di Roberto Romano
C’è qualcosa d’inafferrabile quando la sinistra e l’opinione pubblica in generale riflettono d’Europa e, in particolare, delle elezioni francesi. Si cade sempre nel particolare, come se l’Europa attraversasse un ciclo economico-sociale e non la Storia. Sebbene la recente posizione di alcuni Nobel dell’economia sia di fondamentale importanza - A. Sen, R. Solow e J. Stiglitz e altri -, giustamente rilevano che “c’è una grande differenza tra la scelta di non aderire all’euro dall’inizio e uscirne dopo averlo adottato”, è altrettanto vero che alcuni di questi hanno fatto balenare l’idea che in fondo uscire dall’euro non fosse una cosa così drammatica. Ovviamente l’esito “finale” delle elezioni francesi accende discussioni infinite, ma queste sono per lo più tese a “io voterei”. Poi abbiamo alcune cadute (di stile?) figlie di una difficile suggestione del tipo “usciamo dall’euro”.
Alla fine, in troppi immagino che la soluzione dei problemi economici passino attraverso l’autonomia e autorità monetaria nazionale. Nel frattempo il mondo si è integrato, sia dal lato finanziario e sia dal lato della produzione, configurando delle aree economiche più o meno omogenee che poco hanno a che fare con lo Stato, almeno che non sono gli Stati Uniti, la Cina e forse la Russia.
In realtà viviamo la Storia e con la Storia dobbiamo fare i conti. La crisi del 2007, più lunga e profonda di quella del ’29, interroga le istituzioni preposte al governo dell’economia e della società che, nel frattempo, è diventata più grande e più piccola allo stesso tempo. Recuperare Roosevelt è un passaggio fondamentale, così come è altrettanto fondamentale comprendere che non possiamo adottarlo allo stesso modo. In altri termini, siamo seduti sulle spalle di giganti che hanno aperto una prospettiva di politica economica inedita, ma l’attuale classe dirigente dovrebbe interpretare queste idee e costruire un paradigma all’altezza della sfida che ci attende. Diversamente, “finché un nuovo orizzonte politico e intellettuale, di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l’imprinting farà riapparire le idee neo liberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi” (S. Biasco).
Non è la prima volta che succede, ma questa crisi sembra più difficile da sciogliere. Il dibattito politico e sociale richiama spesso le grandi “coppie” del capitalismo –capitale/lavoro -, ma il capitalismo non si esaurisce nella coppia capitale-lavoro. Nel frattempo si è consolidata la finanza; è sempre esistita ed ha spesso anticipato i cicli economici, così come li ha esasperati. Se osserviamo lo stato di salute del lavoro e del capitale, possiamo solo rappresentare l’ininfluenza e l’incapacità di questi nel delineare degli equilibri superiori; un aspetto che richiama la rappresentanza d’interessi particolari in un sistema economico diventato sempre più interdipendente.
Il capitalismo evolve, e nella crisi ricostruisce se stesso su altre basi e fondamenta. In molti possono vedere Marx in questa banale constatazione, ma c’è qualcosa che la formula non può dirci: la storia dell’economia, del lavoro e del capitale, delle grandi e piccole crisi, è scritta certamente con il concorso del capitale e del lavoro, ma sempre con altre istituzioni. Diversamente sarebbe inconcepibile la società del ben-essere, financo del così detto diritto liberale che ha mutato il segno e il contenuto della coppia capitale-lavoro.
La Storia inizia sempre con delle nuove istituzioni del capitale, fossero pure embrionali. Se questa è la sfida della società moderna, in netto contrasto con la società post-moderna, tutti i soggetti sociali dovrebbero misurarsi con questa inedita e per alcuni versi necessaria consapevolezza. Il capitale, il lavoro e la sua rappresentanza, lo Stato diversamente declinato - difficile immaginarsi uno Stato nazionale nella situazione data, così come le attuali istituzioni sovranazionali -, hanno un compito paradigmatico.
Che cosa fare? Forse sarebbe utile consegnare al paese e al lavoro la realtà per quella che è, evitando soluzioni a portata di mano del tipo usciamo dall’euro. Se è finita un’era economica e politica e contemporaneamente non s’intravvedono le nuove istituzioni del capitale, è il momento di liberarsi dai pregiudizi e dalle aspettative personali. Solo le idee possono cambiare il nostro tempo e quello che ancora ci appartiene.
Critichiamo le politiche economiche europee, non l’Europa. Abbiamo degli appuntamenti importanti in autunno – rivisitazione del Fiscal Compact -. Un’occasione per rilanciare l’Europa con delle politiche economiche che superino i vincoli degli stati. Per esempio: perché non prefigurare un bilancio pubblico europeo del 3-4% del PIL finanziato con proprie imposte teso a rilanciare il lavoro?
Fonte: controlacrisi.org
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