di Marco Bascetta
A cosa può servire una categoria, o una definizione, che comprenda una molteplicità talmente vasta ed eterogenea di fenomeni ed esperienze che si accavallano e si contraddicono, si assomigliano e si distinguono attraversando realtà geografiche e tempi storici diversi e difficilmente paragonabili? È la domanda che siamo costretti a porci non appena capiti di mettere le mani sul termine forse più infestante del dibattito pubblico contemporaneo: populismo. Se lo si maneggia da un punto di vista denigratorio o apologetico i contorni si fanno certo più precisi.
Per l’establishment, ossia le élites dominanti e i molti che ne dipendono, si tratta di una demagogia distruttiva delle regole e delle forme della «civile convivenza» in regime di libero mercato. Per quanti si proclamano orgogliosamente populisti si tratta invece di un ritorno alla fonte prima e legittima della sovranità, il popolo appunto, usurpata da caste, oligarchie e poteri opachi e imperscrutabili. Sono però enunciati, questi, che permangono in pieno regime di falsa coscienza. La convivenza difesa dai primi è infatti tanto poco «civile» quanto il popolo dei secondi è ben lontano dalla pratica di una democrazia che possa dirsi diretta.
CHE FARE dunque? Si può tentare di passare dal singolare al plurale, ma comunque l’album di famiglia dei populismi resta alquanto confuso. Non si capisce bene chi debba esservi incluso né a quali condizioni. Si può ricorrere allo schema che più di ogni altro i populisti respingono: la partizione tra destra e sinistra, distinguendo tra populismi di stampo egualitario e populismi di ispirazione organicistica, ma anche qui le linee finiscono col confondersi o col perdere ogni senso comparativo.
Si può, infine, tracciare confini temporali. Tanto per chiarire che se Masaniello e Donald Trump ce l’hanno entrambi con le tasse, per il resto hanno poco a che spartire tra loro. Distinguere tra un populismo classico otto e primo novecentesco e un neopopulismo contemporaneo è, del resto, assolutamente sensato.
Marco Revelli nel suo ultimo lavoro (Populismo 2.0, Einaudi, pp.155, euro 12) si affaccia brevemente su tutte queste possibilità senza, peraltro, affidarsi interamente a nessuna. Ma ha poi davvero senso cercare un minimo denominatore comune o un insieme di caratteristiche tali da conferire alla nozione di populismo sufficiente rigore? O non è forse un tempo, una fase, un passaggio storico (la crisi permanente in cui viviamo nel nostro caso) piuttosto che una forma politica, una ideologia, una dottrina o una precisa costellazione di soggetti a sviluppare un certo senso comune, determinati umori e comportamenti?
Revelli coglie, a questo proposito, un punto importante: il populismo – scrive – non è un «ismo» come gli altri ma qualcosa di molto più impalpabile e indefinito: «È uno stato d’animo. Un mood. La forma informe che assumono il disagio e i conati di protesta nelle società sfarinate e lavorate dalla globalizzazione e dalla finanza totale».
ED È PRECISAMENTE questo mood che Revelli insegue e cartografa attraverso le mappe elettorali dei successi di Donald Trump negli Usa e di Marine Le Pen in Francia, attraverso le affermazioni del Leave in Gran Bretagna e gli exploit della destra xenofoba di Afd in Germania. Mappe che indicano la «cattura» da parte di questi personaggi e schieramenti politici, degli esclusi e dei «fregati», dei perdenti e dei passeggeri di un ascensore sociale in continua e precipitosa discesa. In realtà l’identikit sociologico di questo popolo del populismo è alquanto incerto e precario. Vi si possono rintracciare tratti della classica contrapposizione tra città e campagna, centro e periferia, ma questo genere di polarità sembrano tutt’altro che esaurienti. I soggetti che le popolano sono sottoposti a evidente instabilità e coltivano labili convinzioni.
Ora, se assumiamo effettivamente il termine populismo come la diffusione di una Stimmung, una «tonalità emotiva», alimentata dagli effetti della crisi e dalla prepotente arroganza del suo governo oligarchico ne dobbiamo altresì registrare l’ambivalenza. Convivono in questo stato d’animo nostalgie e volontà di cambiamento, desiderio di autodeterminazione e bisogni di affidamento, disincanto e credulità. Questo significa che «il disagio e i conati di protesta» possono prendere strade diverse e antitetiche. In altre parole, se il populismo non è un «ismo» come gli altri lo si può considerare come uno stadio preliminare che tende però rapidamente a diventarlo, traducendosi in nomi che corrispondono a tradizioni e politiche tristemente identificate: nazionalismo, razzismo, autoritarismo. O, al contrario, in esperimenti di democrazia partecipata che si sporgono oltre la crisi della rappresentanza. Che la Francia incantata da Le Pen, l’America di Trump, l’Ungheria di Orban, la Polonia, l’Inghilterra del Brexit abbiano sciolto gran parte delle ambiguità sotto il segno del nazionalismo (con tassi variabili di xenofobia) è fuori di dubbio. Che vi prevalgano contenuti sociali o subalternità alle leggi del neoliberismo non cambia molto quanto alla minaccia che rappresentano per le libertà individuali e collettive.
REVELLI prende in esame i tre fattori che nell’analisi di Christa Deiwks costituirebbero l’elemento comune a tutti i populismi. In primo luogo il popolo, considerato come unità inscindibile e naturale, si contrappone, da un lato, alla élite privilegiata che lo sovrasta e lo espropria, dall’altro al corpo estraneo dei migranti che ne minerebbe abitudini, sicurezze identità.
Il secondo fattore è la convinzione di avere subito un torto, di essere caduti vittime di un complotto di corrotti e lestofanti. Il che spiega anche il ruolo salvifico attribuito al potere giudiziario. Il terzo momento chiama in causa un potere «buono», vicino al sentire della «gente», cui si affida il compito di cacciare gli usurpatori e ristabilire l’etica popolare. Non è difficile riconoscere in questi tre fattori le caratteristiche proprie del risentimento: l’assunzione del punto di vista della vittima come criterio di verità e l’invocazione di un redentore chiamato a ristabilire la giustizia «in nome del popolo».
Possiamo ora considerare questi tratti comuni, non a una ideologia, a una proposta politica o a un soggetto sociale, bensì a un’epoca, quella che ha visto la controrivoluzione neoliberale affermarsi come governo della crisi. L’unitarietà organica del popolo non è forse figlia di quella messa al bando del conflitto dalla vita sociale e di quell’idea di competitività che è la versione economicista del nazionalismo? E l’idea di un salvatore che faccia «il bene del popolo» non è, per caso, imparentata con la concezione postdemocratica delle élites che «fanno il bene dell’economia»?
IL POPULISMO contemporaneo, allora, può considerarsi la forma, prescelta perché ritenuta più manipolabile, verso la quale il paradigma dominante ha cercato di sospingere le contraddizioni che andava generando (Berlusconi e Trump ne sono gli esempi più illuminanti). Il che non vuol dire che non possa sfuggire di mano, come accadde negli anni Trenta.
La Stimmung di cui parlavamo, tuttavia, non è affatto campata in aria o frutto di un puro e semplice accecamento ideologico. La percezione dell’espropriazione subita, il carattere parassitario del comando capitalistico, le mostruose diseguaglianze, lo sfruttamento sempre più intenso di una vita impoverita sono ben reali e radicate nelle condizioni del presente. Miscelarle in un popolo cui far dire quel che si vuole e cui sacrificare le nostre molteplici ragioni è la premessa sicura di una qualche forma postmoderna di fascismo. Ma a partire da queste contraddizioni si può prendere tutt’altra strada quella lungo la quale le intelligenze produttive dei molti costruiscano autonomia, autorganizzazione, potere.
Fonte: Il manifesto
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