di Lucilio Santoni e Alessandro Pertosa
Nessuno ha il coraggio di dire che, di per sé, il lavoro è una pratica odiosa e annichilente: altro che un diritto da difendere. Si ha diritto a qualcosa di vitale, di positivo, di buono; si ha diritto a qualcosa di cui non si può fare a meno, o la cui sottrazione svilirebbe l’umanità del singolo; si ha dunque diritto al non lavoro perché il lavoro di per sé è contrario all’essenza dell’uomo, a quell’essenza ch’è tesa al gioco e all’ozio contemplativo. L’uomo non è nato per lavorare ma per contemplare la natura, la vita, la bellezza circostante. Nella società del lavorismo, la disoccupazione volontaria è riservata solo a chi può permettersi di vivere di rendita, a chi non avverte i morsi della fame, a chi può guardare i lavoratori standosene in pantofole e vestaglia mentre sorseggia un tè.
Questo tipo di non-lavoro è il frutto di una sperequazione violenta e ingiustificata della ricchezza: chi vive di rendita beneficia del lavoro altrui, accumula denaro proprio difendendo la cultura del dominio e l’apologia del lavoro, che sono le cause principali di questo squilibrio distributivo di beni e risorse. Il lavoro è l’arma che usa il potere per tenere a bada il popolo.
Questo tipo di non-lavoro è il frutto di una sperequazione violenta e ingiustificata della ricchezza: chi vive di rendita beneficia del lavoro altrui, accumula denaro proprio difendendo la cultura del dominio e l’apologia del lavoro, che sono le cause principali di questo squilibrio distributivo di beni e risorse. Il lavoro è l’arma che usa il potere per tenere a bada il popolo.
Le élite si garantiscono privilegi che negano a tutti gli altri lavoratori; chi prova ad alzare la testa o rifiuta di assoggettarsi alla dittatura dello sfiancamento è messo al bando, emarginato, scomunicato, perché la Repubblica è fondata sul lavoro, e chi non lavora — non perché disoccupato, ma perché sceglie di non lavorare, di non piegarsi alla razionalità dispotica del lavorismo — non fa parte della comunità.
Chi si sottrae di proposito alla violenza del lavoro, lo fa per opporsi a una visione che ritiene inumana e intollerabile. Lo fa per sottrarsi ad una violenza che — per dirla con Nietzsche — costituisce la migliore polizia e tiene ciascuno a freno. Ma chi si sottrae alla tirannia del lavoro oltrepassa la razionalità del lavorismo: egli non è quindi un disoccupato, bensì un obiettore del lavoro. Per essere più chiari: in un sistema in cui il diritto all’esistenza è dato unicamente dal lavoro, chi non ha lavoro — ma lo vorrebbe — è un disoccupato. Diversa invece è la condizione di chi quel lavoro non lo cerca e non lo vuole, perché intende superarlo e vive la liberazione dal lavoro nella condizione di non-occupato.
Nella società del lavorismo si può quindi essere disoccupati in due modi: nel primo: la disoccupazione volontaria è la condizione di chi può permettersi di non lavorare sfruttando il lavoro altrui; nel secondo: la disoccupazione è la condizione di chi cerca disperatamente un lavoro ma non lo trova, e quindi viene estromesso dalla vita quotidiana e arranca ai margini della comunità.
Queste condizioni sono entrambe da rigettare. L’uomo deve puntare a superare il lavoro e a sottrarglisi il più possibile. Deve orientare le sue azioni alla liberazione dalla schiavitù della fatica, perché siamo stati fatti per la felicità e la bellezza, non per sfiancarci in abominevoli attività produttive gestite dall’élite.
L’élite che punta a garantirsi i privilegi, ormai esautorata da decisioni politiche prese in altre sedi di potere, è semplicemente concentrata sulla comunicazione (piena di slogan e luoghi comuni che fanno presa su chi non è abituato a pensare). Attraverso quest’ultima, si pone come perennemente impegnata in affari di rilevanza cruciale per la nazione e per il mondo intero. E qui giova avvalersi di quanto Guy Debord affermava della società dello spettacolo: questa ha un unico messaggio, tutto ciò che appare è buono e tutto ciò che è buono appare. E cerchiamo di spiegarci con una frase lapidaria: essere indaffarati è trendy. Vogliamo dire che chi è indaffarato, nella nostra cultura, è percepito e si percepisce come una persona importante.
La sua postura è la seguente: mostrare sincera, ma in realtà falsa, preoccupazione per il ritmo della propria vita, preoccupazione corredata da una altrettanto falsa rassegnazione, come se l’orologio fosse regolato da qualcun altro, e allo stesso tempo sottintendere che sta facendo cose molto importanti. Naturalmente, l’indaffarato, pur denunciando la propria condizione faticosa e triste, tende a non nascondere troppo il vanto che ne scaturisce: un certo modo di essere impegnati è uno status symbol. Induce chi ascolta a fare la seguente considerazione: «si lamenta, ma in fondo la sua vita è piena e interessante; gli impegni sono lì che lo aspettano, non è lui a sceglierseli». Come il play boy: non va in cerca di donne, ma sono loro che lo assediano. Se, poi, chi ascolta non è altrettanto impegnato, se ne sentirà irreversibilmente frustrato. Mentre solo chi è dotato di pensiero critico leggerà nella postura dell’indaffarato la maschera granitica di chi cerca di occultare, anche a se stesso, l’angoscia che lo divora.
Se a ciascun l’interno affanno
si leggesse in fronte scritto,
quanti mai, che invidia fanno,
ci farebbero pietà!
(Pietro Metastasio)
Testo tratto da Lavorare sfianca. Ozio creativo per imparare l’arte del vivere (ED-Enrico Damiani Editore)
Fonte: comune-info.net
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.