di Michele Prospero
Le primarie del Pd? Un canto del cigno, scambiato dagli apologeti, tornati in servizio permanente effettivo nei media unificati, per una nuova incoronazione. Hanno partecipato al rito (per quanta attendibilità possono avere i dati numerici lanciati con numeri in libertà e senza efficaci controlli) un milione e 800 mila elettori, lo stesso numero dei votanti registrato nelle primarie dei socialisti francesi, che subito dopo il bagno di folla sono però precipitati al 6 per cento nelle elezioni presidenziali.
Chi, tra i commentatori, parla di una resurrezione di Renzi dice perciò una cosa insensata. Continua anzi l’emorragia di un partito dall’amalgama culturale fallito, che vede le regioni rosse di un tempo disertare in massa i gazebo. Malgrado gli imbarazzanti sostegni di Veltroni, Fassino (capi di città come Roma e Torino che hanno accelerato il degrado etico della politica e alimentato la ricerca di disperate alternative nel M5S) niente più della tradizione della sinistra rimane nel non-partito renziano.
E quindi, quelli che con Orlando e Emiliano hanno partecipato all’evento con posizioni critiche, dovranno ben presto misurarsi con il principio di realtà e adottare l’inevitabile risoluzione dinanzi alla forza delle cose. Il Pd non è recuperabile, altro che baluardo, rispetto ai populismi, da preservare con una visita ai gazebo impolverati. Una sfida interna contro il revanscismo di un capo irresponsabile, quando una rilevante scissione era in corso, è stata una prova da volenterosi un po’ miopi, che si sono ostinati a negare l’evidenza.
Adesso gli sconfitti sembrano aspettare l’ora x, e cioè che tra un anno a risolvere la grana Renzi siano gli elettori che, decretandone la batosta definitiva, offriranno l’occasione per riprendere il giocattolo. Ma il Pd è un problema, non certo un bene politico da preservare. E’ per questo una scommessa del tutto impolitica quella di chi spera in una rigenerazione mitica che restituisce l’agibilità democratica al partito del Jobs Act, della buona scuola, del plebiscito. La passeggiata nei gazebo di un sovrano senza popolo decreta la fine irreversibile del centro sinistra. Urgono perciò contromisure politiche efficaci.
La destra, il Pd di Renzi e il M5S condividono una cosa: l’ideologia della disintermediazione. Contro la politica organizzata, e in ostilità verso i sindacati dei lavoratori, si scagliano con una forte ostinazione. Una convergenza istruttiva, per chi intende vedere le cose senza infingimenti, e cioè secondo un’ottica di classe. Ed è proprio qui, nella difesa degli attori della politica di massa e della contrattazione collettiva, che occorre agire per costruire una alternativa al sistema politico attuale, a forte egemonia padronale.
Quella che si chiama crisi della democrazia è soprattutto una crisi della sinistra, il cui addio alle armi del conflitto sociale ha generato i populismi, le tecnocrazie, la telepolitica. Ovunque, da Sander con le sue vaghe idee di socialismo, a Mélenchon, si annuncia il tempo di una sinistra ritrovata, che cioè ritorna ai grandi principi per dichiarare di nuovo aperta la lotta alle diseguaglianze. Questo è il problema essenziale. Riscoprire i principi, riorganizzare il conflitto, riformulare l’identità e rilanciare l’ideologia di una forza critica.
Dinanzi al ritorno renziano occorre perciò un lavoro su due fronti. Il primo obbliga a non interrompere le forme implacabili di una guerra di movimento che conducano ovunque alla sconfitta del Pd nelle prossime amministrative. Renzi non deve contare sul trampolino di lancio del voto nelle città per anticipare le consultazioni ad ottobre. E’ necessario che continui a leccarsi le ferite, come gli capita da diversi anni. Il secondo cantiere prevede la ricostruzione di una sinistra plurale, capace di coniugare specifici investimenti organizzativi e la condivisione di un progetto aperto. Come in Francia.
Le ceneri di Gramsci, a 80 anni dalla scomparsa, devono indicare il percorso alle forze che da una medesima storia provengono. Dai comunisti (purché cessino le caricaturali ovazioni a capi latino-americani: un “comunismo immaduro”), ad articolo 1, e a quanti non possono che dire addio al dominio renziano, è possibile aprire un confronto. In questo spazio tocca a Sinistra italiana agire come il principale motore di un impegnativo lavoro coalizionale, da allargare ai comitati del no, ai movimenti sociali contro il Jobs Act e i voucher. Le due fratture che hanno determinato l’inciampo del renzismo (la costituzione e il diritto del lavoro) aspettano una interpretazione politica credibile. Non c’è più molto tempo: è possibile creare un polo articolato per sostituire il Pd come rappresentante della sinistra.
Aarticolo scritto per “La Parola” di Cesena
Fonte: pagina Facebook dell'Autore
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