di Marino Ficco
Ogni mattina le bacheche per gli annunci del metrò di Città del Messico vengono ricoperte di volantini di familiari che cercano un caro scomparso. Le edicole sono quotidianamente decorate con nuove foto di morti ammazzati. La tv pubblica propone carrellate di omicidi e sparizioni. Dal 2006 il Messico è un paese in guerra. «L’offensiva contro il narcotraffico dell’allora presidente Calderón ha scatenato una spirale di violenza che non ha nulla da invidiare all’Afghanistan, la Siria, lo Yemen e l’Iraq» dice la giornalista Veronica Basurto.
Oltre 175mila morti in dieci anni di conflitto. 20.525 omicidi dolosi nel 2015. Più di 28.000 donne, uomini e bambini desaparecidos, scomparsi nel nulla; 82 sindaci morti ammazzati in dieci anni; 11.257 omicidi nei primi sette mesi del 2016, di cui 10 giornalisti. Cifre, dietro le quali si infrangono i sogni dei giovani e degli oltre 22 milioni di adolescenti del paese.
Oltre 175mila morti in dieci anni di conflitto. 20.525 omicidi dolosi nel 2015. Più di 28.000 donne, uomini e bambini desaparecidos, scomparsi nel nulla; 82 sindaci morti ammazzati in dieci anni; 11.257 omicidi nei primi sette mesi del 2016, di cui 10 giornalisti. Cifre, dietro le quali si infrangono i sogni dei giovani e degli oltre 22 milioni di adolescenti del paese.
Il pericolo
«I giovani non sono un pericolo, sono in pericolo» ripetono spesso Carlos Cruz ed Erika Llanos Hernández, rispettivamente fondatore e direttrice dell’associazione Cauce Ciudadano. «Il problema della violenza in Messico va al di là delle droghe: è la conseguenza di un paese che ha dimenticato i suoi giovani», continua Carlos, che fino al 2000 era il leader di una pandilla, una banda che controllava gran parte del territorio della delegazione Gustavo Madero, al nord di Città del Messico. «Fino al 2000 anche questo ristorante si trovava nel mio territorio e doveva obbedire a noi» confessa Carlos mentre il cameriere ci porta dei deliziosi tacos di pesce tipici dello stato di Jalisco. Per anni lui e la sua banda sono stati responsabili di traffici illeciti e furti. E poi? «Eravamo in 23 quando avevamo 13 anni e solo in 3 siamo arrivati ai 17 – dice Carlos –. Un giorno è morto un mio amico, allora abbiamo parlato col resto della pandilla e alcuni di noi hanno deciso di abbandonare la violenza senza rinnegare i nostri valori».
Da 16 anni la casa della nonna di Carlos è diventata la sede dell’associazione, che cerca di fornire ai giovani una comunità libera dalla violenza e strumenti per vivere una vita migliore. Una sala polivalente permette di organizzare incontri ma anche di ospitare l’atelier di fotografia, «dove si impara l’importanza della luce», spiega Erika, la direttrice, che ha studiato sociologia all’Universidad Nacional Autonoma de México. Una minuscola stanzetta è diventata un pratico studio radiofonico: «Ho cominciato facendo radio comunitaria – aggiunge Erika -, in questo contesto è un ottimo strumento per creare ponti tra le persone». Nell’adiacente atelier di pittura molti writer custodiscono bombolette e altri strumenti. Un altro studio è il covo dei musicisti del quartiere, tra cui molti rapper, che provano e registrano. Infine la cucina, che «permette di recuperare antiche tradizioni culinarie e di portare ogni tanto un buon pasto ai compagni detenuti che partecipano ai nostri atelier», spiega Giovanni.
«In Europa non sapete più fare comunità – dice Carlos -. Noi mettiamo a disposizione della comunità l’identità della pandilla. I giovani entrano nelle bande alla ricerca di protezione e amicizia per poi diventare semplici mercenari della criminalità». Molti si ritrovano in una spirale di violenza per difendere il loro quartiere dagli attacchi esterni. Ma nelle municipalità periferiche spesso il latitante è lo Stato. «Durante l’infanzia abbiamo sofferto la violenza – aggiunge Carlos – e durante l’adolescenza abbiamo cominciato a generarla».
Ma una piccola associazione di periferia come può risolvere i problemi di un paese di 120 milioni di abitanti? «Una delle cose che abbiamo capito fin da subito e che cerchiamo di rafforzare sempre più è la necessità di fare rete con le altre organizzazioni che condividono i nostri obiettivi» spiega Erika parlando di come è nata nel 2015 la Red RETOÑO, una rete di associazioni che tentano di prevenire e risolvere i danni della delinquenza organizzata. Tra queste ci sono anche Libera, l’associazione anti-mafie italiana, e Marabunta, una «Brigata Umanitaria di Pace» che da dieci anni partecipa alle manifestazioni per assicurarsi che non avvengano violazioni dei diritti umani. Inoltre aiutano i familiari dei desaparecidos nelle loro ricerche esplorando fondali marini, anfratti e potenziali fosse comuni.
La morte e la beffa
Fernanda segue le attività della Red RETOÑO e di Cauce Ciudadano per i familiari di desaparecidos. Ci conosciamo un sabato mattina in un ex convento al sud di Città del Messico, dove è in programma una formazione rivolta a coloro che sono alla ricerca di un caro. «L’idea è di trasformare coloro che stanno subendo un’ingiustizia in difensori dei diritti umani» spiega Onil, originario di Cuba, che lavora per la rete. Ogni due settimane c’è un incontro di formazione e alcuni dei familiari vengono da stati molto lontani. Malgrado la formazione sia sulla differenza tra genere e sesso, se possono prendono la parola e ne approfittano per raccontare la vicenda della scomparsa del loro caro.
Araceli Rodríguez Nava cerca il figlio Luis Ángel León Rodríguez, agente di polizia, da oltre sei anni. Scomparso in circostanze misteriose insieme a sei colleghi sulla strada verso Ciudad Hidalgo, nel 2013 si aggiunge la beffa di un procedimento giudiziario con l’accusa di abbandono del posto di lavoro e per non aver effettuato la dichiarazione dei redditi. La madre accusa i gruppi criminali La familia michoacana e Los caballeros templarios, un gruppo di fanatici che sfruttano il cristianesimo per giustificare e imporre il loro regime del terrore. «Anche se non troverò il mio Luis Ángel – conclude Araceli – sto incontrando tante altre persone, sto dando vita alla vita… Questo mi dà la forza per continuare la mia lotta contro un mostro a due teste: il governo e la criminalità».
Recentemente è stato messo in piedi un sistema di protezione dei familiari minacciati, migliore del dispositivo che dovrebbe difendere i giornalisti. Per esempio J. vive e lavora in località segreta, ma è libero di spostarsi dove vuole nel paese con la scorta. Oltre a un sussidio economico riceve settimanalmente grandi quantità di derrate alimentari «che regalo ad amici e parenti perché io non me ne faccio niente di 20 kg di carne, patate, formaggio etc.» In generale i dispositivi di protezione delle persone minacciate sono semplici e non sempre efficaci, come nel caso del fotografo Rubén Espinosa minacciato a Veracruz in seguito alle sue inchieste sull’operato criminale del governatore Javier Duarte. Si cerca di far trasferire la persona minacciata nella capitale, dove la presenza dello Stato è più forte. «Spesso scompaiono professionisti che sono costretti a lavorare per la criminalità, per esempio ingegneri, architetti, medici – dice Veronica Besurto -. Inoltre si dà sempre la colpa al narcotraffico per qualunque omicidio o sparizione, ma spesso è una scusa per giustificare l’assenza di indagini, anche perché l’infiltrazione criminale nella politica è molto alta».
Nello stato del Morelos è particolarmente facile identificare le zone grigie di connivenza silenziosa tra politica e criminalità. Nel 2014 è stata scoperta una fossa comune presso Tetelcingo. «117 cadaveri, tra cui quattro bimbi, che riportavano segni di morte violenta e torture sono stati sepolti come se fossero spazzatura senza autopsia né identificazione di routine, compito della procura dello Stato» accusa Valentina Peralta, zia di una delle vittime. Per la prima volta un’università pubblica ha aiutato un’associazione di familiari di desaparecidosnel tentativo di identificare i corpi sepolti nella fossa comune, sostituendosi alla procura inefficace e corrotta. Per il momento sono stati identificati i resti di otto corpi dai familiari.
«L’ipotesi più probabile è che ci sia stata la volontà di coprire dei delitti; siamo di fronte all’opera di alcuni apparati dello Stato corrotti» accusa il dottor Ivan Martinez Duncker, della Comisión Científica de Identificación Humana della Universidad Autónoma del Estado de Morelos (Uaem). In seguito la procura ha aperto un’inchiesta interna, confermando le falle procedurali. Secondo Roberto Villanueva dell’Uaem le condizioni dei cadaveri porterebbero il marchio di fabbrica del gruppo criminale degli Zetas, molto forti nella regione, e che avrebbero siglato dei patti con la classe dirigente. Nonostante tutto, da parte sua il governatore Graco Ramírez risponde alle accuse affermando che la fossa è «totalmente legale», che i cadaveri «furono regolarmente identificati» e che «quest’inutile polverone è costato oltre 5 milioni di pesos alle casse dello Stato». Inoltre ha annunciato un taglio ai fondi destinati all’Uaem, l’università del dottor Duncker.
Fuori controllo
Situazioni analoghe si possono trovare in tutti gli Stati della repubblica messicana, ma in particolare nello stato di Veracruz, dove venerdì 2 settembre è stata trovata l’ennesima fossa comune con 192 corpi a Xalapa. «Il problema di alcuni stati fuori controllo, come Tamaulipas e Veracruz, si aggrava nel periodo di transizione di sei mesi tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governatore, quando lo Stato è assente e la criminalità si rafforza» assicura Erika Hernández.
«Ma il problema principale è sicuramente la tratta di esseri umani – dice Fernanda – la cui analisi permette di capire molti dei problemi attuali del paese». Grazie ai numerosi reportage nazionali e internazionali, tutti sanno che Tenancingo, un piccolo paesino vicino Puebla, è la capitale della tratta femminile, eppure lo Stato non interviene e talvolta le sole associazioni non possono risolvere tutto. Le principali vittime della tratta di esseri umani sono le giovani donne e i migranti. In Messico l’icona dell’assistenza ai migranti si chiama Alejandro Solalinde, un sacerdote che ha fondato un centro d’accoglienza, Hermanos en Camino per i migranti dell’America centrale e meridionale in cammino verso gli Stati Uniti. Vengono per la maggior parte da Salvador, Honduras e Guatemala. «Fuggono dalla violenza delle maras, da violenza, povertà e corruzione» ci spiega Paola, che coordina Adolescentes en Camino, un nuovo centro aperto ad agosto nella periferia nord della capitale per accogliere, proteggere e consigliare i migranti minori in transito. Padre Solalinde ha deciso di aprirlo qui perché è il solo posto franco di tutto il paese, dove nessuno è clandestino. I venti ospiti del centro sono adolescenti abbandonati a loro stessi. Alcuni sono sposati con figli nonostante non abbiano ancora compiuto 18 anni. C. ha 17 anni, un passato criminale nella famigerataPandilla 18 di Città del Guatemala. Ha impugnato un’arma per la prima volta a 13 anni. «Certo che ho ammazzato qualcuno – dice – erano nemici che tentavano di occupare il nostro quartiere; lo Stato ci abbandona e noi dobbiamo difenderci».
Leo sogna di diventare cantante rap. In Honduras non può. Proverà negli Stati Uniti. Gabriela sogna di fare la maestra a Orizaba. In Messico non può. Troppa violenza. Proverà in Europa. José sogna di ritrovare i fratelli scomparsi. Ha deciso di restare. Non ha altra scelta. Ci tiene a farmi ascoltare la sua canzone preferita, I Want to Break Free: «Voglio fuggire lontano dalle tue bugie». E ricominciare a vivere.
Fonte: Il manifesto
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