di Antonio Pio Lancellotti
«In quel momento Marta sentì dentro di sè come il rumore di qualcosa che si rompeva, come il crollo di una diga, lo schianto di un pezzo di ghiacciaio che precipita in mare e si scioglie. E sfogò così finalmente tra le braccia di quella sconosciuta tutto il dolore e la frustrazione, la fatica e la solitudine accumulati in quei mesi strani e complicati». La voce narrante è quella della grande Laura Morante. Le lacrime sono di Marta, alias Isabella Ragonese, una giovane laureata con lode in Filosofia che per sbarcare il lunario inizia a lavorare presso il call center della Multiple Italia, una ditta che commercializza un elettrodomestico polifunzionale. Il film è “Tutta la vita davanti”, diretto da Paolo Virzì ormai otto anni or sono, che rappresenta uno degli spaccati più realistici della società contemporanea. Una società non ancora pienamente investita dalla crisi, ma che già stava maturando il dramma sociale di una generazione, la cui maggior età è stata salutata con il Pacchetto Treu, cresciuta in quell’intercapedine temporale che sanciva la fine della cosiddetta “società industriale” e la piena affermazione di un modello socio-economico egemonizzato dalla produzione immateriale e biopolitica.
Un ultima annotazione: il film in questione è liberamente tratto da “Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria”, romanzo auto-biografico di Michela Murgia. La stessa scrittrice che alcuni giorni fa ha commentato su Repubblica con arguzia ed irriverenza la dichiarazione del presidente dell’Inps Tito Boeri rispetto al fatto che un’intera classe di età, quella dei nati nel 1980, rischia di accedere all’età pensionabile più o meno a 75 anni. Parafrasando l’autrice sarda, concordiamo pienamente sul fatto che sia assolutamente sbagliato intendere in maniera neutra il concetto di “generazione perduta”, citata da Boeri, ma bisognerebbe parlare di “generazione depredata” da una classe politica (e sindacale) che ha sacrificato milioni di intelligenze, idee e potenzialità all’avidità ed agli interessi delle élite economiche.
C’è sempre stata una linea di demarcazione, sottile ma netta, che ha sempre separato i concetti di flessibilità e precarietà. Una linea che si irrobustisce se allude al campo delle responsabilità politiche tra chi ha condotto il nostro Paese nella “modernità”, riformando a più riprese il mercato del lavoro, e chi invece ha dovuto subire le scelte dei politici, ed in generale della governance neoliberale, che hanno imposto a milioni di persone condizioni di lavoro e di vita decisamente peggiori di quelle dei loro genitori. Affetti, amori, relazioni, saperi, tempo libero. Da una parte della linea la precarietà si è mangiata tutto, inghiottendo sogni ed ambizioni di tanti e tante che hanno visto nel tempo ridursi sempre di più diritti, tutele, servizi e, soprattutto, i soldi nel portafogli.
Suona un po’ come una beffa il fatto che un problema che vive e si articola nella quotidianità diventi “questione sociale” solo in seguito ad esternazioni eclatanti. Una questione che non ha mai superato lo steccato dell’opinionismo “a chiamata” o “di facciata” e che non è mai riuscita a trasformarsi in tema di dibattito ed intervento politico.
Rispetto alla questione previdenziale il problema non è solamente statistico. Già le simulazioni Inps fatte alla fine dello scorso anno avevano registrato che chi è nato nel 1980, qualora dovesse andare in pensione nel 2050, riscuoterebbe mediamente 1.593 euro di pensione, a fronte dei 1.703 euro percepiti oggi da chi è nato nel 1945. Al di là del mero calcolo fatto da Boeri, che andrebbe inquadrato quantomeno in una prospettiva generazionale ed esteso ai nati tra la fine degli anni ’70 e gli inizi del decennio successivo, la logica nuda dei fatti rende evidente che tante di queste persone hanno biografie che non consentiranno loro neppure di accedervi alle tutele previdenziali. Bisogna uscire inoltre dalla logica del “buco nero” e della generazione anomala. I nati tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli ’80 sono i primi, ma non gli unici a toccare con mano la precarietà come vera e propria forma di vita, che agisce nella complessità del tessuto esistenziale di una persona. Le ultime riforme del lavoro, in Italia come nel resto d’Europa, oltre ad istituzionalizzare la precarietà, l’hanno estesa a tutto il corpo sociale. La conseguenza è che, a qualsiasi età e status professionale ci si trova imbrigliati in una morsa in cui sfruttamento e ricatto, diminuzioni salariali, lavoro intermittente, sottrazione di diritti ed assenza di tutele e garanzie economiche si combinano in un cocktail sociale che travolge lo stesso sistema previdenziale.
E’ chiaro che oggi si avvertono in tutta la loro drammaticità le conseguenze sociali di una serie di precise scelte politiche fatte nell’ultimo ventennio, di cui si sono resi protagonisti sia governi di centro-destra che di centro-sinistra. In particolare gli anni della crisi e dell’austerity hanno reso palese come le istituzioni europee ed i governi statali siano stati lo strumento in mano alla governance neo-liberale per sbilanciare completamente il rapporto capitale-vita a favore del primo fattore. La normazione del sistema del pagamento delle prestazioni lavorative attraverso i voucher, che nasce dalla cosiddetta “economia sommersa” e che il governo farà diventare legge entro la fine di giugno, e l’ingresso a pieno titolo del lavoro gratuito e volontario all’interno delle relazioni produttive formalizzate, rappresentano solo l’ultimo tassello di questo mosaico.
In Italia la relazione tra l’attuale sistema pensionistico italiano e le ultime riforme del lavoro è uno degli esempi di queste scelte. Riprendendo alcuni spunti di Angelo Marano sulle pagine del Manifesto di circa un anno fa[1], le modifiche introdotte dal Jobs Act, che rendono più flessibili i rapporti di lavoro e più precario l’accesso continuativo al reddito per milioni di persone, aprono una contraddizione ancora più grande rispetto ad un sistema previdenziale completamente incentrato su un modello di alte aliquote contributive, che presuppongono una storia lavorativa duratura ed interrotta. Questa strozzatura diventa organica nel momento in cui mancano in Italia i presupposti per qualsiasi introduzione di forme remunerative stabili che vadano al di là della prestazione lavorativa.
Sappiamo che se si vuole garantire a milioni di persone un presente dignitoso ed un futuro con delle garanzie previdenziali non possiamo esimerci dal prendere una strada che combini i seguenti elementi. Da un lato bisognerebbe riformare il sistema pensionistico attraverso una fiscalità realmente redistributiva che dia la possibilità di creare una sorta di “cassa contributiva solidale”. Un metodo di certo non risolutivo, ma che darebbe la possibilità a quanti sono tagliati fuori dalle tutele previdenziali di accedervi in minima parte. In secondo luogo è necessario introdurre nel nostro sistema legislativo un reddito di cittadinanza, che rappresenta l’unico reale antidoto alla precarietà ed all’impoverimento di massa.
Sappiamo anche che tutto questo con la consapevolezza che è impensabile prefigurarsi regali o una legiferazione ottriata da parte della politica di palazzo su questi temi in mancanza di spinte sociali e politiche che vengano dal basso. Lo sappiamo e sappiamo che dobbiamo lottare per ottenere conquiste. Sembra la scoperta dell’acqua calda, ma è realmente l’unica cosa che davvero può riempire “tutta la vita davanti”.
[1] A. Marano, Il Jobs Act azzera le pensioni, Il Manifesto, 30 aprile 2015 (riproposto su facciamo sinistra! nell'edizione di oggi, ndb)
Fonte: Global Project
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