Intervista a Vladimiro Giacché di Alessandro Giorgiutti
Chiunque decida di approfondire le tesi euro-critiche si imbatterà prima o poi nel suo Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (Imprimatur). In quel testo Vladimiro Giacché, presidente del Cer (Centro Europa Ricerche), racconta le ricadute economiche e sociali dell’unione monetaria tedesca del 1990, col marco orientale rivalutatosi del 350% in una notte. In un primo tempo i tedeschi dell’Est si sentirono più ricchi (il loro potere d’acquisto era aumentato). Poi però si accorsero che i prodotti delle loro fabbriche non avevano più mercato e in breve tempo molti persero il lavoro. La loro economia, che pure era la più avanzata tra quelle del blocco comunista, collassò.
Quella vecchia storia c’entra molto con gli attuali problemi dell’euro, non solo perché alcuni protagonisti sono gli stessi (Schäuble, per esempio), ma perché insegna che la moneta non è un fatto neutro, anzi. «Può alterare in maniera drammatica i rapporti di forza tra le parti che la abbracciano, soprattutto quando tra loro c’è un notevole differenziale di produttività», spiega Giacché.
In un primo tempo lei aveva guardato all’euro con speranza…
«Mi sono ricreduto riflettendo su due aspetti. Anzitutto, sulla crisi europea: a differenza di quel che è stato detto, non nasce dall’eccesso di debito pubblico, ma da squilibri di bilancia commerciale. E questi squilibri, come la letteratura scientifica a dir la verità aveva previsto, sono un effetto della moneta unica».
Il secondo motivo di ripensamento?
«L’incompatibilità tra i valori che ispirano la nostra Costituzione (il primato del diritto al lavoro) e quelli che ispirano i Trattati europei, che danno priorità alla stabilità dei prezzi, intesa in senso anti-inflazionistico. In base ai Trattati io posso considerare “normale” un tasso di disoccupazione dell’11%, in base alla Costituzione no».
C’è chi sostiene che il problema non è l’euro, ma l’architettura europea lasciata incompleta.
«Se ho costruito una casa su fondamenta fragili, non è una buona idea pensare di risolvere il problema costruendo un altro piano. Se l’euro avesse favorito la convergenza economica, passare a una unione più stretta avrebbe senso. Ma della convergenza noi abbiamo avuto solo l’illusione. Ricorda il miracolo spagnolo? Abbiamo scoperto che poggiava su una bolla immobiliare che poi è esplosa. La crescita era finanziata con debito privato, a fronte di un saldo delle partite correnti cronicamente in rosso. Costruire una sovrastruttura politica su questi squilibri è pericoloso».
Per i teorici dell’Europa a più velocità una unione fiscale favorirebbe quella convergenza che l’euro non ha realizzato.
«C’è anzitutto un problema di metodo: non si possono aumentare i terreni di condivisione senza consultare gli elettori».
Quanto al merito?
«Cosa si intende per unione fiscale? Non aliquote fiscali uguali per tutti (l’Irlanda non rinuncerà mai alla tassazione delle imprese al 12,5 per cento) bensì un controllo a senso unico (inutile precisare chi controllerebbe chi) sulle leggi finanziarie degli Stati. Un ministero delle finanze Europeo con potere di veto sui bilanci degli Stati membri introdurrebbe un ulteriore elemento di rigidità oltre alla moneta unica, rendendo ancora più stringenti i vincoli del fiscal compact, che già impedisce investimenti pubblici a Paesi come il nostro».
E l’unione bancaria?
«È una unione asimmetrica, che ci penalizza. Anzitutto, manca la garanzia europea sui depositi. Quanto alla vigilanza centralizzata, il sistema creditizio tedesco è riuscito a tenersene per gran parte fuori: delle 420 Sparkassen (casse di risparmio, ndr), solo una è controllata dalla Bce. E la normativa sui salvataggi, il cosiddetto bail-in, vieta gli interventi di Stato dopo che in Europa li hanno fatti tutti tranne noi… Così quando Danièle Nouy, responsabile della vigilanza della Bce, invita a procedere con concentrazioni bancarie transfrontaliere, è evidente chi comprerà chi. Gli istituti che in Germania e altrove, dal 2008 al 2012, sono stati aiutati con fondi pubblici e forse hanno messo a posto i conti (dico forse perché la trasparenza dei bilanci non è massima) acquisiranno quelli che ora non possono più essere aiutati».
Roland Berger, tra l’altro consigliere della Merkel, afferma che uscire dall’euro converrebbe proprio alla Germania…
«Non è un’idea solo di Berger, altri in Germania ne parlano. I loro ragionamenti sono rivelatori. Berger dice: la Germania ha una moneta troppo debole rispetto alle condizioni della sua economia; questa debolezza disincentiva a investire per aumentare la produttività; di qui, il rischio di perdere competitività. Questo cosa ci dice? Che l’euro ha permesso alla Germania di accumulare un consistente avanzo commerciale senza fare investimenti, ma semplicemente tenendo bassi i salari nei settori esposti alla concorrenza internazionale. E infatti Peter Bofinger, esperto economico del governo tedesco, ha mostrato come, in questi settori, tra il 1999 e il 2008 il costo del lavoro per unità di prodotto sia sceso del 9%. Se oggi la Germania uscisse, perderebbe il vantaggio competitivo che la partecipazione alla moneta unica le dà: il neo-marco si rivaluterebbe, l’export calerebbe e per molte imprese diventerebbe più conveniente produrre altrove».
Ma il mercantilismo è una via inevitabile per la Germania? Anche con i socialdemocratici al governo?
«In un suo recente libro Sergio Cesaratto dimostra che è dagli anni ’50 che la Germania segue questo modello: la crescita si basa sull’esportazione più che sulla domanda interna; per sostenere l’esportazione, si mantiene un tasso d’inflazione inferiore a quello dei competitori; per tenere sotto controllo l’inflazione si tengono bassi i salari. Con l’euro intervengono due novità: anzitutto l’impossibilità di riaggiustamenti del cambio rende questa politica più efficace per la Germania (e più devastante per gli altri), e ciò si vede nell’enorme surplus commerciale. L’altra novità è che questa concezione viene interamente fatta propria dal socialdemocratico Schröder con le sue riforme del lavoro. E Schulz non si è mai discostato da questa impostazione».
Qual è il fattore che può rompere l’euro? La guerra commerciale con l’America di Trump? La Francia che si scioglie dall’abbraccio con Berlino?
«Ai due fattori aggiungerei la Brexit, che ha un forte potenziale di disgregazione, anche alla luce della risposta di Bruxelles, che sembra puntare al muro contro muro nonostante abbia tanto da perdere, esportando in Gran Bretagna molto più di quanto importa da Londra. Ma c’è un altro potenziale elemento di crisi: la divaricazione nell’andamento delle economie. Quando per molto tempo le economie procedono in direzioni diverse, diventa insostenibile avere un tasso di interesse unico, cosa inevitabile se si condivide la moneta. Oggi per la Germania il tasso fissato dalla Bce è eccessivamente espansivo. Questo crea fibrillazioni che, a un dato momento, potrebbero risultare ingovernabili».
Altre unioni monetarie hanno esacerbato le divergenze economiche di chi vi ha aderito, ma sono sopravvissute. È il caso della Germania nel 1990 ma anche dell’Italia nel 1861…
«Ma in quei casi l’elemento determinante è stata la statualità. La Germania est non ha adottato solo il marco occidentale ma, in soli 4 mesi, l’intero corpus giuridico che regolava i rapporti economici a Ovest. Nel caso del nostro Mezzogiorno, l’unione monetaria è avvenuta contestualmente a quella politica ed è stata seguita da una guerra civile con migliaia di morti. È stata, diciamo così, cementata dall’esercito. Oggi le cose non stanno in questi termini. Anche se forse chi si oppone ai progetti di esercito europeo pensa anche a questo».
Articolo pubblicato su Libero, 23 aprile 2017
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