di Giuseppe Onufrio
Che in così tanti Paesi abbiano firmato alla prima occasione utile l’accordo di Parigi sul clima è un segno importante. Avviene mentre i segnali dei cambiamenti climatici continuano a essere allarmanti, con un altro record nelle temperature globali registrato appena a febbraio e nuovi dati sullo scioglimento dei ghiacci dalla Groenlandia all’Antartide.
Il recente sbiancamento del 97% osservato nella Grande Barriera Corallina in Australia è un altro fenomeno che non ha precedenti e che è legato al riscaldamento dell’oceano.
Dopo la Conferenza di Parigi, per fortuna, segnali di cambiamento positivo nelle politiche energetiche fanno sperare che davvero un’inversione di rotta sia in atto. Il 90% della nuova potenza elettrica installata nel mondo nel 2015 è stata da rinnovabile secondo l’International Energy Agency e, per il secondo anno consecutivo, le emissioni di CO2 non sono cresciute grazie alla flessione registrata in Cina.
Per uscire dall’era delle fonti fossili serve una grande cooperazione internazionale.
La speranza è dunque che questa firma sia anche l’avvio di una nuova stagione del multilateralismo, di collaborazione economica e tecnologica per forzare i tempi di una rivoluzione energetica indispensabile. Per la quale, ulteriori esplorazioni petrolifere o di risorse fossili rappresentano una contraddizione inaccettabile: per contenere i cambiamenti climatici com’è noto, la gran parte delle riserve che conosciamo deve rimanere dov’è, e cioè sottoterra.
In questi ultimi mesi alcuni segnali importanti sono andati nella direzione giusta: la decisione del governo cinese di chiudere nei prossimi tre anni un migliaio di miniere di carbone per una capacità produttiva di 500 milioni di tonnellate l’anno è stato un segno della serietà della linea di quel Paese che, più di recente, ha sospeso anche la costruzione di ogni nuova centrale a carbone.
L’amministrazione Obama ha lanciato una moratoria sulle miniere di carbone di proprietà pubblica negli Usa che ha rafforzato il segnale globale dato dalle due potenze a tutto il mondo. La scorsa settimana il premier indonesiano Joko Widodo ha annunciato la moratoria sull’espansione delle coltivazioni di olio di palma e dell’apertura di nuove miniere. La produzione di olio di palma è infatti collegata troppo spesso con la deforestazione delle foreste torbiere per la quale, oltre alla distruzione di biodiversità, si brucia la torba su cui cresce, con grandi emissioni di CO2.
Di recente, un rapporto dell’istituto Ecofys ha presentato una nuova analisi del bilancio delle emissioni dell’olio di palma che risultano disastrose: l’«ecodiesel» con il 15% di olio di palma – pubblicizzato in queste settimane da Eni – sulla base di queste nuove stime appare un aggravamento più che una misura di mitigazione favorevole al clima.
Il presidente del consiglio italiano, dopo il fallimento del referendum sulle trivelle, ha lanciato messaggi di pacificazione proprio sui temi energetici e ambientali. Come Greenpeace abbiamo risposto con una lettera aperta: se si vuole cambiare passo sul tema delle rinnovabili (sarebbe ora) per dare consistenza agli obiettivi dichiarati che sono ambiziosi – 50% di rinnovabili nella produzione elettrica entro la legislatura – è il momento di aprire un confronto concreto con i diversi portatori di interesse. I 13 milioni e trecentomila sì non avranno raggiunto il quorum ma hanno lanciato un messaggio – al di là della limitatezza del quesito referendario – su che ha evidentemente a che fare con la firma di New York.
E’ indispensabile una grande trasformazione e il nostro Paese può giocare un ruolo.
Il cambio di rotta annunciato va fatto seguire da decisioni anche a breve – dalle misure per facilitare il rinnovo del parco eolico a quelle per favorire e non bloccare l’autoproduzione da rinnovabili, alla revisione dello spalma-incentivi. Ma occorre fare di più: serve una vera strategia energetica che progetti la decarbonizzazione per i prossimi 30 anni, abbandonando quella assemblata da Passera e Monti basata sull’idea di «hub del gas»: efficienza e rinnovabili, mobilità sostenibile e economia circolare vanno messe al centro del progetto con cui l’Italia può contribuire alla difesa del clima e allo stesso tempo costruire l’economia per il futuro.
Fonte: il manifesto
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