di Gianni Giovannelli
Era prevedibile. Nonostante il gran rumore che aveva accompagnato il suo arrivo, Travicello Gentiloni rimane al suo posto, silenzioso. Come scriveva il buon Giusti: calò nel suo regno con molto fracasso … ma subito tacque limitandosi a galleggiare placidamente. Nessuno pare in grado di sostituirlo in questa situazione indubbiamente agitata e difficile.
D’altro canto le decisioni vengono prese comunque elsewhere. Dunque un uomo inutile è a ben vedere la scelta più oculata, dopo l’inatteso tifone del 4 dicembre e in attesa che ritorni la calma rotta dall’incauta sfida imposta da Renzi. E’ vero che un uomo inutile non risolve il problema, ma almeno non crea danni. Per il potere, al momento, è sufficiente.
D’altro canto le decisioni vengono prese comunque elsewhere. Dunque un uomo inutile è a ben vedere la scelta più oculata, dopo l’inatteso tifone del 4 dicembre e in attesa che ritorni la calma rotta dall’incauta sfida imposta da Renzi. E’ vero che un uomo inutile non risolve il problema, ma almeno non crea danni. Per il potere, al momento, è sufficiente.
Oggi l’opposizione è fragile, divisa, dominata dalla paura e dall’impotenza. Il desiderio di cogliere l’occasione favorevole e di rimuovere ogni residuo ostacolo induce l’apparato di comando in tentazione.
Tuttavia viviamo in epoca di transizione, mancano certezze. Dentro lo scontro, se acceso, potrebbero sorgere movimenti davvero radicali e nella lotta, tradizionalmente, cadono le mediazioni, si formano come per un sortilegio nuclei capaci di organizzare la rivolta. Il fantasma dell’apprendista stregone tormenta il sonno del capitalismo finanziario. La moneta è una menzogna su cui si fonda l’esproprio del comune, il mentitore (Philopseudes) è un mito della governance. Niente Zauberlehrling. La scelta è stata quella di evitare il conflitto aperto e al tempo stesso di rafforzare l’opzione autoritaria, proseguendo il cammino di sussunzione del lavoro dentro la condizione precaria, per l’intera esistenza. Il fine è quello di far dimenticare subito l’esito del referendum e rimuovere senza esitazione i due quesiti sopravvissuti al taglio operato dalla Corte Costituzionale.
Sono fatti così. Non hanno principi. Vivono con la certezza di vedere le notizie decomposte, cancellate dal susseguirsi degli eventi. Riscrivono costantemente il passato. I funzionari del periodo staliniano erano soltanto un pugno di dilettanti di fonte ai dirigenti del partito democratico. L’inganno e la frode sembrano essere la loro ragione di vita.
Un rapido decreto ha rimosso la scadenza referendaria.
Con il decreto legge 17 marzo 2017 n. 25 (già convertito nei due rami dl parlamento e definitivamente approvato) il doppio referendum su voucher e responsabilità del committente negli appalti è stato rimosso, il pericolo disinnescato. Cisl e Uil erano disponibili a trattare, al ribasso, isolando la Cgil, sfidandola a combattere sola. Puntavano naturalmente al mancato raggiungimento del quorum. Il sindacalismo di base è rimasto spiazzato, quasi non avesse un proprio punto di vista sul contenuto delle norme in questione.
L’esecutivo delle larghe intese ha preferito un passo indietro, è stato prudente. Ha declinato l’offerta servile delle due confederazioni moderate. La questione Alitalia presenta particolarità e meriterebbe un esame monotematico. Ma l’esito della consultazione che ha respinto l’accordo ha dimostrato ancora una volta l’ampiezza della frattura fra rappresentanti e rappresentati, all’interno della società reale, ogni volta che si procede alla verifica sul campo di quanto credito godano davvero le istituzioni oggi. Hanno certamente la forza di governare ma non possono contare sul consenso. Sarebbe un errore credere che non ne siano consapevoli.
Travicello Gentiloni ha ceduto di schianto, ma silenziosamente, senza fornire motivazioni. La pericolosa scadenza del prossimo maggio viene evitata e prosegue ora il cammino che conduce alla fine naturale della legislatura. Il governo ha pagato un prezzo, mantenendo le proprie riserve mentali, pronto a riconquistare il terreno perduto.
Solo una lettura superficiale può ridurre l’evento al rango di semplice sotterfugio. Nessuno è tanto ingenuo da pensare che non siano allo studio misure alternative, per continuare la politica di abbattimento delle retribuzioni e di generalizzazione della condizione precaria. Ma il cedimento governativo è un fatto politico di notevole importanza che non può essere ignorato, che deve essere studiato e messo a frutto. L’articolo 1 del decreto è lapidario: sono abrogati i tre articoli del Jobs Act che introducevano i buoni lavoro da dieci euro come un elemento ordinario della legislazione italiana. L’articolo 2 cancella, per aggiunta, la possibilità di liberare, tramite accordi sottoscritti dal sindacato, i committenti dalla responsabilità verso i dipendenti dei loro appaltatori, rende più agile la rivendicazione diretta del pagamento nei loro confronti, anche in questo caso mediante una breve semplice abrogazione. I lavoratori della logistica non hanno bisogno di autorevoli commentatori per capire che si tratta di una vittoria, di una tutela fondamentale; probabilmente non sono del tutto convinti di mantenerla a lungo. Si può comprendere la loro diffidenza.
La Cgil sta amministrando il successo, chiede di tornare al tavolo della trattativa sociale per discutere un nuovo assetto legislativo del lavoro. Qui sbaglia.
Travicello Gentiloni non vuole trattare perché non può trattare condizioni diverse da quelle già decise in modo definitivo e irrevocabile; nel territorio europeo possono essere valutate le modalità di attuazione del programma, non i contenuti. La condizione precaria è un elemento necessario per il funzionamento del processo di valorizzazione nel quale l’esistenza viene messa a valore, con il minor costo reso possibile dai rapporti di forza. Subordinazione e sussunzione oggi coincidono: giuristi ed economisti debbono soltanto ridefinire i concetti adeguandoli al modo di produzione capitalistico finanziarizzato.
Scriveva Gramsci (Note sul Machiavelli, pagina 17, Einaudi, 1953): Primo elemento è che esistono davvero governanti e governati, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali).
In questa fase possono esserci armistizi, non protocolli d’intesa per il medio periodo. I governanti pretendono di governare, non potrebbe essere altrimenti. Il modello autoritario invade l’area del contratto di lavoro e della società nel suo insieme. Il potere non chiede partecipazione ma solo sottomissione.
Ne abbiamo ulteriore conferma con l’ultimo atto della farsa legata al rinnovo del CNEL. Dopo due anni di silenzio il governo, improvvisamente, ha aperto la procedura di rinnovo, quasi clandestinamente, con avviso pubblicato segretamente in Gazzetta Ufficiale, il giorno 11 aprile, in mezzo ai tre ponti. Il termine per proporre i membri è di 30 giorni, nessuno ne ha parlato, con lo scopo palese di tagliare fuori le organizzazioni scomode, di base o di volontariato.
Il candidato (di nomina regia, discrezionale) alla carica di Presidente è Tiziano Treu, il quale si era dimesso nel corso del consiglio precedente, schierandosi per l’abrogazione del mostro, bollato con il marchio di ente inutile nei comizi a sostegno del SI durante la campagna per il referendum costituzionale. Quindi l’organismo sopravvissuto dovrebbe ora essere affidato a un comandante che lo considerava inutile. Questa gente non conosce vergogna!
La ragione dell’improvviso decollo della procedura di rinnovo sta nel fatto che la durata (cinque anni) prescinde dalla legislatura e vogliono garantirsi la spartizione, adesso. Scene di basso impero.
I decreti firmati dal ministro Minniti
Sono due i decreti legge che portano la firma del ministro Minniti, uno in tema d’immigrazione, l’altro di sicurezza urbana.
Il primo (convertito con alcune modifiche nella legge
46/2017) istituisce ben 26 sezioni specializzate (erano nel testo base 14) per esaminare tutte le controversie relative all’immigrazione. Il procedimento di valutazione è ora diventato davvero sommario, definirlo semplificato è un eufemismo. La difesa tecnica, nei procedimenti sommari, è più difficile, considerando la riduzione dei margini concessi per l’opposizione alle decisioni negative, di rigetto. Viene eliminato il grado d’appello, e, trattandosi per lo più di motivazioni in punto di fatto, il gravame per cassazione, pur se possibile, appare già all’origine spuntato, oltre che costoso. Per espressa disposizione contenuta nel testo la trattazione deve avvenire sempre con urgenza e possiamo ritenere che lo scopo perseguito dall’esecutivo sia quello di ottenere rapidamente provvedimenti di espulsione.
Gli articoli 18 e 19 regolano il contrasto all’immigrazione illegale, con accentuazione delle funzioni svolte dai centri di detenzione o come diavolo vengono chiamati. In apparenza un procedimento rapido e snello di esame delle richieste di asilo costituisce una maggiore tutela dei disperati che approdano in Italia. In realtà si tratta invece di un percorso zeppo di decadenze e di insidie procedurali che richiedono una necessaria difesa tecnica specializzata, dunque una disponibilità di risorse economiche ed organizzative che soltanto strutture associative possiedono. Il singolo soggetto rimane indifeso e schiacciato. Nella migliore delle ipotesi interviene il volontariato; nella peggiore acquistano credito e controllo le organizzazioni criminali. In un procedimento di esame delle domande d’asilo e dei provvedimenti di espulsione a carattere sommario non esiste la concreta possibilità di ricostruire le vicende personali o familiari, ancora meno quelle politiche. L’unico strumento di valutazione non può che essere il fascicolo costruito al di fuori del processo da chi opera lungo e dentro la filiera, con o senza una divisa, in necessaria connessione con l’apparato governativo. Il fascicolo personale e l’identificazione diventano strumento di controllo delle vite e delle esistenze; è questa la vera ratio del decreto Minniti, che, per il resto, si risolve in una sequenza di norme o inutili o comunque inattuabili.
Il secondo (pure convertito con legge 13 aprile 2017 n. 46) ha suscitato molte reazioni per via dell’introduzione di una sorta di daspo a disposizione dei sindaci. Il provvedimento, nel contenuto effettivo, appare volto a creare le condizioni politiche di una repressione sociale senza tuttavia essere davvero uno strumento operativo e nuovo nel contenuto. Si pone come attuazione dell’art. 118 terzo comma della Costituzione, norma che si limita a prevedere il coordinamento fra stato e regioni in materie di competenza statale come religione, beni culturali, immigrazione. E, considerata la forma scelta del decreto, presuppone si tratti di un caso straordinario di necessità e urgenza (articolo 77 della Costituzione).
Ma il patto Gentiloni si fonda sulla nuova costituzione materiale autoritaria e Minniti si dimostra in questo frangente il suo degno ministro, stalinista per formazione politica, militaresco per estrazione di famiglia (la composizione maschile dei Minniti è per larga parte composta di alti ufficiali dell’esercito).
Nella premessa firmata dall’ineffabile giurista dottor Mattarella, in veste di presidente della repubblica, l’improvvisa e urgente necessità andrebbe ravvisata nell’introdurre strumenti volti a rafforzare la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori ovvero nel promuovere il mantenimento del decoro urbano.
Questo mantenimento, per logica di esposizione, lascia intendere che attualmente il decoro urbano vi sia e che qualcuno lo minacci. Al tempo stesso si sostiene essersi indebolita, durante il governo delle larghe intese che dura da ormai quattro anni, la sicurezza delle città e la vivibilità dei territori, tanto da costringere Travicello Gentiloni ad intervenire ampress ampress per porre rimedio a tanto disastro. Gentiloni è persona di buone maniere, educata. Dunque evita di assegnare colpe o responsabilità. Si limita a constatare che il popolo vive male e si sente insicuro, come sia potuto accadere non lo riguarda. Rimedia con il decreto del suo ministro.
Basta leggerlo in rete sulla Gazzetta Ufficiale. Il decreto Minniti poco o nulla ha da spartire con l’articolo 118 terzo comma della Costituzione e certamente viola l’articolo 77 della Costituzione per l’evidente mancanza dei requisiti di urgenza irreparabile.
Si pretende di rafforzare la sicurezza urbana scassinando la costituzione, tanto per dare il buon esempio al paese!
L’articolo 2 del decreto è un piccolo capolavoro di scienza giuridica laddove provvede a definire, per legge, il concetto astratto di sicurezza integrata quale insieme di interventi (mah! che diavolo significa?) dello stato e degli enti territoriali, nell’ambito delle proprie competenze, per promuovere la sicurezza al fine di attuare il benessere delle comunità territoriali. Forse, prima di Minniti, lo stato e gli enti territoriali agivano al di fuori delle proprie competenze, promuovevano l’insicurezza e sabotavano il benessere della comunità. Era proprio necessario intervenire con decreto straordinario per porre termine a tanto scandalo.
L’articolo 4 si propone, nientemeno, l’eliminazione preventiva della criminalità di tipo predatorio. Qui l’influsso della scienza zoologica e della sociologia antropologica culturale appare con solare evidenza, preparandoci alla chiusa della norma, ovvero il rispetto della legalità e l’affermazione di coesione sociale e convivenza civile. Si tratta di una versione calabrese-minnitiana del celebre vaste programme commentato dal generale De Gaulle; per attuare questo piano stupefacene, dobbiamo supporre con la stessa urgenza che ha condotto alla stesura del decreto, l’articolo 6 istituisce un comitato metropolitano con tanto di prefetto, sindaci al completo e supporto di invitati (non si sa da chi o a quale titolo), ovvero soggetti pubblici e privati, cui non viene richiesto tuttavia, per non essere scortesi, neppure il requisito dell’incensurato. Ad evitare infondate aspettative il secondo comma dell’art. 6 precisa che per la partecipazione non ci saranno emolumenti comunque denominati.
Il capo II del decreto chiarisce quale sia la filosofia della prassi del dottor Minniti, elaborata dopo una laurea conseguita in questa difficile disciplina. Nelle stazioni, terrestri o marittime, nei pressi dei siti archeologici o musei, perfino ai giardinetti, si aggirano senza permesso vari soggetti privati, individui orribili, ben diversi da quelli che saranno destinatari degli inviti al comitato Minniti.
Per consentire la repressione di ogni comportamento che la fantasia di questi soggetti potrebbe partorire l’articolo 9 colpisce in via generale le condotte che limitano la libera accessibilità e fruizione delle predette infrastrutture in violazione dei divieti di stazionamento. Quali condotte? Intanto il sindaco del comune gli appioppa una multa da 100 a 300 euro, così come gli gira al momento della contestazione, poi si vedrà. Una condotta si trova sempre, magari consultando le pellicole del grande Totò. Poiché è assai probabile che i multati non facciano fronte al debito il ministro filosofo si mostra generoso lasciando i proventi, davvero solo eventuali, al Comune.
Questo è lo stanziamento, urgente e improrogabile, per migliorare il decoro urbano. L’unico. Gli altri sono rimasti bloccati con il taglio delle spese agli enti territoriali, secondo le istruzioni europee.
Le sanzioni già esistenti per comportamenti illeciti sono attualmente tutte superiori, per esempio quelle che colpiscono la contraffazione o il contrabbando di sigarette. Dunque il decreto Minniti, con la sua multarella da 300 euro al massimo, senza rilievo penale, potrebbe diventare una astuta linea difensiva, costruita sul concetto della cosiddetta derubricazione unito a quello tradizionale del favor rei. Gli avvocati d’ufficio, pagati dall’erario grazie alla legge Pecorella quando l’imputato non abbia redditi sufficienti, sono già al lavoro.
Si prospetta un futuro per le rappresentazioni di costume al Teatro Valle, inaugurando la promessa nuova stagione dopo lo sgombero.
L’articolo 10, quello successivo, contiene una casistica intricata, una vera ragnatela legata al nuovo daspo comunale. L’idea base è quella di consentire l’allontanamento, da una determinata area, dei soggetti sanzionati. E’ il vecchio foglio di via un tempo affidato alle strutture di polizia, qui riesumato in forma più mite e affidato ai sindaci anche per frammenti di quartiere o di edifici.
Non funzionava il foglio di via e probabilmente si rivelerà inutile anche il daspo comunale. Ove mai avesse tuttavia effetto, il che è francamente improbabile, la conseguenza concreta sarà quella di una carovana nomade costituita dagli sfrattati, che si sposteranno da un luogo all’altro scambiandosi di posto, come nel gioco dei quattro cantoni.
L’articolo 11 regola i tempi di sgombero degli immobili occupati, chiarendo, a danno questa volta dei proprietari, che se l’intervento pubblico non rispetta le promesse di reintegro nel possesso non sono previsti risarcimenti da parte dello stato.
Gli occupanti, come noto, occupano perché non hanno risorse proprie e dunque non risarciscono mai, sono incapienti secondo il linguaggio burocratico.
Gli articoli 12 e 13 sono dedicati ai pubblici esercizi, ma poco aggiungono al quadro pre-esistente. Si prevedono chiusure temporanee o limitazioni di accesso per i pregiudicati; in buona sostanza rimane fermo il pilastro consueto di una trattativa, che è al tempo stesso un controllo o, a volte, una tassa, fra esercente e sbirro. Funziona da secoli, figuriamoci se un bel tipo come il Minniti ne poteva fare a meno!
L’articolo 16 introduce la condanna a ripulire gli edifici imbrattati, una corvée studiata apposta per contrastare i temuti writer metropolitani, ma applicabile, quando occorre, a chi durante i cortei non perde il vizio di giocare con le bombolette spray. E’ ancora presto per il ripristino dei lavori forzati, ma siamo sulla strada giusta. Diamo tempo al tempo.
Resta da chiedersi quale sia la vera ragione di un provvedimento legislativo di questo genere, posto che certamente esso non fermerà affatto la criminalità predatoria e tanto meno avrà effetti significativi sulla vita quotidiana delle moltitudini. La vera ragione è ancora una volta politica, evocare la paura per dominare meglio, indicare un nemico cui attribuire la colpa del disagio sociale.
Il rastrellamento alla stazione di Milano
Il rastrellamento alla stazione di Milano
Il recente rastrellamento effettuato a Milano, con largo dispiegamento di forze, non è riconducibile alle nuove disposizioni della legge 46/2017 non risultando alcun intervento della giunta municipale. Non sono state irrogate sanzioni amministrative, non risultano neppure emessi ordini di allontanamento secondo il primo comma dell’art. 9. L’assedio della stazione centrale è un’iniziativa del prefetto, Luciana Lamorgese, e del questore, Marcello Cardona; sono funzionari di governo e non della giunta municipale.
Come era prevedibile le vedette hanno subito avvisato gli uomini delle strutture criminali, che si sono allontanati con discrezione; trecento poliziotti, con trenta blindati, un elicottero, cani e cavalli al seguito, hanno spaventato a morte i turisti – che temevano un attentato – e trascinato via centocinquanta stranieri presumibilmente scelti fra la folla per il colore della pelle o per l’abbigliamento, identificati, trattenuti senza spiegazioni, infine rilasciati. Niente daspo, niente denunzie, nessun latitante catturato, nessuna espulsione di clandestini. Il giornalista Cesare Giuzzi, nella cronaca pubblicata sulla pagina milanese del Corriere, rileva che quattro gambiani e senegalesi hanno appreso proprio a seguito del fermo di avere ottenuto il richiesto asilo. Nessuno li aveva avvisati prima.
L’operazione risulta essere stata disposta come un servizio straordinario di prevenzione e controllo. Considerati i costi e preso atto della totale assenza di risultati riteniamo che l’opposizione parlamentare dovrebbe chiedere conto al ministro Minniti di come sia stata concepito il blitz . Lo scopo in realtà è palese, tanto da determinare un polemico scambio di valutazioni fra Rozza e Maiorino, le due anime del PD milanese. L’esecutivo delle larghe intese si serve, come di consueto, della paura per mantenere il dominio, per esercitare il controllo, per sopravvivere.
Si arruolano i sindaci
L’immigrato – diverso e straniero – viene additato come il responsabile di ogni insicurezza sociale, della disoccupazione e della riduzione dei salari, del terrorismo e dei furti in appartamento, è uno zingaro nemico, va cacciato e rimosso per riportare il benessere delle comunità territoriali secondo le false promesse di cui all’art. 1 del decreto.
Il governo di Travicello Gentiloni e del filosofo Minniti si serve della paura e dell’insicurezza per rimuovere le speranze provocate dal voto del 4 dicembre, per impedire il possibile effetto sinergico della sconfitta subita da Matteo Renzi saldata allo scontento diffuso. Il meccanismo complessivo di una democrazia rappresentativa legata al suffragio universale non è più affidabile come lo era nel secolo scorso; le regole del capitalismo finanziarizzato non conoscono deroghe e l’opzione autoritaria costituisce il correttivo istituzionale necessario a consentire la piena realizzazione del processo di sussunzione in corso. Ma l’opzione autoritaria esige la costruzione della paura, quale elemento necessario per convogliare il senso di insicurezza nell’ambito rassicurante e protettivo delle istituzioni.
Il potere ha colto l’importanza delle strutture municipali in questa fase di oggettiva transizione dal vecchio al nuovo processo di valorizzazione. La globalizzazione è irreversibile, modifica e travolge la sovranità nazionale piegandola alla circolazione di merci, materiali o immateriali, senza confini certi. Ma al tempo stesso determina il mutamento, nelle strutture territoriali, dei rapporti politici, economici, religiosi, ambientali, familiari, culturali, di genere e perfino di orientamento sessuale. Si vanno ridefinendo i ruoli, le alleanze, i bisogni, in forme e modi non sempre immediatamente comprensibili, tanto meno prevedibili. L’antagonismo stesso fatica a trovare l’interlocutore contro il quale accendere lo scontro teso all’emancipazione.
La ratio del decreto Minniti sta nel progetto di arruolamento dei sindaci, delle amministrazioni locali, delle forme di aggregazione insediate nel territorio. L’opzione autoritaria impone ora di scegliere fra l’autonomia ostile e la collaborazione piena. Per chi si oppone le conseguenze saranno quelle sperimentate nel lungo conflitto con la popolazione della Val di Susa, un attacco senza tregua e una repressione economico giudiziaria senza quartiere.
Si va delineando uno scenario nuovo e diverso rispetto a quello del passato. E’ necessario concentrarci sullo studio analitico dei punti deboli che non mancano, nonostante tutto, nel campo avversario. Bisogna, e non c’è altra scelta, accettare il terreno di scontro, un terreno al tempo stesso globale e microterritoriale. La solidarietà e la fondazione di realtà mutualistiche si pongono, con tutta evidenza, come elementi di emancipazione e di contrasto al potere. Ma, come avveniva nelle prime associazioni di mutuo soccorso, i principi irrinunciabili debbono diventare norme costituenti, evitando qualsiasi compromesso capace di inquinare i rapporti fra i soggetti. La discussione su questi principi economici, operativi, di relazione non è semplice teoria ma elaborazione politica, materia viva con cui misurarci, a partire dalla condizione precaria generalizzata, in tema di lavoro, moneta, ricerca, libertà, emancipazione.
Fonte effimera.org
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