di Lorenzo Fassina
L’approvazione, il 19 aprile scorso, della legge che ha sancito l’eliminazione dei voucher e il ripristino senza eccezioni della responsabilità solidale negli appalti, costituisce senza ombra di dubbio una grande vittoria di tutto il mondo del lavoro. La battaglia della Cgil ha dato i suoi frutti: si è consumata una svolta che potrà rivelarsi storica, al di là del risultato contingente.
Il diritto del lavoro, infatti, a dispetto di chi ne ha pronosticato la fine o accertato la mutazione genetica, può tornare a svolgere la funzione per cui è nato e si è sviluppato, rappresentare cioè la cartina di tornasole del grado di civiltà raggiunto da una società e tutelare, in primis, i valori di libertà e dignità sanciti dalla nostra Costituzione.
Il diritto del lavoro, infatti, a dispetto di chi ne ha pronosticato la fine o accertato la mutazione genetica, può tornare a svolgere la funzione per cui è nato e si è sviluppato, rappresentare cioè la cartina di tornasole del grado di civiltà raggiunto da una società e tutelare, in primis, i valori di libertà e dignità sanciti dalla nostra Costituzione.
Occorre però, affinché questa obiettiva vittoria di civiltà possa trasformarsi in una vera e propria svolta epocale, che tutte le forze orientate pro-labour, a cominciare dal sindacato, si uniscano in un duplice proposito: da un lato vigilare sui futuri sviluppi normativi, in modo tale da impedire che possano essere surrettiziamente introdotte leggi che vanifichino il risultato ottenuto dalla battaglia della Cgil; dall’altro, continuare a diffondere il patrimonio di civiltà contenuto nella Carta dei diritti universali del lavoro, ora all’attenzione del Parlamento.
Dal primo punto di vista, infatti, sarebbe non solo politicamente, ma anche giuridicamente inaccettabile se il governo dovesse proporre la reintroduzione di norme sul lavoro occasionale con la scusa di dover colmare il supposto vuoto normativo lasciato dall’abrogazione dei voucher (analogo discorso può farsi per la responsabilità solidale negli appalti). Se questo stravolgimento dovesse prendere realmente forma, non sarà irrealistico pensare a una nuova stagione referendaria ad ampio raggio.
E dal secondo punto di vista riteniamo che il raggiungimento dell’obiettivo referendario non solo non esaurisce ma vivifica quella che è la stella polare dell’Organizzazione, ovvero il disegno di legge di iniziativa popolare che introduce la “Carta dei diritti universali del lavoro” su cui la Cgil ha raccolto un milione e trecentomila firme (e, per tornare all’abrogazione dei voucher di cui si diceva, gli artt. 80-81 della Carta dei diritti forniscono la soluzione normativa più “civile” al lavoro occasionale). Un documento, la Carta, alla cui base c’è l’esigenza di riportare al centro del dibattito politico la Costituzione, nella sua matrice personalistica e lavoristica.
Quella matrice che il legislatore degli ultimi 20 anni pare aver dimenticato e che ha trovato la sua massima espressione “pretercostituzionale” nel decreto legislativo n. 23/2015 in materia di licenziamenti. A tale proposito occorre ricordare che la Segretaria generale della Cgil, appena pubblicato il dispositivo della sentenza con cui la Corte costituzionale, lo scorso 27 gennaio, ha dichiarato inammissibile il referendum sui licenziamenti, ha affermato la volontà del sindacato di Corso Italia di ottenere attraverso altre forme la cancellazione dall’ordinamento del decreto sulle cosiddette “tutele crescenti”, anche ricorrendo alle autorità giudiziarie sovranazionali. Il decreto legislativo n. 23/2015, infatti, è un vero e proprio ricettacolo di disposizioni incostituzionali, sia in via diretta per violazione di fondamentali parametri costituzionali, sia in via mediata per incompatibilità con alcuni importanti principi sovranazionali (a partire dall’art. 24 della Carta sociale europea – sulla base del quale la Cgil sta per presentare un reclamo collettivo presso il Comitato europeo dei diritti sociali – e dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
In questo quadro, quindi, nelle scorse settimane l’Ufficio giuridico della Cgil ha messo in moto, su impulso della Segreteria, un’operazione di valutazione e selezione di casi giudiziari “sul campo” da portare davanti alla magistratura per poter, così, ottenere un giudizio di incostituzionalità da parte della Consulta (occorre tener presente che in Italia non è possibile adire direttamente la Corte).
Di fronte alle aberrazioni e alle palesi arbitrarietà del Jobs act, come ad esempio – in generale – l’irrisorietà dei risarcimenti in caso di licenziamento ingiustificato; l’irragionevole trattamento deteriore riservato a lavoratori coinvolti nella stessa procedura collettiva di licenziamento per il solo fatto di essere stati assunti dopo il 7 marzo 2015; l’affossamento del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione disciplinare; l’irrilevanza della condotta incolpevole del lavoratore; la sostanziale impunità del datore di lavoro in caso di mancata comunicazione dei motivi di licenziamento, la Corte costituzionale non potrà che prendere atto della palese violazione degli artt. 2, 3, 4 e 117, comma 1, della nostra Carta fondamentale e cancellare dall’ordinamento il decreto legislativo n. 23/2015.
Fonte: Il Fatto Quotidiano - blog Area pro labour
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