di Lia Tagliacozzo
«La bicicletta Bianchi, tipo ’suprema’ numero 971440 di matricola (…) già in possesso dell’ebrea internata Israel Sara è stata consegnata allo Studio Agricolo Commerciale S.A. di Rodi, che ne reclamava la restituzione. La bicicletta in questione era stata acquistata a rate mensili dall’ebrea Israel Sara e non completamente pagata, quindi per il disposto n.10 delle condizioni generali di vendita, la bicicletta in parola non poteva essere venduta né ceduta».
Il sequestro della bicicletta di Sara Israel venne disposto dalle autorità italiane mentre probabilmente lei era ancora prigioniera a Rodi in attesa di essere deportata ad Auschwitz con quello che fu «drammaticamente il convoglio più lontano che giunse ad Auschwitz, e neanche l’ultimo». L’amministrazione italiana a Rodi – come nella penisola – compì un lavoro minuzioso e preciso: non si limitò a censire gli ebrei in quanto persone ma anche i loro beni. E gestirne, tra furti e scomparse, gli averi: tra cui la bicicletta Bianchi di Sara Israel.
A scrivere la vicenda di Sara e della storia di coloro (tra i 1781 e 1846 ebrei rodioti, il numero esatto è ancora ignoto) furono deportati dall’isola nel luglio del 1944, sono Marco Clementi e Eirini Toliou in Gli ultimi ebrei di Rodi. Leggi razziali e deportazioni nel Dodecaneso italiano (1938 -1948), edito da Deriveapprodi (pp. 307, euro 23). Un volume di straordinario interesse ma con un limite significativo: la mancanza di un’introduzione che ne racconti la genesi e ne motivi la precisione della scrittura, la mole delle fonti, e l’apparente discontinuità dell’indice.
Consiste, infatti, nel primo studio sulla vicenda ebraica rodiota durante il fascismo e la seconda guerra mondiale che si avvale del grande archivio «Gruppo carabinieri reali – ufficio centrale speciale», fino a ora impossibile da consultare. Si tratta della dicitura dietro la quale si nascose, dal 1932 fino alla fine della seconda guerra mondiale, l’ufficio politico italiano di pubblica sicurezza. Dallo studio delle carte emerge ora che su una popolazione di centotrentamila abitanti vennero raccolti circa novantamila dossier personali: indicazioni che contribuiscono a modificare sostanzialmente l’immagine della amministrazione italiana del Dodecaneso fino ad ora valutata anche dagli storici con sostanziale bonomia per restituire invece una modalità di controllo delle persone e del territorio tipico di uno stato autoritario.
Nella fretta della dismissione del possedimento in osservanza del trattato di Parigi nel 1947, che concluse per l’Italia la seconda guerra mondiale, rimasero ad Atene anche quegli archivi il cui studio oggi concorre a ridisegnare i confini della storia patria, del ventennio fascista e del ruolo che vi ebbero non solo i carabinieri ma l’amministrazione nel suo complesso.
In questo senso il libro di Clementi e Toliou si inserisce a pieno titolo e con rigore in un nuovo filone della ricerca che indaga i comportamenti degli apparati dello stato e dal quale emerge un’Italia ben più abbietta e meschina di quanto ci piacerebbe pensare, e che concorre a sfatare quel «mito del bravo italiano» che anche parte della riflessione degli storici condivide.
Il volume inizia in realtà ricostruendo la vicenda del Pencho, il battello fluviale che, partito da Bratislava a maggio, naufraga al largo delle coste di Rodi a ottobre del 1940 con il suo carico di ebrei in fuga dalla guerra e dalla persecuzione dopo aver percorso il Danubio per raggiungere illegalmente la Palestina sotto mandato inglese: «I soliti ebrei – come li definisce nelle carte il governatore De Vecchi, triunviro del fascismo, dopo aver disposto l’allontanamento del piroscafo in avaria – vaganti nel Mediterraneo verso la Palestina».
Dopo essere stati internati sull’isola – «il costo mensile a persona che riceveva pane, pasta, riso, legumi, olio e grasso, sapone, ossa, zampe e coda di maiale, legna, olive, verdura e sale era di 26,50 lire» – il gruppo venne condotto nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia in provincia di Cosenza. Una «storia a parte» per coloro che, alla fine, furono tra i primi ebrei a essere liberati in Europa il 14 settembre 1943 dagli angloamericani. Ma le carte dell’archivio dei carabinieri raccontano molte storie individuali e collettive: quelle dei carabinieri che si rifiutarono di giurare fedeltà alla Repubblica sociale italiana voluta da Mussolini e dall’alleato nazista, e di coloro che invece quella fedeltà giurarono.
Di ebrei salvati – importante l’opera svolta dal giovane console turco Selahattin Ulkumen che riuscì a salvare alcune persone «dandogli» la cittadinanza turca – e di quelli uccisi, della dirigenza della comunità ebraica di Rodi che cerca di comportarsi con equilibro in una realtà che non ne ha più. E della storia di quelle figure chiave del governo italiano a Rodi, corresponsabili della deportazione degli ebrei rodioti, che tornarono in Italia a finire le loro carriere.
Porre infatti come limite temporale il 1948 consente di collegare la vicenda non solo al ventennio fascista ma anche alla storia dell’Italia repubblicana e antifascista, lasciando aperti molti punti interrogativi su se e come questa abbia saputo fare i conti con l’eredità lasciatale dalla dittatura fascista e sulla sostanziale continuità istituzionale. Le Sara Israel deportate da Rodi ad Auschwitz sono cinque, tutte decedute: quelli dello studio agricolo commerciale di Rodi si sono tenuti la bicicletta Bianchi.
Fonte: il manifesto
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