di Angelo Marano
Negli ultimi anni gli aggiornamenti delle previsioni dei livelli futuri delle prestazioni pensionistiche hanno suscitato meno clamore del solito perché non mostrano più l’enorme crollo delle pensioni dei prossimi decenni che evidenziavano in precedenza. La riforma Fornero non solo ha aumentato fortemente l’età di pensionamento, ma ha stabilito che essa aumenti in parallelo con la speranza di vita. Si è dunque deciso, nelle previsioni delle pensioni future, di aumentare anche la lunghezza della carriera lavorativa considerata: per concludere che le pensioni non cadranno più di tanto in futuro, si confrontano i livelli pensionistici di uno che va in pensione oggi a 65 anni con 40 anni di lavoro e che vivrà verosimilmente ancora per una ventina d’anni con quelli di cui godrà qualcuno che nel 2050 andrà in pensione a 70 anni, avendone lavorati 45 e che avrà una uguale residua speranza di vita al pensionamento di venti anni.
Se questi sono i parametri di riferimento per il sistema pensionistico, bisogna chiedersi se vi sia coerenza col modello delineato dal Jobs Act e, in caso di incoerenza, cosa sarebbe necessario fare per cercare di eliminarla, almeno parzialmente e quale possa essere un modello di riferimento, se non radicalmente alternativo, almeno in parte più virtuoso.
Innanzitutto, è evidente che il nostro sistema pensionistico, basato sul sistema contributivo (ti restituisco come pensione i contributi che hai versato, rivalutati al tasso di crescita del Pil, divisi per la speranza di vita al momento del pensionamento) presuppone, per funzionare, aliquote contributive elevate (attorno al corrente 33%) e una lunga e ininterrotta storia lavorativa/contributiva del lavoratore. In sostanza: una situazione dove la disoccupazione è scarsa o nulla e i lavoratori mantengono sempre il proprio posto di lavoro ovvero, se lo perdono, riescono a trovarne un altro in tempi brevi.
Non è lo scenario attuale del mercato del lavoro, né quello prefigurato dal Jobs Act, che anzi ha i suoi capisaldi nella flessibilità dell’impiego con alternanza fra lavori diversi intervallati da periodi di disoccupazione e nel contenimento del costo del lavoro. Nel mondo prefigurato dal Jobs Act livelli di aliquote contributive elevati come quelli attuali non saranno sostenibili ancora a lungo e il passo logico successivo sarà minare ulteriormente le prospettive pensionistiche dei lavoratori.
Vi è inoltre contraddizione fra un atto che si riproporrebbe di creare occupazione innanzitutto in ingresso e una riforma pensionistica che ha imposto ai lavoratori più vecchi di rimanere al lavoro per tre, quattro anni in più, azzerando il turnover nelle imprese, ovvero costringendole a mantenere i lavoratori anziani e a non assumere i giovani. Il Jobs Act non affronta la contraddizione, accentua e generalizza la precarizzazione degli stessi lavoratori giovani e dei segmenti più deboli e aumenta la segmentazione del mercato del lavoro.
I problemi di contraddizione fra sistema pensionistico contributivo e frammentarietà della carriera lavorativa potrebbero essere risolti solo con un’enorme e dispendiosissima iniezione di contributi pubblici e ammortizzatori sociali. Il pubblico dovrebbe coprire non solo gli sgravi contributivi che sarebbe costretto a garantire sistematicamente nei segmenti ora resi ancora più deboli del mercato del lavoro, ma anche un’adeguata contribuzione figurativa per tutti i periodi di non lavoro, che andrebbero ulteriormente a crescere, oltre che per i periodi di studio. Il tutto pur solo guardando al futuro pensionistico, perché a tali somme dovrebbero aggiungersi quelle necessarie ad una generalizzazione vera di tutte quelle tutele contro la disoccupazione, ora limitate ad una parte dei dipendenti privati e ciononostante insufficientemente finanziate dal governo.
Un mercato del lavoro fluido e precarizzato con una spesa in ammortizzatori sociali del 5-6% del Pil al posto dell’1,5% attuale sarebbe forse digeribile, ma appunto se il governo fosse disposto a mettere cinquanta, sessanta miliardi l’anno in più sugli ammortizzatori. In realtà, dietro le dichiarazioni di facciata, sta la volontà di fare una riforma degli ammortizzatori sociali a costo zero, solo riallocando le risorse ora destinate ai vari interventi. Di fatto, meno diritti per tutti e costruzione di una qualche minima garanzia per alcuni lavoratori a spese di altri.
Tutto ciò avviene mentre l’incapacità del mercato e la rinuncia dello stato a indirizzare attivamente il sistema produttivo trasformano il successo tecnologico in un incubo per moltissimi. La tecnologia e le macchine, alla fin fine, permettono all’uomo di assicurarsi beni in quantità sempre maggiore e di migliore qualità, liberandosi al tempo stesso della fatica del lavoro. Ciò potrebbe migliorare la qualità della vita e del lavoro e aumentare il tempo libero il che dovrebbe essere il fine ultimo del progresso. Invece, nella logica del Jobs Act, così come della riforma pensionistica, il lavoro è fondamentalmente quantità di lavoro, da aumentare il più possibile, a prescindere dalla qualità, dalla sicurezza, dalle possibilità tecniche. Laddove la tecnologia permetterebbe un nuovo umanesimo che liberi effettivamente l’uomo dal bisogno e ne arricchisca di contenuti la vita, la scelta è invece quella di tornare al lavoro bruto, di fatica, merce che l’impresa acquista a suo piacimento sul mercato: un lavoro matto e disperatissimo, parte di un sistema di regolazione, che, non a caso, fa convivere lavoro sempre più stressato e intensivo con disoccupazione di massa, anche di persone qualificate. Da tale contesto si può uscire solo in due modi: moltiplicando ulteriormente la produzione e il consumo di beni, con le pessime conseguenze che tutto ciò avrebbe su stili di vita e ambiente; oppure, ed è l’unica strada che potrebbe riportare a coerenza tecnologia, mercato del lavoro e welfare, con una redistribuzione del lavoro mediante la diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro.
Fonte: il manifesto
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