di Sandro Moiso
Anche se oggi un perverso gioco di rimozione e occupazione della Memoria storica sembra averlo fatto dimenticare, i campi di concentramento, prigionia ed annientamento messi in funzione dal regime nazionalsocialista nacquero, fin dal momento dell’ instaurazione di Hitler al potere, come luoghi destinati alla reclusione dei suoi avversari politici. Il primo di questi fu quello di Dachau, aperto il 22 marzo 1933, in cui furono inizialmente raccolti gli oppositori di sinistra al III Reich: comunisti, sindacalisti, socialdemocratici, sovversivi in genere e anarchici.
Si calcola che, negli anni successivi e soprattutto nel biennio 1943-1945, siano stati circa 40.000 gli italiani trasferiti e reclusi in quei campi che, nel corso della costruzione del Nuovo Ordine Europeo voluto dai gerarchi tedeschi, assommarono complessivamente a 20.000. Campi di lavoro e di sterminio che, in realtà, non rappresentarono una novità assoluta per il XX secolo, che si era aperto con i campi di concentramento per i contadini cubani ribelli ideati nel 1896 dal generale e governatore spagnolo dell’isola Valeriano Weyler y Nicolau, di origine prussiana e con quelli in cui gli inglesi trasferirono dai 120.000 ai 160.000 afrikaaner – uomini, donne e bambini – per piegarne la resistenza.
Campi di prigionia e, troppo spesso, annientamento fisico che, come ben ricorda in una sintetica introduzione al suo saggio Franco Bertolucci, hanno costellato la storia del ‘900: da quelli per i cittadini di origine giapponese imprigionati dal governo degli Stati Uniti dopo Pearl Harbour al Gulag sovietico dove, non dimentichiamolo, furono racchiusi almeno 18 milioni di cittadini russi e in prevalenza oppositori del regime staliniano. Oppure, ma poi ci fermiamo perché l’elenco si rivelerebbe troppo lungo, da quelli, creati dal colonialismo italiano, in Libia e in Etiopia destinati alle popolazioni locali a quelli dei regimi autoritari e golpisti dell’America Latina degli anni settanta fino a Guantanamo e agli attuali campi, nati sulle coste del Mediterraneo, per la raccolta e identificazione dei profughi.
Nati da un sistema coloniale razzista ed esclusivo, si pensi alle riserve indiane già create negli Stati Uniti nel corso della seconda metà dell’Ottocento, avrebbero poi ripetuto il loro modello sul continente in cui il colonialismo e il razzismo avevano avuto origine. Applicandolo a milioni di persone. Modello e sistema concentrazionario che, con meticolosità ed efficienza prettamente germaniche, i lager avrebbero portato alle estreme conseguenze.
La meticolosa catalogazione dei prigionieri “andava di pari passo con la regolazione del loro tempo e delle loro mansioni nei diversi campi, fino alla loro sistematica eliminazione, fu di fattom l’estremizzazione di quell’idea di «disciplina industriale»“1introdotta fin dall’avvento della prima rivoluzione industriale e delle norme giuridiche relative ai sistemi di punizione e controllo sociale elaborate a partire, guarda caso, dal XVIII secolo.
Un gigantesco sistema di lavoro coatto, affittato alle diverse aziende tedesche che producevano per il Reich, dove la forza lavoro schiavizzata era sfruttata fino al totale esaurimento delle forze e dove i corpi potevano essere oggetto di tutte le sperimentazioni e violenze possibili. In cui il lavoro estraniato, inteso come violenza dell’uomo sull’uomo, assumeva il suo significato definitivo.
Un sistema che portò alla morte circa dieci milioni di persone tra ebrei, prigionieri di guerra sovietici, oppositori politici, omosessuali, zingari, disabili, diversi e disadattati di ogni genere, categoria e provenienza nazionale.
Dei 40.000 italiani deportati nei lager, ben 23.826 furono considerati politici, di cui 10.129 destinati a non fare ritorno a casa e a morire nei lager. “Dachau, con 9.311 persone, detiene il primato per il maggiore numero di deportati politici italiani; a seguire, oltre il già tristemente noto Mauthausen (6.615), Buchenwald (2.123), Flossenbürg (1.798), Auschwitz e Ravensbrück con lo stesso numero (847), Dora Mittelbau (794) e poi gli altri campi”.2
Tra questi detenuti politici la scrupolosa e meticolosa ricerca di Bertolucci, direttore della benemerita Biblioteca Franco Serantini di Pisa (forse il maggior centro italiano di documentazione sulla storia del movimento operaio in tutte le sue possibili declinazioni), è riuscita ad individuare 102 militanti anarchici di cui il dossier presenta le schede individuali che ne ripercorrono, sinteticamente, la vita, le scelte politiche, le condizioni lavorative, l’arresto o, ancor più spesso, gli arresti e la morte, talvolta sopraggiunta ancora a seguito delle cattive condizioni di salute ereditate dai lager, pur essendo magari riusciti a sopravvivere agli stessi.
Quasi tutti erano nati entro i primi dieci anni del secolo, a testimonianza di una crisi in cui il movimento anarchico era stato spinto dal trionfo dei regimi dittatoriali e dalla guerra mondiale, oltre che dalla crisi delle lotte proletarie seguite alle sconfitta in Spagna, Italia, Germania e Russia soprattutto. E quasi tutti erano operai di umili condizioni che pure avevano spesso scelto di far parte sia di formazioni combattenti nel corso della guerra civile spagnola che, fin dai primi giorni successivi alla caduta di Mussolini nel 1943, delle prime bande partigiane.
Tutti, arrestati in Italia o, spesso, in Francia, dove avevano trovato un precario rifugio dopo l’ascesa del fascismo oppure dopo la sconfitta della Repubblica spagnola, dalla Gestapo o dalle milizie fasciste, furono meticolosamente individuati come sovversivi e pericolosi avversari dei regimi fascisti. Fin dalla prima ora della loro comparsa. Ma, il curatore ce lo ricorda, se, già per i ««politici» “l’elenco è parziale, mancando molta documentazione, e soprattutto si riferisce in particolare agli ultimi anni di guerra (1943-45)”,3 per gli anarchici, i loro percorsi e l’esatta quantificazione di quelli che finirono nelle maglie del sistema concentrazionario gemanico molto lavoro di indagine e ricerca deve essere ancora fatto.
Ad arricchimento di questa prima inchiesta storiografica è stato inserito, nel dossier curato da Franco Bertolucci, un ampio ed interessante estratto dal diario di uno dei sopravvissuti, Antonio Dettori, il cui percorso di pubblicazione nel corso degli anni sessanta rivela come la storiografia e la “memoria” della deportazione e della lotta antifascista sia stata spesso inficiata4 da resistenze culturali, politiche, ideologiche e, talvolta, molto più semplicemente dalla superficialità dei ricercatori e degli “specialisti”. Il diario,5 di prossima pubblicazione nella sua versione integrale per le Edizioni BFS, costituisce un ‘importante testimonianza non solo per la ricostruzione delle vicende di vita di un militante antifascista libertario, ma anche dell’organizzazione del lavoro dei campi e delle sofferenze che lo accompagnavano.
Occorre infine segnalare che, nello stesso numero della Rivista Anarchica, è presente, insieme a numerosi altri articoli, anche un intervento sull’ormai inevitabile dibattito sul business delle emergenze umanitarie legate ai profughi che attraversano il Mediterraneo e alle colpe del militarismo.6
Fonte: Carmilla online
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