di Massimo Villone
I have a dream. Nel suo più famoso discorso, il 28 agosto 1963, Martin Luther King chiamava alle armi – della democrazia, beninteso – un popolo affamato di libertà, eguaglianza, diritti. Oltre cinquanta anni più tardi, quel discorso tuttora ci insegna che la battaglia non ha mai fine.
Anche noi abbiamo un sogno. Anzitutto, di un paese in cui la politica non sia fatta di ipocrisia, di menzogna, o di quarti di verità. Come è il caso con Renzi, che si compiace in Tv di aver affondato il referendum del 17 aprile per difendere i posti di lavoro. Dimenticando che la chiusura delle piattaforme non sarebbe venuta dal voto, ma dalla scadenza, prevista ab initio, delle concessioni. Dimenticando che posti in numero ben maggiore sono già stati – e probabilmente ancora saranno – persi per le incertezze della strategia governativa sulle rinnovabili. Dimenticando che la proroga sine die favorisce il petroliere che voglia mantenere artificiosamente in vita una piattaforma solo per evitare i costi di smantellamento e di ripristino dei luoghi.
Dimenticando che il contributo di quelle piattaforme alla bilancia energetica è modesto, e recuperabile accelerando sulle rinnovabili.
Dimenticando che il contributo di quelle piattaforme alla bilancia energetica è modesto, e recuperabile accelerando sulle rinnovabili.
Soprattutto colpisce che il posto di lavoro diventi stella polare per chi ha posto a fondamento della propria politica la marginalizzazione del sindacato, cui – piaccia o non piaccia – la difesa del lavoratore e dei suoi diritti rimane primariamente affidata. E che sia demenziale vedere nelle stanze di palazzo Chigi il garante del lavoro lo prova il Jobs Act. L’ispirazione di fondo sostanzialmente è: meno diritti per tutti. Indubbiamente, una formula che mira all’eguaglianza, ma al ribasso. E le cifre ormai tendono a dimostrare che non il regime giuridico legislativo, ma la droga degli incentivi ha determinato una costosa, quanto prevedibilmente effimera, bolla nell’incremento dei rapporti a tempo indeterminato. Se non si esce rapidamente dalla crisi non è improbabile che si alzi l’onda di una nuova precarietà di massa.
Per questo è bene che siano scesi in campo i metalmeccanici, in forze e in modo unitario. Al di fuori delle ipocrisie di una falsa modernità, la posta è chiara: il contratto nazionale, che si vuole rendere subalterno e marginale rispetto a quello aziendale. Il tema è centrale e richiede una parola altrettanto chiara: per questa via non c’è modo, in una prospettiva di periodo non breve e in termini generali, di garantire al meglio i diritti del lavoratore. Il contratto nazionale non è volto a mantenere la superfetazione di un inutile livello di burocrazia sindacale. È invece necessario per affiancare al lavoratore in azienda la forza di tutto il movimento organizzato. Una forza che diversamente non potrebbe mai avere, e che può essere l’unica vera difesa nei tempi difficili.
Nel paese che sogniamo il rispetto e il riconoscimento reciproci della parte sindacale e di quella datoriale porterebbe a soluzioni equilibrate senza battaglie campali. Nel paese reale il tentativo di depotenziare il contratto nazionale è in atto. Ed è bene che il sindacato comprenda che l’atteggiamento filo-concertativo non serve laddove la concertazione viene rifiutata, a partire dai palazzi del potere che dovrebbero rappresentare tutti, ma che dichiaratamente vedono il futuro nei padroni, piuttosto che nei lavoratori. Gli amorosi sensi tra Renzi e Marchionne significheranno pure qualcosa. E allora un equilibrio tra le parti si ritrova solo se si ha la forza di imporlo, se necessario con lo sciopero e nelle piazze.
Un discorso analogo possiamo fare per le riforme istituzionali renziane. Già è chiara la strategia comunicativa: le riforme tendono a un paese più semplice, in cui si tagliano i costi della politica mandando a casa una truppa di inutili senatori, in cui chi vince governa con decisioni rapide e poi risponde agli elettori a fine mandato.
Peccato che non sia così. Perché il procedimento legislativo diventa assai più complicato e farraginoso di prima; perché comunque lunghi tempi di decisione vengono tipicamente da malesseri politici, prima che da procedure formali; perché si attacca la rappresentanza politica, chiudendo al paese – in un contesto di azzeramento o di marginalizzazione dei corpi intermedi come partiti e sindacati – la porta delle istituzioni; perché i risparmi sono irrisori, e ben maggiori potrebbero essere con soluzioni meno lesive della rappresentanza; perché si concentra il potere in capo all’esecutivo, e si indebolisce il sistema di checks and balances; perché alla fine è in gioco non la parte II della Costituzione, con i profili organizzativi che ne sono oggetto, ma la parte I, con i diritti di tutti noi. Tutto questo si nega, si tace, si occulta.
Nel paese che sogniamo un pacato confronto riporterebbe la discussione sui binari giusti. Nel paese reale, bisognerà chiamare alle armi il popolo che vuole essere sovrano, perché con i voti referendari che si avvicinano – quello costituzionale in ottobre, quelli abrogativi sui referendum sociali e sull’Italicum nel 2017 – alzi un argine. Renzi e il governo ci hanno detto quello che pensano e vogliono. Mattarella ha chiarito che non intende interferire. Spetta a noi, donne e uomini di questo paese, scendere in campo per trarre dal sogno il paese che vogliamo. Oggi con la raccolta delle firme, domani con il voto.
Fonte: il manifesto
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