di Nicolas Martino
Quando all’inizio degli anni ’90 Paolo Virno sottolineava la centralità del lascito situazionista, ebbe una lungimirante intuizione almeno per due motivi: perché l’Internazionale Situazionista aveva elaborato forme di sovversione all’altezza di quel modo di produrre che si sarebbe affermato dopo il tramonto del paradigma fordista, ovvero quella strategia produttiva piantata sulla preminenza della comunicazione e della cultura che ha investito le società Occidentali a partire dagli anni ’80, e perché aveva preventivamente asfaltato l’ideologia postmodernista che si sarebbe affermata provando a trasformare gli uomini negli zombie raccontanti da Romero, morti viventi resi immobili e impotenti dall’incanto dei fuochi d’artificio, mentre il potere prendeva la mira per farli fuori. Non si poteva fare a meno del lascito situazionista allora, un quarto di secolo fa, e neppure oggi, proprio per i motivi indicati da Virno. Ma se dovessimo giocare al gioco di ciò che è vivo e ciò che è morto dell’avventura situazionista credo che si potrebbero aggiungere alcune precisazioni interessanti, e in questa operazione di precisazione e chiarificazione ci aiuta senz’altro il nuovo libro di Gianfranco Marelli dedicato all’Internazionale Situazionista, Una bibita mescolata alla sete (BFS Edizioni, pp. 128, euro 12.00), che arriva dopo altri due lavori dedicati dal nostro a una delle più radicali avanguardie del secolo.
Lo diciamo subito allora, e ci sembra che lo sottolinei molto bene e giustamente l’autore nelle tre parti del suo libro (dedicate rispettivamente a un’interpretazione critica dell’Internazionale Situazionista, a una ricostruzione puntuale della sua storia, e all’elaborazione di un glossario di concetti chiave): ciò che è morto, ciò che risulta fuori gioco, è quella ideologia del progresso, quella teleologia hegelo-marxista, un portato dell’impianto filosofico dell’Internazionale Situazionista, che portava i suoi membri a riconoscersi nelle magnifiche sorti e progressive, dove in una gara gomito a gomito con il capitalismo la questione era bruciare in velocità l’avversario.
Lo diciamo subito allora, e ci sembra che lo sottolinei molto bene e giustamente l’autore nelle tre parti del suo libro (dedicate rispettivamente a un’interpretazione critica dell’Internazionale Situazionista, a una ricostruzione puntuale della sua storia, e all’elaborazione di un glossario di concetti chiave): ciò che è morto, ciò che risulta fuori gioco, è quella ideologia del progresso, quella teleologia hegelo-marxista, un portato dell’impianto filosofico dell’Internazionale Situazionista, che portava i suoi membri a riconoscersi nelle magnifiche sorti e progressive, dove in una gara gomito a gomito con il capitalismo la questione era bruciare in velocità l’avversario.
Interpretazioni critiche
Questa ideologia del progresso, tipicamente moderna e borghese, come sottolineava Benjamin, ci sembra giustamente e definitivamente esaurita, non però a favore di una altrettanto ideologica fine delle storia come avrebbe voluto la canzonetta postmodernista, quanto a favore di un’idea compiutamente materialista e modernissima del tempo, e pensiamo qui agli scritti sul materialismo aleatorio di Althusser e a quelli di Negri sulla questione del tempo, scritti che bisogna tornare a rileggere se davvero si vogliono costruire una pratica e una teoria del comune all’altezza dei tempi. Insomma ciò che è morto, ancora più esattamente, è quell’ossessione per l’autencità e il disvelamento che ha caratterizzato buona parte della cultura filosofica occidentale, mentre ciò che è vivo, ciò che davvero ci sembra rendere particolarmente attuale l’eredità dell’Internazionale Situazionista, e anche qui il libro di Marelli coglie nel segno, è la questione centrale della felicità: aver cercato cioè, a partire da una critica della vita quotidiana incentrata su una critica delle dimensioni spaziali della metropoli, e delle relazioni che in esse si sviluppano, di far «retrocedere ovunque l’infelicità» (così scriveva Debord nel suo Rapporto sulla costruzione delle situazioni del ’57). E ancora, insisteva Debord, distruggere l’idea borghese della felicità, a favore di una felicità «differente» e autonomamente determinata che non fosse quella della società dello spettacolo, quella dei fuochi d’artificio di cui si diceva all’inizio, ovvero quella società dove il Capitale ha raggiunto un tale grado di accumulazione da divenire immagine. E qui è bene sottolinearlo, a scanso di equivoci a volte ritornanti, che la critica dello spettacolo in Debord non ha nulla a che vedere con una generica critica dei mass media, perché lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma marxianamente, «un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini» (G. Debord, La societé du spectacle, ’67), e quindi quella debordiana è una critica del Capitale.
Passioni sovversive
Sulla questione della felicità si concentra anche Stefano Taccone che in Contro l’infelicità. L’internazionale Situazionista e la sua attualità (ombre corte, pp. 120, euro 10.00) ha raccolto gli interventi di un ciclo di conferenze tenute al BAD Museum di Napoli. Tra questi segnaliamo almeno i saggi di Anselm Jappe sulle radici marxiane di Guy Debord, di Martina Corgnati sulla straordinaria figura di Pinot Gallizio e di Sergio Ghirardi sull’attualità profetica dell’IS. Ed proprio la questione strategica della felicità che ci sembra di particolare importanza in un’epoca in cui il neoliberismo riesce a mettere straordinariamente a valore le passioni tristi, e quindi diventa strategica quella critica della vita quotidiana che si fa critica delle forme di vita, delle relazioni amicali e amorose, di tutte le passioni che contengono una straordinaria potenza sovversiva se sottratte alla cattura e alla valorizzazione neoliberista e rovesciate politicamente sulla superficie del comune. Di quella sete di un’altra felicità riuscì a farsi carico l’Internazionale Situazionista, ma quella stessa sete va oggi organizzata politicamente perché chi ha sete non si accontenti di una bibita a buon mercato ma solo di ottimo vino, come del resto suggeriva anche Edoardo Sanguineti quando in Postkarten scriveva che «il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Emilion». Perché quella che è in gioco è anche una rivoluzione del sensibile. Non c’è rivoluzione possibile se non a partire dalla qualità della vita collettiva e di ciascuno di noi.
Una masnada di cattivi ragazzi
Il secondo motivo di particolare attualità, e anche qui i libri di Marelli e Taccone sono preziosi, ci sembra consistere nella capacità che l’Internazionale Situazionista ha avuto di lavorare sull’immaginario, una lezione tanto più utile oggi quando diventa sempre più decisiva la capacità di suscitare e organizzare un immaginario sovversivo e non pacificato contro ogni retorica della sconfitta e della rassegnazione. Alle avventure di questa masnada di cattivi ragazzi che, insieme a Socialisme ou Barbarie e all’Operaismo, hanno inventato la cultura politica radicale del secondo dopoguerra, è dedicato anche un scritto di Miguel Amorós, Breve storia della sezione italiana dell’Internazionale Situazionista (Stampa Alternativa, pp. 30, euro 1). Una vicenda ancora troppo poco conosciuta quella della sezione italiana, ma che ha seminato nel Belpaese una linea critica che si è incrociata in misura importante con la storia dell’Operaismo, basti pensare al ruolo avuto in questo senso da Gianfranco Faina, il quale probabilmente avrebbe sottoscritto quanto affermava Vaneigem nel suo Trattato del saper vivere del ’67: «Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere ciò che c’è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro si riempiono la bocca di un cadavere».
Questo articolo è uscito su il manifesto il 17.03.2016
Fonte: Euronomade
Originale: http://www.euronomade.info/?p=6970
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