La crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere. Antonio Gramsci

giovedì 4 maggio 2017

Stiglitz e l'Euro

di Sergio Farris
Nel suo libro sull'euro (The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe) J.Stiglitz si spinge ad affermare che un divorzio amichevole fra gli stati memebri dell'UME costerebbe meno rispetto agli ingenti costi di una prosecuzione che non contempli la messa in comune delle politiche economiche e non contempli istituti come una garanzia comune contro la disoccupazione, la condivisione del rischio finanziario tramite gli eurobonds e l'unione bancaria. La sua attuale posizione mi pare condivisibile.
Se per permanere all'interno di un'area neomercantilista occorre condannare i paesi membri a un futuro di bassi livelli della domanda interna, di disoccupazione e di lavoro precario, meglio una scissione consensuale. In particolare, se questo fosse l'esito, bisognerebbe fare il possibile per contenere il trauma, dovuto alla reazione dei mercati finanziari, sullo stato patrimomiale dei residenti e del settore bancario. Occorrerebbe poi una virata politica e culturale di 180 gradi da parte della classe dirigente, tuttora irretita dalla dottrina dell'efficienza del mercato, la quale dovrebbe tornare a maneggiare gli strumenti della politica economica.
L'unica vera novità, dopo l'amara gestione del caso greco, è stata la sterzata di politica monetaria attuata dalla BCE presieduta da Draghi. Un'esperienza che è stata, non a caso, osteggiata dai paesi in surplus delle partite correnti e che dovrà presto giungere ad esaurimento. Nel pezzo che segue, da me scritto nel 2014, il premio Nobel, oltre a descrivere la fallace architettura del progetto della moneta unica, avvertiva circa i rischi associati a una sua irriformabilità.
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Stiglitz all'Università Luiss

Il 6 maggio [2014], il professor Joseph Stiglitz, della Columbia University di N.Y. e premio Nobel per l'economia nel 2001, è stato invitato dall’Università Luiss di Roma a tenere una conferenza dal titolo: l’euro può essere salvato? L’ex capo economista della Banca Mondiale ha espresso un durissimo giudizio sulla costruzione della moneta unica e sulle politiche adottate nell’eurozona durante la crisi iniziata nel 2008. Ha detto che, prima di tutto, bisogna ammettere che numerosi paesi dell’area valutaria dell’euro sono in depressione. Nonostante qualche timido segnale di fine della recessione c'è poco da assumere toni trionfalistici. La disoccupazione è allarmante e i rimedi applicati, cioè le politiche di austerità, non funzionano. In tutti i paesi dell’area, tranne la Germania, il reddito pro capite è di parecchio inferiore rispetto all’inizio della crisi.
Ma persino la Germania, campione di esportazioni, (e la cui politica volta al perseguimento di avanzi commerciali è comunque improponibile a livello globale) offre prestazioni poco brillanti.
Poi, in sostanza, il nobel ha ribadito che la costituzione della moneta unica europea, a causa degli assunti teorici che sono stati posti alla sua base, è stato un grave errore il quale andrebbe urgentemente riformato. Ciò non implica necessariamente che si debba abbandonare l'unione monetaria. Tornare indietro è molto difficile. Aver commesso un'errore non significa che sia meglio lasciare il progetto.
E’ comunque incredibile che paesi dotati di competenze, istituzioni e sistemi educativi di qualità si trovino in una situazione di depressione che comporta la perdita di risorse e di capacità, perdita che, oltre che un abbassamento del potenziale di sviluppo nel lungo termine, provoca emigrazione e veri drammi sociali. 
L’euro è stato costruito sulla base dei presupposti e dell'ideologia in voga negli anni ’80 e ’90: in particolare, sull'ipotesi di efficienza e stabilità dei mercati nonchè su ferree regole (tetto al rapporto deficit/pil ed al rapporto debito/pil) poste a limitazione del campo d’azione dei governi. Con queste regole le economie dei paesi membri avrebbero dovuto convergere verso gradi di competitività omogenei. E’ accaduto esattamente il contrario: l’unione monetaria europea non è un’area valutaria ottimale (i requisiti erani stati tempo addietro enucleati dal premio nobel Robert Mundell) e la mobilità dei capitali infrazona non ha sortito l’effetto di allocare gli investimenti in modo appropriato, con i paesi periferici in costante disavanzo delle partite correnti. Il tutto era prevedibile e, da alcuni, previsto. 
Con l’adesione all’euro i paesi membri hanno perso due strumenti di aggiustamento impiegabili per sanare gli squilibri: la flessibilità del tasso di cambio e il controllo del tasso di interesse. Ne è rimasto uno: la svalutazione interna (o deflazione). Purtroppo le conseguenze di questo strumento sono state sottostimate e misinterpretate: non solo per l'aumento dei tassi d'interesse in termini reali, ma anche perchè l’aspettativa di ottenere un notevole incremento delle esportazioni da parte dei paesi periferici è stata ampiamente disattesa. Ne è seguito invece, soprattutto, un innalzamento dei tassi di disoccupazione e la frustrazione, nonostante i paesi si siano concentrati su tagli ai bilanci pubblici, dell’intento di ridurre il rapporto debito pubblico/pil dei paesi in crisi. 
Come se non bastasse, anziché ammettere che le assunzioni di fondo delle politiche di austerità della Troika sono semplicemente sbagliate, il motto è stato: è colpa dei paesi deboli! Se i risultati non vengono è perché non hanno applicato abbastanza austerità! Ne serve di più!
Ma “l’austerità espansiva è veramente un’idea stupida!”, ha affermato Stiglitz (la Grecia ha perso il 25% del Pil).
Altro pilastro della teoria (tuttora oggi) prevalente all'epoca della creazione dell'euro, è quello di affidare alla Banca centrale il solo compito di controllo dell’inflazione e non anche quello di espansione dell'occupazione. Anche qui l’assunto è che i mercati non possano fallire, si autoregolino e siano stabili, per cui basterebbe tenere basso il tasso di crescita dei prezzi perché le economie prosperino. Nel 2008, la Bce, ossessionata dall’inflazione, ha aumentato i tassi d’interesse, contribuendo al precipitare della crisi. L’euro si è rivalutato rispetto al dollaro, aiutando l'economia americana. “Gli americani vi ringraziano per avere adottato una politica così stupida!” ha detto Stiglitz.
E’inutile raccomandare riforme strutturali nel senso inteso dalla Troika: queste riforme, negli intenti dei promotori, sono riforme del lato dell’offerta delle economie, che non colgono i problemi che sono stati all’origine della crisi. Come quella del mercato del lavoro, che si vorrebbe sempre più flessibile, il che raffigura soltanto un modo per ridurre i salari dei lavoratori, i soggetti già più colpiti dalla crisi. “Ma il problema non è l’offerta, è la carenza di domanda!”. Riforme come questa non farebbero altro che indebolire la domanda e accrescere le ineguaglianze sociali.
Non solo: l’euro si è mostrato un sistema di creazione di “rischio sovrano” in capo ai singoli stati. Nessun paese dell’area euro è in grado di controllare la valuta con la quale effettua le proprie transazioni. Gli stati che controllano la propria valuta non conosceranno mai una crisi del debito sovrano. Ad esempio gli USA, tramite il Federal Riserve System, controllano la propria moneta. L’economista ha ironicamente detto: “l’unica possibilità di non ripagare il debito sarebbe…una mancanza di elettricità che fermasse la zecca di stato!”
Altro raffronto teso alla dimostrazione di un ulteriore pecca nella struttura dell’euro e di quanto sia improponibile l’idea che il governo non debba interferire con i mercati è stato: dopo il crollo finanziario del 2008, i capitali hanno smesso di affluire verso gli USA, il paese dove la crisi è stata provocata? No! Forse la finanza americana si è mostrata capace di gestire il rischio meglio di quanto avvenisse negli altri paesi del mondo? Per nulla. Eppure dopo la crisi i capitali hanno continuato a dirigersi verso gli USA. E ciò perché il governo e l’autorità monetaria sono disposti a intervenire illimitatamente nei mercati in caso di eventi traumatici. L’euro invece non è resiliente a eventi come uno shock finanziario. 
La soluzione alla depressione e la salvezza dell’euro non verranno spontaneamente: come la crisi dell’eurozona è stato il portato di un’ideologia fallimentare e di scelte di politica economica dei governi europei e della UE, così l’uscita dalla crisi non può venire da sé, lasciando fare al mercato e costringendo i governi nei rigidi parametri impostigli.
Occorre porre subito in essere una serie di misure che incidano nella struttura dell’eurozona: abbandono dell'austerità e della svalutazione interna, ritorno alle politiche industriali, armonizzazione fiscale (i capitali si dirigevano verso l’Irlanda non perché il mercato valutasse correttamente i rischi, ma solamente perché le imposte sulle imprese sono molto al disotto della media europea), mutualizzazione del debito, maggiore tassazione dei capitali, unione bancaria, aumento dei prezzi e dei salari in Germania, riforma del ruolo della BCE, imposte sui paesi in surplus, ristrutturazione di alcuni debiti pubblici.
Se ci si limiterà a fare il meno possibile i costi da pagare, già alti, incrementeranno, senza contare il prezzo legato alla perdita di fiducia nella democrazia che inevitabilmente si pagherà.

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