di Lea Melandri
La crisi delle istituzioni, la loro sempre più debole capacità di «rappresentare» gli interessi e le spinte al cambiamento di una maggioranza di cittadini, pur nella diversità delle loro condizioni sociali e ideali politici, sembra essere l’elemento inquietante di convergenza tra populismi di destra e di sinistra. C’è chi agita il mito del popolo sovrano per scardinare la democrazia e chi, al contrario, spera di allargarne le maglie, facendo crescere le opportunità di partecipazione.
La presa di distanza dalle istituzioni non è da oggi. Che cominciassero a venire meno le ragioni storiche che le avevano fatte sembrare necessarie, e che stesse rapidamente cambiando la realtà sociale con il modificarsi dei confini tra privato e pubblico, la comparsa di forme autonome dell’agire politico, create dai movimenti fuori dalle organizzazioni partitiche e sindacali, si era già visto alla fine degli anni Sessanta.
A proposito del depotenziamento della polarità sinistra-destra, scriveva Elvio Fachinelli: «Propongo di esaminare la necessità tragica, in cui si è trovata finora gran parte della specie, di ricorrere a una serie di polarità in forte tensione, di dicotomie simboliche che, variando di sostanza e di figura, hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella storia. Basterà pensare alla dicotomia fedele/infedele, credente/non credente, razza eletta/razza reietta» (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli, 1974).
Sono passati da allora alcuni decenni, ma le coppie oppositive, su cui si sono rette le civiltà finora conosciute non accennano a darsi per vinte, a partire da quella originaria che ha considerato il sesso femminile il complemento organico dell’unico umano perfetto: l’uomo.
Nell’analisi che Alfio Mastropaolo ha fatto alcuni giorni fa su il manifesto (27/04/2017) dell’esito delle elezioni in Francia, si legge: «Tutti i populismi sovranisti sono antipolitici. Spregiano la politica democratica e il suo apparato di regole e di diritti. Ma non tutti gli antipolitici sono populisti. Molti sono anti-establishment, sono contro partiti convenzionali. Magari contro le istituzioni europee. Oltre la destra e la sinistra, ma non disdegnano le istituzioni democratiche (…) gli antipolitici di sinistra vorrebbero accrescere le opportunità di partecipazione popolare». Dopo essersi rallegrato della «strepitosa vittoria» di questi ultimi e della Waterloo di quelle «piccole cittadelle del privilegio» che sono i partiti tradizionali, arriva, sconfortante, la conclusione: «La più democratica delle antipolitiche è invertebrata».
Così come era accaduto ad Obama, anche Macron, «senza una solida struttura che connetta Stato e società, è probabile che finisca tra le grinfie del business, donde proviene».
A breve distanza di tempo, mi è capitato di leggere due altri articoli che, sempre con l’attenzione a quanto succede in Francia, disegnano un quadro all’apparenza estraneo a quello che è al centro dei media, e portano dentro le polarità che conosciamo, oppositive e simili al medesimo tempo – sovranisti populisti e antipolitici democratici -, una realtà sociale e politica destinata a far scomparire ogni surrettizia e mitologica idea di popolo. Non si può dire che i movimenti «no global» – dal popolo di Seattle, al Genoa Social Forum, a Occupy Wall Street, Indignados, fino a Nuit Debout – siano «soggetti imprevisti» come furono i giovani e le donne degli anni Sessanta e Settanta. Caso mai si possono considerare la «ripresa», ora manifesta ora carsica, di una straordinaria partecipazione popolare, allargamento dell’impegno politico, creazione di forme inedite di democrazia diretta, come lo furono in passato il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo.
Il legame tra società e Stato ha fatto da tempo il suo ingresso nella sfera pubblica e se ancora si vede solo il deserto su cui crescono fatalmente nuovi totalitarismi e inconsistenti governi democratici, è perché nessuno, tra i politici, gli intellettuali, gli opinionisti, sembra vederlo e volerne parlare.
Riferendosi a Nuit Debout e ai movimenti che si sono via via succeduti nel tempo, Lorène Lavocat su Reporterre-net il 6 aprile scrive: «Il movimento non è fallito, ho visto fiorire collettivi e inziative, alcune commissioni nate in quella piazza (come quella di Educazione popolare) continuano a incontrarsi».
Si tratta di un movimento che si pone come «convergenza» di pratiche diverse «senza che si verifichi una fusione o unità». Quel deficit di democrazia su cui aleggia oggi minaccioso il fantasma dei fascismi e nazionalismi che l’Europa ha tragicamente già conosciuto, trova qui la sua risposta più radicale e realistica al medesimo tempo: «dare ai cittadini la capacità di influire in modo continuativo sulle decisioni, ridurre al minimo l’estrema presidenzializzazione del sistema, accrescere il controllo dei cittadini sui loro rappresentanti, garantire il pluralismo dell’informazione».
Mariana Otero, che sta per far uscire un documentario sulle assemblee parigine – L’Assemblea – definisce Nuit Debout un «appello alla democrazia», ma anche un luogo in cui la si vuole già praticare come «riappropriazione del potere politico da parte dei cittadini attraverso la riconquista della parola».
Le fa eco David Graeber in un articolo di pochi giorni dopo («Effimera» 20 aprile): «spazi prefigurativi, zone di sperimentazione democratica (…) parte di una civilizzazione insorgente, planetaria per portata e ambizione, nata da una lunga convergenza di esperimenti simili realizzati in ogni parte del pianeta (…) con contributi essenziali del femminismo, dell’anarchismo, disobbedienza civile non violenta».
I movimenti che raccolgono le esigenze radicali di ogni passaggio storico e tentano di darvi una risposta con azioni creative dal basso, sono la testimonianza viva, appassionata che «un altro mondo è possibile». Ma sono anche la realtà sociale e politica che le istituzioni, dalla scuola ai partiti, sindacati, parlamenti, volutamente ignorano o reprimono con la violenza.
Fonte: Il manifesto
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