di Andrea Fumagalli
Il dibattito sul reddito di base (basic income) dura oramai da quasi venti anni. È infatti dell’agosto del 1997 la pubblicazione in rete (sul sito ecn.org) di un pamphlet intitolato “Dieci tesi sul reddito di cittadinanza” a cura di chi scrive. In tale testo, che ha avuto subito una fortunata circolazione, soprattutto underground, per essere poi editato nel volume “Tute Bianche”1, si faceva il punto della prima fase del dibattitto sulla proposta di introdurre in Italia un’ipotesi di reddito sganciato dal lavoro, ipotesi che aveva cominciato a circolare negli ambienti neo-operaisti nei due anni precedenti2.
A venti anni di distanza, occorre riconoscere che la definizione “reddito di cittadinanza” ha creato più danni che vantaggi, dal momento che all’epoca, pur essendo agli albori, il fenomeno migratorio non aveva ancora assunto le proporzioni di oggi. Così, colpevolmente, si è usato il termine “cittadinanza” senza pensare che il concetto di “cittadinanza” è tremendamente ambiguo.
Esso infatti può essere utilizzato in un contesto etico-filosofico per designare che ogni essere umano nasce già di per sé “cittadino del mondo”, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza. Ma sempre più oggi, il concetto di cittadinanza ha a che fare con la sfera giuridica-nazionale e quindi con una griglia di diritti limitati allo ius soli, non estendibili a tutti coloro che sono nati altrove. Da questo punto di vista, l’idea di un “reddito di cittadinanza” può essere equivocata come una proposta limitata solo a chi è dotata di quella specifica nazionalità, in contraddizione con quella che è invece la nostra idea di “diritto al reddito”. La dizione “reddito di base” appare quindi più corretta e inclusiva.
Esso infatti può essere utilizzato in un contesto etico-filosofico per designare che ogni essere umano nasce già di per sé “cittadino del mondo”, a prescindere dalla nazionalità di appartenenza. Ma sempre più oggi, il concetto di cittadinanza ha a che fare con la sfera giuridica-nazionale e quindi con una griglia di diritti limitati allo ius soli, non estendibili a tutti coloro che sono nati altrove. Da questo punto di vista, l’idea di un “reddito di cittadinanza” può essere equivocata come una proposta limitata solo a chi è dotata di quella specifica nazionalità, in contraddizione con quella che è invece la nostra idea di “diritto al reddito”. La dizione “reddito di base” appare quindi più corretta e inclusiva.
Sono oramai numerose in Italia come all’estero le proposte di legge, le iniziative politiche e le prese di posizione a sostegno dell’introduzione anche in Italia di una qualche forma di sostegno al reddito a prescindere dalla condizione lavorativa.
E numerose, oltre che differenziate, sono anche le interpretazioni di tale misura. Nel dibattito politico culturale promosso dal Bin-Italia, che da anni si fa promotore di una campagna culturale e politico-sociale in favore dell’introduzione di un reddito minimo garantito (basic income), si sono via via precisati alcuni parametri di definizione, al fine di ridurre la confusione interpretativa che oggi ha raggiunto un livello di guardia tale da rendere poco chiaro cosa significhi effettivamente un “reddito di cittadinanza” o “un reddito minimo” o “un reddito di dignità” (per usare le denominazioni più correnti).
Perché si possa effettivamente parlare di “reddito di base minimo” (usiamo questa espressione in un accezione larga e provvisoria), crediamo che almeno cinque criteri debbano essere verificati:
1. Criterio dell’individualità: il reddito minimo deve essere erogato a livello individuale e non familiare a tutte le persone fisiche. Si potrà poi discutere se anche i minori di anni diciotto potranno averne diritto o no.
2. Criterio della residenza: il reddito minimo deve essere erogato a tutte/i coloro che, risiedendo in un dato territorio, vivono, gioiscono, soffrono e partecipano alla produzione e alla cooperazione sociale a prescindere dalla loro condizione civile, di genere, di etnia, di credo religioso, ecc.
3. Criterio della congruità o della massima incondizionalità possibile: il reddito minimo deve essere erogato riducendo al minimo qualunque forma di contropartita e/obbligo come scelta il più possibile libera dell’individuo.
4. Criterio dell’accesso: il reddito minimo viene erogato nella sua fase di sperimentazione iniziale a tutte/i coloro che dispongono di un reddito inferiore a una determinata soglia. Tale soglia deve comunque essere superiore alla soglia di povertà relativa e convergere verso il livello mediano della distribuzione personale del reddito esistente. Inoltre tale livello di reddito deve essere espresso in termini relativi e non assoluti, in modo tale che all’aumentare della soglia minima (a seguito dell’iniziale introduzione della misura) la platea dei beneficiari possa costantemente aumentare sino ad assurgere a livelli graduali di universalità.
5. Criterio del finanziamento e della trasparenza: le modalità di finanziamento del reddito minimo devono essere sempre enunciate sulla base di studi di sostenibilità economica, specificando dove le risorse vengono reperite in base alla stima del suo costo necessario. Tali risorse devono cadere sulla fiscalità generale e non su altri cespiti di provenienza (come, ad esempio, contributi sociali, alienazione di patrimonio pubblico, proventi da privatizzazioni, ecc.)
I criteri 1, 2, 5 dovrebbero essere non emendabili, mentre i criteri 3 e 4, essendo espressi in modo relativo, possono essere soggetti a ulteriori definizioni a seconda del contesto di riferimento, ma all’interno delle direttive di principio testé delineate.
1. Il reddito di base come reddito primario e quindi incondizionato
Il reddito di base, oggi, è cosa buona e giusta. Le ragioni di tale affermazione prendono spunto dalle forme della composizione sociale del lavoro e dalle modalità di accumulazione e valorizzazione oggi dominanti.
Al riguardo, è necessario proporre un salto culturale prima che politico e affermare che il reddito di base è una variabile distributiva primaria: il reddito di base deve intervenire, infatti, direttamente nella distribuzione del reddito dei fattori produttivi: come il salario, che remunera il tempo di lavoro certificato come tale, o il profitto, che remunera l’attività d’impresa o la rendita, che remunera l’esercizio di un diritto di proprietà. Variabile distributiva primaria significa che non è una variabile redistributiva, nel senso che si materializza solo dopo che si è attuata una distribuzione del reddito sulla base di quelli che sono i rapporti di forza e rapporti sociali esistenti all’interno di un certo processo di accumulazione: una redistribuzione di reddito, che in una fase successiva, è l’esito di un secondo livello di distribuzione indiretta, agita a livello extra mercato e sovra individuale (di solito grazie all’intervento pubblico) tramite politiche economiche discrezionali appropriate.
Se il reddito di base è una variabile remunerativa, occorre chiedersi che cosa remunera. Per rispondere è necessario in primo luogo analizzare quali sono nel capitalismo contemporaneo le principali fonti di valorizzazione. Studi e case studysempre più numerosi ci confermano che oggi è la vita stessa, in ogni manifestazione quotidiana, a essere spesso il fattore produttivo per eccellenza. Se prendiamo in considerazione gli atti di vita quotidiana che caratterizzano la nostra esistenza, essi possono essere catalogati in quattro tipologie: lavoro remunerato, opera, ozio, svago/gioco. Sempre più oggi non è il solo lavoro remunerato (labor) che produce valore ma anche il tempo dell’attività creatrice (opus), il tempo dell’otium, il tempo dello svago a essere inseriti in un meccanismo di valorizzazione crescente e continuo. Le classiche dicotomia del paradigma fordista tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro, tra produzione e consumo, tra produzione e riproduzione sono oggi in parte obsolete. È l’esito di un processo epocale di cambiamento strutturale nei processi di produzione e organizzazione del lavoro, che hanno segnato il passaggio da un capitalismo materiale fordista ad un capitalismo bio-cognitivo finanziarizzato. Oggi la produzione di valore si basa contemporaneamente su forme di estrazione di plusvalore assoluto e di plusvalore relativo, dove per plusvalore assoluto si intende l’esistenza di una sorta di accumulazione originaria – in un’organizzazione capitalistica basata sul rapporto capitale lavoro e sulla proprietà privata quale quella nella quale noi viviamo – che si realizza su un piano estensivo (orizzontale) modificando il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Una parte di quest’ultimo, che nel capitalismo materiale fordista veniva considerato improduttivo (cioè non produttivo di plusvalore e quindi non remunerabile), oggi è diventato produttivo, mentre le forme giuridiche, giuslavoriste, statuali e sindacali di remunerazione sono rimaste ancorate alla remunerazione di stampo fordista. Di conseguenza, assistiamo sempre più al fenomeno che forme di attività, ieri non produttive di valore capitalistico, oggi lo siano diventate ma senza che tale trasformazione sia stata accompagnata anche da un adeguamento delle forme di remunerazione. Di fatto, attività di lavoro oggi produttive non vengono certificate come tale in seguito all’inadeguatezza delle regole concertative sindacali e giuslavoriste.
Non è un caso che il lavoro gratuito – non quello volontario, come oggi spesso si vuol fare credere, ma quello non pagato, come nel caso dell’Expo di Milano – è in forte incremento, a partire da quei settori che maggiormente sono stati investiti dalle trasformazioni dei meccanismi di valorizzazione e dall’adozione del nuovo paradigma tecnologico linguistico-comunicativo (attività cognitvo-relazionali).
A fronte di ciò, la proposta che potrebbe essere avanzata per contrastare tale fenomeno di lavoro non pagato (quindi, formalmente “schiavista”, anche se per i più non viene percepito come tale) è quella di procedere a una sua salarizzazione. Il che renderebbe inutile un reddito di base, se quest’ultimo dovesse essere giustificato come strumento remunerazione di un lavoro che potrebbe essere pagato con un salario o una forma simile.
2. L’indeterminatezza della misura de lavoro
Tale osservazione apre un secondo problema teorico–politico e, allo stesso tempo, metodologico. Quando le trasformazioni tecnologiche e organizzative favoriscono il diffondersi di produzioni sempre più immateriali con un elevato grado di non misurabilità, quando si mettono a valore tutta una serie di attività che sono legate ai processi d’apprendimento, alla riproduzione sociale3 e alle reti di relazione, allora si pone il problema della “misura”.
Il tema della misura è legato al calcolo della produttività del lavoro. A differenza del passato, dove tale calcolo era possibile perché dipendente da un’attività lavorativa che poteva essere misurata in ore di lavoro e da una quantità di produzione altrettanto misurabile su base individuale, oggi la produttività ha cambiato forma: essa tende a dipendere in misura crescente dallo sfruttamento di nuove forme di economie di scala, le econome di apprendimento e di rete (learning e network economies). Si tratta di economie di scala non più statiche ma dinamiche, perché è lo scorrere (continuo) del tempo a consentire una crescita dell’apprendimento e delle capacità relazionali nonché della riproduzione sociale e quindi a incrementare una produttività che dipende sempre più dall’interazione tra individui. Sia l’apprendimento che la relazione e la riproduzione sociale, infatti, necessitano di un contesto sociale, comune e cooperativo, di riferimento. La produttività di cui nel capitalismo bio-cognitivo si parla è quindi in primo luogo produttività sociale e la cooperazione che ne è alla base è cooperazione sociale o, con riferimento al ruolo della conoscenza, general intellect.
Le economie di apprendimento si basano sulla generazione e diffusione della conoscenza. La conoscenza non è una risorsa scarsa, come le merci materiali, ma ha una proprietà fondamentale: più si scambia, più si diffonde, più cresce, più diventa abbondante… e questo mette in moto un meccanismo cumulativo fortemente produttivo… ma questa produttività si può realizzare nel momento stesso in cui la diffusione implica un meccanismo di relazione e socializzazione. Apprendimento e relazione sono due facce della stessa medaglia: se la conoscenza non si diffonde tramite processi relazionali non diviene economicamente produttiva, non rompe i recinti individuali. Solo se sviluppa cooperazione sociale e general intellect diventa produttiva.
Non stiamo parlando di cooperazione nel senso tradizionale del termine, cioè “unire le forze” ma co-operazione, ovvero l’interazione di operazioni individuali che solo nella sinergia comune realizzano processi di accumulazione e quindi di creazione di plusvalore. Si tratta di relazioni di gruppo che spesso nascondono forme di gerarchia e di sfruttamento, il cui valore è difficilmente misurabile, non solo in termini individuali ma anche di gruppo. Se nella fabbrica tradizionale la produttività (che aveva nel cottimo la sua esaltazione), era basata su precisi meccanismi tecnici che permettono di misurare la produttività individuale, nel contesto lavorativo di oggi la produttività della cooperazione sociale non è misurabile in termini di produttività individuale.
Non solo la produttività individuale ma anche lo stesso prodotto della cooperazione sociale non è misurabile. Quando si producono simboli, linguaggi, idee, forme di comunicazione, controllo sociale, che tipo di misurazione possiamo adottare? Salta ogni relazione valoriale tra l’output, il suo tempo di produzione (misurato in orario) e la sua remunerazione (misurata in salario), anche se fittizia e inferiore al valore prodotto
La crisi della teoria del valore-lavoro deriva proprio dal fatto che non solo l’apporto individuale oggi non è misurabile ma anche l’output tende a sfuggire a un’unità di misura, tanto più quanto più la produzione diventa tendenzialmente sempre più immateriale. E ciò avviene in un contesto in cui la misura del valore non è più condizionata da un fattore di scarsità. Come veniva sottolineato in precedenza, l’apprendimento (conoscenza) e le relazioni (spazio) sono fattoti produttivi abbondanti, teoricamente senza limiti (soprattutto se pensiamo allo spazio virtuale), almeno quanto la natura umana. Una teoria del valore fondata sul principio di scarsità, come quella implicita della teoria del libero mercato fondata sulla legge della domanda e dell’offerta, oggi non ha più alcun principio di rilevanza nella realtà economica e sociale. Ma paradossalmente, l’unica teoria dl valore che appare adeguata al capitalismo bio-cognitivo contemporaneo, la teoria del valore-lavoro, – secondo la quale il valore di un bene è commisurato al contenuto di lavoro vivo necessario per produrlo – non è in grado di fornirne una misura.
Come infatti misurare la cooperazione sociale e il general intellect?
È una domanda a cui si può solo ipotizzare qualche risposta. Un possibile aspetto da considerare ha che fare con la sfera della finanziarizzazione. Il ruolo pervasivo e centrale dei mercati finanziari, come strumento di finanziamento degli investimenti, di privatizzazione della welfare sociale e forma di remunerazione parziale del lavoro ad alto contenuto di conoscenza, ha intaccato non solo la sfera della realizzazione ma anche quella della valorizzazione. È infatti nelle plusvalenze finanziarie, attivate dall’attività speculativa, che si può depositare il valore prodotto dal lavoro vivo cognitivo-relazionale. È nella dinamica delle convenzioni finanziarie che si attua il processo di espropriazione della cooperazione sociale e del general intellect.
Tale processo non è immediato e diretto. Spesso è intermediato dalla gestione del biopotere dominante e dalle relazioni gerarchiche che ridefiniscono continuamente gli assetti proprietari e di mercato.
Da questo punto di vista, il reddito di base come quota distributiva diretta (cioè primaria) della ricchezza sociale prodotta acquista ancor di più la sua valenza di riappropriazione diretta della ricchezza che in comune viene generata dal tempo di vita messo al lavoro.
3. L’inadeguatezza della forma salario ai temi del corpo-macchina
L’ordine del discorso fin qui svolto ci porta a dire che la struttura salariale classica non è più adeguata, non coglie le trasformazioni avvenute. La struttura salariale classica può essere ancora utile in quelle parti del ciclo produttivo complessivo in cui esiste una misura del valore lavoro. Ma non rappresenta un terreno distributivo che può essere generalizzabile. Dal punto di vista teorico, tale tematica porta alla necessità di rivedere, ripensare e ridefinire la teoria del valore lavoro di marxiana memoria.
Infatti, dinanzi all’inadeguatezza della forma salariale come indice della remunerazione del lavoro, può essere ragionevole ritenere che un reddito di base (che si aggiunge alle forme salariali di remunerazione dove queste sono misurabili) è un qualcosa di strutturalmente diverso dal salario (anche se potenzialmente, in futuro, convergente): non può essere semplicemente intesa come un’estensione della forma salariale, perché è necessario tener conto conto del cambiamento quantitativo e qualitativo che le nuove tecnologie hanno generato.
In particolare, occorre tenere presente che si è strutturalmente modificato il rapporto tra essere umano e macchina.
Negli anni Sessanta il rapporto tra essere umano (con il suo corpo, i suo nervi, i suoi muscoli, il suo cervello, il suo cuore, il suo eros) e la macchina era un rapporto tra ambiti separati: da un lato, l’essere umano, il lavoro vivo, dall’altro, la macchina, il lavoro morto. Il rapporto tra vita e morte era ben chiaro, materialmente tracciabile. Dal punto di vista umano interiore, la macchina era qualcosa di esterno e di tangibile, separata da sé.
Dagli anni Novanta a oggi, tale separazione non è più così netta. La macchina si trasforma in macchinico e perde parte della sua materialità: gli ingranaggi della macchina taylorista diventano sempre più linguistici e relazionali. La materia definisce l’involucro, la scatola, ma il suo funzionamento dipende sempre meno da un processo di automazione meccanico-rigido e sempre più dalle facoltà cognitivo-relazionale dell’essere umano. L’utilizzo del linguaggio come principale strumento del funzionamento del macchinico modifica il nesso di dipendenza tra essere umano e macchina tipico delle tecnologie tayloristiche. Nelle tecnologie digitali, il dispotismo della macchina viene meno.
Ma tale ibrido tra uomo e macchina che direzione prende? È la macchina che si umanizza o è piuttosto l’essere umano che si macchinizza? Assistiamo al divenire umano della macchina o piuttosto al divenire macchinico dell’uomo?
Consideriamo il web 2.0 e la diffusione recente dei social media. “L’utile delle agenzie di pubblicità, proprio come il profitto di tutte le imprese 2.0 web, dipende quasi interamente dalla capacità di sviluppare tecnologie di controllo. Il controllo sociale viene quindi presentato come l’unico modo per innovare, svilupparsi, in futuro. Ma che cosa viene controllato, esattamente, oggi? Le nostre identità e il modo in cui cambiano”4. Gli algoritmi di profilatura delle tecnologie digitali si nutrono della biodiversità umana la quale si ritrova incanalata e integrata “in uno spazio Panopticon, completamente trasparente, dove siamo chiamati a agire pubblicamente”5.
Il controllo del corpo-macchina diviene oggi (d’intesa con il lavoro gratuito) la nuova frontiera di valorizzazione. Anche se tale attività venisse salarizzata o semplicemente remunerata in altro modo (cosa che non è), la nostra libertà di scelta sarebbe comunque condizionata.
Un reddito di base incondizionato è anche lo strumento non solo per riconoscere che la nostra vita è parte attiva (seppur spesso non cosciente) della valorizzazione contemporanea ma soprattutto per esercitare il diritto alla scelta e all’autodeterminazione individuale e sociale: il diritto di scegliere il proprio destino di attività e partecipazione sociale e anche il diritto di rifiutare condizioni di lavoro “capestro”. E ciò non può essere permesso, pena il rischio di far saltare il fragile equilibrio del controllo sociale e la supina condizione di subalternità. Solo un reddito incondizionato può essere quindi sovversivo e fattore di liberazione comune.
Note
1. A. Fumagalli, M. Lazzarato (a cura di), Tute Bianche, Derive-Approdi, Roma, 1999
2. M. Bascetta, G. Bronzini (a cura di), La democrazia del reddito universale, Manifestolibri, 1997. Il tema di un reddito sganciato dal lavoro, etichettato con il termine salario sociale era già stato patrimonio del dibattito degli anni Settanta a parte dalla formulazione del rifiuto del lavoro (salariato).
3. C. Morini, “Riproduzione sociale” in C. Morini, P. Vignola (a cura di), Piccola Enciclopedia Precaria, Milano X, Milano, 2015
4. Ippolita, Metamorphosis: https://www.facebook.com/events/1517005871962950/
5. Cfr. ibidem.
Questo saggio (titolo originale completo “Il reddito minimo (incondizionato) come reddito primario e non pura assistenza: alcuni elementi per una teoria della sovversione e della libertà”) fa parte di “QR3 – Quaderni per il Reddito”, curato dall’’Associazione BIN Italia e scaricabile gratuitamente qui: raccoglie interventi di Luca Santini, Sandro Gobetti, Elena Monticelli, Luigi Pannarale, Giacomo Pisani, Alberto Guariso, Chiara Tripodina, Stefano Lucarelli, Anna Simone, Tiziana Orrù, Giovanni Orlandini, Giuseppe Bronzini, Roberto Ciccarelli, Giso Amendola, Giulia Ragonese, Marco Bascetta, Milva Pistoni, Cristiana Scoppa, Cristina Morini, Emanuele Murra, Gianmarco Mecozzi, Giuseppe Allegri (per sostenere il lavoro di BIN Italia è nata una campagna su produzionidalbasso.com).
Fonte: comune-info.net
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