di Andrea Fabozzi
Come il poeta, i cinquantasei giuristi che hanno firmato un nuovo appello sulla riforma costituzionale sanno ciò che non sono e ciò che non vogliono. «Non siamo fra coloro che indicano questa riforma come l’anticamera di uno stravolgimento totale dei principi della nostra Costituzione e di una sorta di nuovo autoritarismo», scrivono, prendendo immediatamente le distanze dai colleghi costituzionalisti confluiti nel comitato del No al referendum sulla riforma. Ma subito dopo aggiungo di non volerla neanche loro, la legge Renzi-Boschi che può cambiare oltre un terzo della Costituzione. La considerano «una potenziale fonte di nuove disfunzioni del sistema istituzionale» nonché di «appannamento di alcuni dei criteri portanti dell’impianto e dello spirito della Costituzione».
«Appannamento» non è «stravolgimento», ma quel che conta è che questo appello «moderato» è un altro appello per il No al referendum, firmato da giuristi tra i più autorevoli. Undici ex presidenti della Corte costituzionale e cinque ex vicepresidenti. Tra loro professori di chiara fama come Amirante, Casavola, De Siervo, Flick e i promotori dell’iniziativa, Valerio Onida ed Enzo Cheli. Con loro anche Dogliani, Lanchester e D’Andrea. Ma soprattutto tre costituzionalisti che sono a pieno titolo nel comitato per il No al referendum costituzionale, autore di appelli anche più netti contro la riforma: Lorenza Carlassare, Paolo Maddalena e Gustavo Zagrebelsky che del comitato è presidente onorario.
E così la notizia è accolta assai bene tra chi in questi giorni sta cominciando a raccogliere le firme perché siano anche i cittadini a chiedere il referendum sulla legge di revisione costituzionale, con ragionamenti del tipo «marciamo divisi per colpire uniti». L’appello «Onida-Cheli» è infatti modulato su toni dialoganti. Ma in definitiva le «previsioni normative che meritano di essere guardate con favore» che si sforza di rintracciare nella legge Renzi-Boschi sono poca cosa: «La restrizione del potere del governo di adottare decreti legge», che però non è altro che la trasposizione di quanto già previsto dalla legge dell’88 sulla presidenza del Consiglio. E il controllo preventivo di costituzionalità delle leggi elettorali che però – devono aggiungere i giuristi «moderati» – «in alcuni di noi suscita perplessità».
Di ben altro tenore le critiche. Critiche al modo in cui la legge è stata approvata, a colpi di «maggioranza peraltro variabile e ondeggiante» e come «una legge qualsiasi … espressione di un indirizzo di governo». E al merito, visto che il superamento del bicameralismo «è stato perseguito in modo incoerente e sbagliato», e che le regioni sono ridimensionate al rango di «organismi privi di reale autonomia». Circostanza che non fa che riprodurre i «rischi di incertezza e conflitti» con lo stato centrale. Ma soprattutto il nuovo appello batte sull’identico tasto fin qui battuto dal comitato del No al referendum (cui non a caso si affianca un comitato del Sì che raccoglie le firme per abrogare la legge elettorale): il nuovo senato «estremamente indebolito» e la nuova camera eletta con l’Italicum «a forte effetto maggioritario» messi insieme possono portare gli «organi di garanzia» come il presidente della Repubblica e il Csm «nella sfera di influenza dominante del governo». Che tutto questo «appanni» o «stravolga» i principi fondamentali della Costituzione, in fondo, è questione di sfumature.
Quello che conta è il «peso specifico» del nuovo elenco di costituzionalisti contrari alla riforma. Che si aggiungono ai tanti del comitato del no (Pace, Rodotà, Ferrara, Azzariti, Rescigno, Villone, Volpi, Bilancia e De Fiores). Per Renzi e Boschi impegnati ad arruolare i comitati del Sì – mercoledì la ministra presenterà la riforma con l’ex presidente della Consulta Cassese e il giudice in carica Amato – sarà difficile, impossibile bilanciare il piatto.
Fonte: il manifesto
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