di Roberto Ciccarelli
Il programma è in piena esecuzione. Avevano pensato di liquidare la sanità pubblica, ci stanno riuscendo. Ma con un’attenta e programmata senescenza delle strutture e radicamento del precariato, moltiplicazione di liste d’attesa incompatibili con i tempi dei controlli e delle malattie, lasciando come unica soluzione il ricorso alla sanità e alle polizze private. Welfare pubblico, addio. C’è la crisi, e sei senza reddito? Non ti curi, non controlli, crepi. È la vita, dicono. Ma la vita, secondo i canoni di un welfare, non è questa. E non dovrebbe esserlo. Undici milioni di persone hanno dovuto rinunciare alle cure nel 2016. Secondo la ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute, presentata ieri a Roma in occasione del sesto «Welfare Day», questo è l’esito della legge istituita dal darwinismo sociale: più cure, ma solo per chi può pagarsele.
La tendenza è chiara: dal 2012 ci sono due milioni di persone in più ad essere rimaste incastrate nel dispositivo che governa la vita al tempo dell’austerità. Sono anziani, e si capisce: 2,4 milioni di persone. Ma gli effetti della povertà si fanno sentire anche su 2,2 milioni di «millennials». Con questa espressione pescata nell’arsenale delle parole-feticciomainstream si intendono i giovani sottoforma di categoria merceologica. Dagli Usa alla Francia, ad esempio, i «millennials» vengono definiti «Generazione Y», ma anche «Generation Next» o «Net Generation». Si parla anche di «Echo boomers» per differenziarli dai «Baby boomers», i nati nel secondo DopoGuerra, la generazione che ha visto nascere il sistema sanitario nazionale, istituito in Italia con la legge del 1978. In generale, la legge del chi paga si cura (meglio) si applica anche ai nati tra la fine degli anni Ottanta e l’11 settembre. Questo è il dato sconvolgente, per cui ancora non esiste una cultura che sappia spiegare il perché: questi giovani non potranno curarsi.
La tendenza è chiara: dal 2012 ci sono due milioni di persone in più ad essere rimaste incastrate nel dispositivo che governa la vita al tempo dell’austerità. Sono anziani, e si capisce: 2,4 milioni di persone. Ma gli effetti della povertà si fanno sentire anche su 2,2 milioni di «millennials». Con questa espressione pescata nell’arsenale delle parole-feticciomainstream si intendono i giovani sottoforma di categoria merceologica. Dagli Usa alla Francia, ad esempio, i «millennials» vengono definiti «Generazione Y», ma anche «Generation Next» o «Net Generation». Si parla anche di «Echo boomers» per differenziarli dai «Baby boomers», i nati nel secondo DopoGuerra, la generazione che ha visto nascere il sistema sanitario nazionale, istituito in Italia con la legge del 1978. In generale, la legge del chi paga si cura (meglio) si applica anche ai nati tra la fine degli anni Ottanta e l’11 settembre. Questo è il dato sconvolgente, per cui ancora non esiste una cultura che sappia spiegare il perché: questi giovani non potranno curarsi.
Non potranno farlo perché, dice la ricerca, manca il reddito per pagare i ticket aumentati: il 45,4% (+5,6% in più dal 2013) ha pagato tariffe nel privato uguali o di poco superiori al pubblico. Sono 7,1 milioni gli italiani che nell’ultimo anno hanno fatto ricorso all’intramoenia: il 66,4% per evitare le lunghe file d’attesa. E si capisce: se devi fare un’ecografia per capire se hai un tumore, logica vuole che tu lo voglia sapere subito. Non tra un anno. Il 30,2% del campione sostiene di essersi rivolto alla sanità a pagamento. Resta da capire cosa fa chi non può permetterselo. Si indebita? Probabilmente.
Sulle liste d’attesa il rapporto formula una specie di teoria: tanto più lunghe sono, tanto più è favorita la sanità a pagamento. Non solo: si arriva a formulare la teoria collegata: tanti più italiani sottoscriveranno una polizza sanitaria o aderiranno a un fondo sanitario integrativo, tanto più la sanità pubblica libererà risorse pari a 15 miliardi di euro per acquistare prestazioni per i non abbienti. La singolare teoria è emersa nel corso della presentazione del rapporto: si sostiene che il mercato delle assicurazioni private sanitarie, come quello della previdenza privata, vada alimentato. E valutazioni o prospettive di questo tipo lo fanno. Ammesso che queste cifre siano vere, c’è un problema: uno stato che taglia la spesa sanitaria, come l’Italia dal 2009, considererà i 15 miliardi in ballo come «risparmi». E li taglierà. È il circolo vizioso dell’austerità in cui sono piombati anche gli enti locali. Senza contare che i «fortunati» che hanno redditi tali da potere rivolgersi alla sanità privata sono anche quelli – ceto medio, mettiamo – che sono colpiti dalla crisi.
Il neoliberismo scommette sulla rendita delle famiglie: serve a sostenere la precarietà dei figli e la sanità dei genitori e dei nonni. Scommessa azzardata, evidentemente: si ragiona, infatti, sul capitale finanziario e sulla sua leggendaria capacità di produrre denaro dal denaro. Questo sarebbe valido anche per le famiglie con i risparmi in banca. Ma i rendimenti dicono tutt’altro. Il governo Renzi pensa di sostenere il ceto medio e il lavoro dipendente con gli 80 euro di bonus Irpef. Il rapporto dimostra che gli 80 euro servono a pagare la sanità privata: dal 2013 al 2015 si è passati da 485 a 569 euro procapite, la spesa privata è a 34,5 miliardi di euro, +3,2%: il doppio dell’aumento della spesa per i consumi delle famiglie. In pochi numeri, ecco dimostrata la fallacia del teorema renziano. «È chiaro che l’Ssn deve fare i conti con la grave crisi economica che le famiglie stanno vivendo. Dev’essere chiaro che non si fanno le nozze con i fichi secchi» ha detto, crudamente, la ministra della Sanità Lorenzin che difende il micro aumento del fondo sanitario nazionale e il micro-sblocco del turn-over del personale. Solo che la crisi è stata prodotta anche dai tagli alla sanità che il suo governo non ha rifinanziato. «I tagli inducono a non curarsi» sostiene Susanna Camusso (Cgil). Per Costantino Troise (Anaao) la rinuncia alle cure è la conseguenza delle scelte anche di questo governo.
Fonte: il manifesto
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