi di più efficace ingarbugliamento dei sensi percettivi dell’opinione pubblica che la comunicazione militare abbia mai prodotto. Un apice nella storia della comunicazione militare, ove si tentò di giustificare l’azione della guerra togliendo al nemico la connotazione umana, una condizione preliminare necessaria a giustificare la scelta del proprio atto disumano di guerra. Ma questo ci porterebbe lontano, sul ruolo e l’uso della strumentazione comunicativa da parte di chi detiene capacità economiche, politiche e militari in grado di influenzare la forma dei media e il contenuto delle loro comunicazioni. Quella che io chiamo “l’Industria di Senso” e che costruisce e costituisce il recinto cognitivo del “reale” di cui discutiamo e, spesso, di cui siamo legittimati a discutere. Un recinto che non attiene alla nostra materiale condizione di vita, condizione che ci viene negata nella sua stessa possibilità di essere percepita, proprio dalla mancanza di capacità di socializzazione negata dalla forma dei media. Un processo di vera e propria alienazione, di cui neanche più i processi politici – svuotati da una loro autonoma capacità interpretativa del reale, poiché sussunti dai processi economico-comunicativi che poggiano sull’Industria di Senso – riescono a rispondere.
Molto della crisi della politica di questo scorcio di inizio di secolo poggia proprio sulla incapacità della vecchia politica di “comprendere” la novità di tali processi e dare un orizzonte altro, una prospettiva di fuoriuscita dalla crisi che sappia andare oltre l’esistente. Qui, a mio avviso, poggia la nascita di quelle che potremmo chiamare le “connessioni sentimentali” tra gli ultimi delle nostre società e le risposte populiste delle destre, dalla Brexit a Trump, passando per l’affermazione della Le Pen in Francia. In mancanza di un orizzonte “altro” disponibile e socialmente condiviso, chi resta indietro (che sono e saranno sempre di più come dimostrano le statistiche degli ultimi decenni) resta illuso dalla possibilità di tornare “indietro”, di recuperare il suo diritto al “sogno” di vita (che è diventato sogno del consumo), ampiamente distribuito dalle strutture dell’Industria di senso per decenni e verso il quale avevano sperato di atterrare con le loro vite da “singolarità qualunque”, come avrebbe detto Agamben.
Ma tornando ai magazzini di Amazon ecco la forma nuova dell’inganno che sta avanzando in termini di “oscuramento” della reale condizione di vita. Ci viene detto – dai comunicati di Amazon e dalle visite guidate dei suoi impianti, trasformati in “notizie” da solerti “giornalisti del copia e incolla” – che si realizzano impianti di nuova generazione, altamente robotizzati, e che questi creano occupazione, non la distruggono. Ci sono i “numeri” a dimostrarlo. Domandatelo ai ragazzi che abbiamo assunto!
Bene. Tranquillizzante. Ora siamo tutti più felici. I nostri problemi sono risolti. Infatti, sono i processi di concentrazione del mercato, altamente digitalizzato e globalizzato, a risolvere i problemi del futuro. Ma qualche giornalista è entrato dentro il senso, la realtà e le implicazioni di tali processi? Si è “sforzato” di “spiegarci” la notizia? Dei pezzi come quelli pubblicati potrebbero, già oggi, essere tranquillamente scritti da un algoritmo di scrittura automatizzata. Non necessitano, infatti, di spirito critico, di volontà di far comprendere i nessi, le implicazioni, il senso, ma semplicemente di comunicare le volontà espresse da processi che sono considerati “oggettivi” e “neutri”. Dei semplici megafoni di idee e ideologie altrui e nemmeno esplicitati, ma raccontati come un sogno. Proprio una delle modalità con le quali si fa comunicazione nell’Industria di Senso. Veline che possono essere usate, indifferentemente, dal notista del grande quotidiano al Primo Ministro di turno che deve spargere consenso. Senso e Industria di Senso, infatti, vanno di pari passo, come la vicenda Berlusconi ha insegnato al mondo intero.
Cominciamo, però, a sviscerare il tema. Per prima cosa analizziamo la “fabbrica” Amazon. Questo di Passo Corese è uno dei primi impianti ad alto impatto robotico. I precedenti magazzini Amazon impiegavano circa 1500 persone. Questo aperto nel centro Italia solo 1200. In parole povere, il processo di robotizzazione ha già mangiato 300 occupati a singolo stabilimento. Se i processi si estendessero a tutti i magazzini Amazon, avremmo un taglio di circa un quinto dell’occupazione nella stessa Amazon. Questo risultato in una delle aziende che è tra le più avanzate in termini tecnologici già prima di questa nuova fase tecnologica. Non voglio parlare dell’impatto che avrebbe, in termini di riduzione percentuale, in altre realtà produttive meno avanzate o della perdita di “professionalità” annessa al singolo lavoratore o, anche, delle condizioni di lavoro. È un tema sindacale che non posso affrontare con poche battute, in termini di consapevolezza del lavoratore, della sua autonomia, della sua umanità, ma che dovrebbe impegnarci comunque molto, visto che i processi di automazione prossimi venturi produrranno uno slittamento del fare umano generalizzato: quello del passaggio dalla macchina utensile, che aiuta l’uomo nella sua capacità produttiva, all’uomo utensile di una macchina produttiva che non è ancora completamente automatizzata e spesso solo perché, ad oggi, costa meno o è più efficiente inserire un lavoratore in un singolo ganglio della catena della produzione che sostituirlo con una macchina.
C’è poi un tema più generale, che ovviamente sfugge agli osservatori “lineari”: la modifica dell’ambiente generale, del panorama complessivo che l’impatto di tali strutture produce nella geografia del lavoro. Cosa che, invece, deve essere calcolata nella ipotesi di voler comprendere cosa accadrà con i processi di automazione che si mettono in atto. Processi, ricordiamolo per chi fosse distratto, non riguarderanno solo “alcuni” settori della attività produttiva, ma presentano una dinamica “parallela”, uno sviluppo contemporaneo e generalizzato, che fanno parlare di un vero e proprio “Tsunami”. Una tale caratteristica non era mai stata sperimentata dalle attività umane, perché le innovazioni introdotte riguardavano sempre solo alcuni settori e avevano davanti a loro un periodo di diffusione che le rendeva in qualche modo “governabili”.
L’estensione delle vendite on-line, del commercio elettronico sviluppato su piattaforme globali, produce vari “effetti collaterali”. Prenderli tutti in considerazione sarebbe complesso in un singolo articolo. Provo ad elencarne alcuni, solo per esemplificare.
Per prima cosa l’impatto sulla struttura delle vendite al dettaglio. Un aumento delle vendite on-line non produce un aumento della capacità di spesa delle famiglie (o delle persone), capacità che è legata al proprio reddito. Produce, invece, una riallocazione della propria spesa a scapito della distribuzione commerciale tradizionale. Questo fenomeno produce due fattori di aggravamento dell’occupazione (e della capacità di spesa generale, quindi della domanda): una riduzione del numero delle persone impegnate nel commercio al dettaglio (con una riduzione del numero degli occupati complessivo del settore) e una riduzione della capacità delle piccole produzioni locali a vantaggio delle grandi catene produttive e distributive (con un aumento della produzione su larga scala a danno delle micro produzioni locali o del KM0). L’apertura di un centro, più o meno automatizzato, di vendite on-line fa slittare i consumi verso prodotti di natura seriale realizzati in impianti sempre più automatizzati e con minor impatto occupazionale. È, in altre parole, una ulteriore spinta ai processi di concorrenza sul prezzo che fanno scendere il valore del lavoro vivo. Detto in soldoni, un “rosicchiamento” ulteriore della capacità di redistribuire ricchezza attraverso il lavoro. Cosa che significa una riduzione della fetta di “ricchezza” sulla quale calcolare non solo la tassazione, ma lo stesso pagamento degli oneri sociali sui quali si basa il sostentamento del modello di welfare. Se a questo si aggiunge la propensione di queste multinazionali ad allocare le proprie sedi in paradisi fiscali, e quindi a sfuggire all’imposizione fiscale che deriva dalle vendite sul territorio di competenza, un piccolo quadro si chiude. Un quadro, di questo micro bilancio, che non potrà essere messo di nuovo in equilibrio attraverso la mera tassazione di un lavoro che diviene ormai sempre più povero e incapace di sostenere il livello dei consumi che lo stesso sistema auspicherebbe. Non è un caso che gli economisti più accorti parlano, ormai apertamente, di helicopter money la necessità, cioè, di regalare soldi alle persone per sostenere la capacità di consumo delle persone che necessità alle strutture produttive che abbiamo messo in campo nel pianeta. Un’altra inversione delle finalità stesse della vita: da un’economia che deve soddisfare i bisogni umani ad una vita umana che deve sopravvivere per garantire il funzionamento del sistema produttiva. Uno slittamento che ha spinto anche personaggi di cultura “conservatrice” come Bill Gates a dire che saremmo obbligati a far pagare le tasse ai robot per poter sostenere le nostre società.
In altre parole, siamo ad una biforcazione della storia umana: i processi di automazione spinta, quelli che riguardano l’introduzione della robotizzazione legata alla Intelligenza Artificiale e di cui ancora non stiamo sperimentando che i prototipi in fase beta, spingono ad un ridisegno non solo del lavoro ma, attraverso esso, della stessa forma della società umana.
La mia, però, non è una crociata anti-tecnologica, anzi! Spesso a sinistra sono stato accusato del contrario, quasi sempre incompreso nel senso delle mie parole. Nessun nichilismo antimoderno, ma anche nessuna adesione allo schema ideologico costruito sopra la tecnologia in questi anni. Solo la volontà di voler utilizzare le potenzialità nuove delle conoscenze raggiunte per ridisegnare l’orizzonte verso il quale voler muovere i nostri passi. Curioso, devi ammettere, essere accusati da una parte di essere apocalittici e dall’altro di essere giudicati come integrati, volendo, in realtà, rifuggire da entrambi i corni del dilemma.
Questa che abbiamo davanti, infatti, può essere la più grande occasione per trasformare il mondo nel quale viviamo, oppure l’inizio di una stagione oscura in cui la guerra tra poveri e il potere nelle mani di alcuni caratterizzerà la storia di tutti noi. Mio nonno mi diceva che le macchine servivano a ridurre la fatica e liberare l’uomo dalla schiavitù. Forse dovremmo ripartire da questa antica saggezza: ridurre l’orario di lavoro drasticamente; qualificare e redistribuire il tempo di lavoro restante, attraverso un aumento dell’intelligenza richiesta per le operazioni che rimangono da fare; dedicarci alla possibile autoproduzione di beni e servizi fatta singolarmente o socialmente, de-mercificando pezzi crescenti delle nostre vite; impegnarci nel recupero, nel riuso, nel riciclo, nel miglioramento degli oggetti esistenti per ridurre l’impronta umana sul pianeta; ridurre il peso della produzione seriale a favore della produzione del singolo pezzo, fatta con le tecnologie più avanzate, sulla scia della potenza delle stampanti 3D; ridurre il peso delle ore di lavoro salariato necessario per vivere e aumentare quello delle ore di lavoro operoso (di cui dovrei parlarti più a lungo ma che contiene una crescente quantità di creatività e per questo rifugge dalla automazione spinta), scambiate tra pari, attraverso uno scambio facilitato da una moneta sociale basata sulla logica delle blockchain. E così via, passando per un modello di vita che rimette l’uomo in armonia con i processi vitali del pianeta e che significa non solo ritrovare un modo per non pesare sulle risorse della terra e il loro ciclo di riproduzione, ma anche di riconoscere tutta la vita del pianeta come avente diritto al proprio spazio vitale. Le possibilità che le tecnologie digitali, spogliate dalla gabbia dello schema economico imperante e messe nelle condizioni di poter sviluppare tutto il loro potenziale sociale, collaborativo e cooperativo, possono rappresentare, probabilmente, l’unica risposta alla sopravvivenza della specie umana.
Certo, per tali prospettive c’è bisogno di una nuova capacità di conflitto politico e sociale e di un conflitto di nuova generazione; una ritrovata capacità di conflitto che non significa tentare di ritrovare una “nuova energia” per fare lo “stesso conflitto”, per come lo avevamo pensato e praticato nel ‘900, proposta che purtroppo trapela dalle parole della attuale politica. E questo non significa che i dolori e le necessità del passato siano risolte. Solo che potranno esserlo solo in un quadro completamente nuovo!
Fonte: blog dell'Autore
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