di Ida Dominijanni
A un certo punto della mia lunga permanenza nella redazione del manifesto, sarà stato intorno al 2000, un pomeriggio crollò all'improvviso il controsoffitto della stanza in cui lavoravo nella sede di Via Tomacelli. Fu così assurdo e ridicolo – c'erano dei lavori al piano di sopra, e qualcosa aveva ceduto - che nemmeno mi spaventai, né mi resi conto che avrei potuto rimetterci la pelle. Valentino invece sì che si spaventò, e come faceva per ogni cosa corse subito ai ripari. Mezz'ora dopo c'era un tavolo per me nel suo ufficio, che da allora in poi, per dieci anni o forse più, non avremmo più smesso di condividere, anche dopo che il giornale traslocò da via Tomacelli a via Bargoni.
Dieci anni e più di convivenza quotidiana cambiano un rapporto di lavoro – per quanto al manifesto i rapporti di lavoro siano sempre stati anche rapporti politici e quasi sempre di amicizia fraterna – in qualcosa di più profondo, più intimo e più tenace. In un perimetro così stretto non abbiamo condiviso solo le notizie, la lettura dei giornali ogni mattina, le litigate sulla prima pagina ogni pomeriggio, l'ansia della consegna del pezzo ogni sera, le discussioni interminabili sui destini della sinistra italiana e quelle sui destini del giornale; ma anche il fumo delle sigarette, le immancabili puntate al bar, le visite quotidiane di decine di amici che Valentino più di me riceveva, le telefonate alle nostre rispettive famiglie, feste e lutti, dolori e gioie, euforie e depressioni, e nel nostro caso pure il segno zodiacale – l'Acquario è il segno dell'amicizia - e i compleanni, a distanza di cinque giorni l'uno dall'altro.
A proposito di compleanni, mi ricordo il finto numero del giornale, tutto su di lui, che gli preparammo a sorpresa per il suo settantesimo. Ne fu sinceramente colpito, quasi non pensasse di meritarlo. L'episodio dice molto di lui, e di quanto poco gli piacesse prendersi troppo sul serio o darsi troppa importanza: in un'epoca di narcisi, Valentino era l'esatto opposto, leggerezza e autoironia al posto dell'ipertrofia dell'io che a un certo punto ha cominciato a diffondersi nella sinistra come un'epidemia, forse a misera compensazione della contemporanea caduta verticale di un senso comune.
Si può dire lo stesso per la collocazione di Valentino all'interno dell'albero genealogico del manifesto. Fondatore e colonna portante del giornale, di questo ruolo non aveva mai assunto l'aura; e non per caso, nell'abusata metafora familiare ed edipica della vita del manifesto, fra madri e padri imponenti e figlie e figli indisciplinati lui si era assegnato piuttosto il posto dello zio, quello sempre capace di capire e di mediare, di sdrammatizzare i problemi e di sciogliere le tensioni in una battuta o in un calice di vino. Si deve a lui, certamente, la sopravvivenza economica del manifesto a dispetto delle ricorrenti crisi che nel corso del tempo ne hanno messo a rischio l'esistenza; ma del giornale Valentino è stato anche, e in primo luogo, un ottimo direttore, nonché il king maker senza la cui approvazione e il cui sostegno nessuno avrebbe mai potuto esercitare alcuna funzione dirigente, né in redazione né in amministrazione.
Era direttore in carica anche quando io stessa cominciai a lavorare nella redazione culturale del manifesto, su richiesta di Rossanda, nell'estate dell'82. Un giorno mi invitò a colazione nel suo giardino; parlammo pochissimo di giornali e molto di libri, di storia, di politica, di Mezzogiorno – Valentino era stato uno studioso importante della questione meridionale, sulla scia di Gramsci, e come tale l'avevo già incontrato nei miei studi all'università. All'epoca era molto pressante la sua richiesta che la parte politica e quella culturale del giornale non si scollassero l'una dall'altra; avremmo avuto per anni, su questo, discussioni appassionate. Come su tutto del resto, perché con Valentino discutere era un piacere vero, con una franchezza che non sfiorava mai il rischio della lacerazione o della rottura: da qualunque litigata si usciva più amici di prima. E' stata questa sua straordinaria disponibilità al confronto a salvare l'unità del giornale anche in stagioni di aspre divisioni interne – una fra tutte, quella dell''89 e seguenti, fra crollo dell'Urss e svolta del Pci. E' stata la sua apertura mentale e la sua mancanza di settarismo a consentire il dialogo fra posizioni talvolta apparentemente inconciliabili, sulla politica interna come sulle questioni internazionali. Ed è stata la sua straordinaria umanità a far sì che nessuna/o di noi si sentisse sola/o, nella buona e nella cattiva sorte, in quella che lui voleva e viveva come una comunità.
Non si è mai preparati alla fine delle persone care, e stavolta meno che mai. La generosa dépense di sé con cui Valentino ha vissuto gli aveva conferito un che di invincibile, come se potesse e dovesse farcela all'infinito, malgrado gli acciacchi degli ultimi anni. Stavolta non ce l'ha fatta, ma anche stavolta, mi hanno raccontato Delfina, Valentina e Matteo, non ha perso la sua leggerezza. Giovedì scorso avevamo seguito seduti a fianco un convegno su Gramsci. Fino all'ultimo, dovunque spirasse un sia pur flebile vento di sinistra, Valentino c'era.
Fonte: Huffington Post - blog dell'Autrice
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.