di Tiziano Rinaldini
I tre referendum promossi dalla CGIL intervengono su alcune questioni connesse a regole e diritti che riguardano il lavoro sul piano generale. Sono questioni cioè che sul loro specifico attraversano orizzontalmente il lavoro, in tutte le attività lavorative, in quelle del manifatturiero, del terziario e dei servizi, nuove e più tradizionali, “alte” e “basse”, manuali e cognitive.
Il fatto che la CGIL metta in campo lo strumento referendario significa che l’iniziativa per affermare specifici obiettivi di rafforzamento della solidarietà nel mondo del lavoro e della possibilità da parte dei lavoratori di farsi valere non è affidata esclusivamente all’azione contrattuale fra le parti sociali o a pressioni affinché le richieste siano assunte dalle forze politiche istituzionali e realizzate dal governo e dal parlamento.
Viene infatti chiamata a decidere direttamente la società civile attraverso la campagna di raccolta delle firme ed il voto referendario su specifiche questioni che attengono a regole, diritti e criteri di esercizio del lavoro, per cancellare norme che contribuiscono a rendere i lavoratori e le lavoratrici (già in una situazione resa estremamente difficile dai processi degli ultimi decenni) divisi fra di loro ed ancora più deboli.
Il merito su cui si applicano i quesiti referendari non è equivocabile.
Si può ritenere che restino fuori altri punti che meritavano di andare a referendum, ma è evidente che i quesiti posti colpiscono frontalmente alcune delle scelte più rilevanti e significative assunte dai governi in questi anni, su cui si è sempre più caratterizzato lo stesso governo Renzi con il cosiddetto Job-act.
E’ una valutazione che possiamo verificare in una rapida elencazione.
Un quesito propone la cancellazione delle norme introdotte (dal governo Monti e dal ministro Fornero e confermate e rafforzate dal ministro Poletti e dal governo Renzi) che rendono possibile il licenziamento senza giusta causa; viene reintrodotto il diritto al reintegro estendendolo anche alle imprese più piccole.
La possibilità di licenziamento senza giusta causa è già stata utilizzata in svariate occasioni oltre che avere in quanto tale un effetto di oggettivo ricatto e intimidazione.
Un altro quesito propone di eliminare quelle norme che, ancora con le recenti scelte del governo, confermano e per certi aspetti rafforzano la possibilità che attraverso l’appalto vengano di fatto scaricate sui lavoratori e sulle lavoratrici inaccettabili condizioni di sfruttamento e di pseudo legalità, quando non di vera e propria illegalità.
Infine un altro quesito propone l’abrogazione del cosiddetto lavoro accessorio, è cioè ciò che ha consentito con i Voucher la scandalosa estensione del buono lavoro, di un lavoro privo di copertura contrattuale, del lavoro da acquistare in tabaccheria. Il quesito è nel contempo mirato ad impedire che di fronte all’imbarazzante estensione dei Voucher si pensi di provvedere con correzioni e modifiche confermative.
Questa sintetica elencazione conferma quindi che i tre referendum mettono apertamente in discussione, in una logica chiaramente abrogativa e non emendativa, alcuni tra i più significativi interventi con cui il governo sul piano del lavoro a livello generale, della sua svalorizzazione e cancellazione di diritti ha rafforzato e supportato la tendenza dei processi di trasformazione degli ultimi decenni e l’ideologia che li ha accompagnati.
Mi riferisco alla negazione che il mondo del lavoro i lavoratori e le lavoratrici nel loro insieme possano avere una propria autonoma identità da affermarsi e fare valere in modo distinto (e non sussidiario) rispetto a quella imprenditoriale di mercato.
Mi riferisco a interventi che sospingono i lavoratori e le lavoratrici sempre più obbligati in recinti chiusi di identificazione con la propria impresa, in concorrenza gli uni con gli altri, sino alla stessa aziendalizzazione delle risposte da ricercare sui problemi sociali in alternativa all’indebolimento dello stato sociale e della copertura pubblica (come negli Stati Uniti senza essere gli Stati Uniti).
Vanno chiaramente in questa direzione lo svuotamento del diritto del lavoro e dello Statuto e l’utilizzo della leva fiscale e della detassazione per premiare tutto ciò che è conforme alla deriva aziendalistica e punire tutto ciò che la contraddice, con un entrata a gamba tesa sull’autonomia della contrattazione collettiva.
Nella scelta referendaria della CGIL c’è il segno del disagio e della reazione di una parte del sindacato di fronte ad un processo che con il sostegno del governo chiude da un lato in una gabbia la possibilità dei lavoratori di esercitare azione collettiva e dall’altro riduce il ruolo del sindacato ad operare affinché non sia possibile uscire dalla gabbia.
L’indebolimento quantitativo e qualitativo della contrattazione collettiva, che registra arretramenti ben più che avanzamenti, e che, quando consentita, viene spinta su basi e contenuti aziendalistici sospinta e indotta da un quadro di coerente e mirato sostegno delle iniziative politiche e legislative (caduta dei diritti, utilizzo nella leva fiscale e arretramento del ruolo pubblico di copertura sociale universalistica) ha prodotto una profonda crisi di credibilità della possibilità di tenere concretamente in campo una relazione credibile tra i contenuti (per non parlare poi dei risultati) dell’azione sindacale e idee di solidarietà e giustizia sociale, eguaglianza, nel mondo del lavoro.
La crisi di fiducia sulla possibilità di praticare nel lavoro e sul lavoro idee di giustizia sociale e solidarietà con cui tentare di affrontare i problemi della propria condizione (precaria) investe gli stessi lavoratori e li induce a cercare o piuttosto ad accettare risposte adattive di stampo aziendalistico e corporativo; in definitiva ognuno viene indotto a cavarsela il meglio possibile per conto suo.
Tutto ciò colpisce pesantemente ruolo e rilevanza del sindacato ed in modo particolare la CGIL che non sarebbe mai esistita senza un’idea generale di solidarietà degli interessi solidaristici del mondo del lavoro da rappresentare e da praticare concretamente o almeno sperando di poter praticare , non lasciando il lavoratore in condizioni di solitudine.
Senza tener presente questa situazione non si capisce la scelta referendaria della CGIL, le ragioni su cui si fonda e l’importanza che assume di fatto al di là della stessa dimensione sindacale.
Il sindacato si trova stretto nella morsa tra l’indebolimento della contrattazione collettiva e l’azione del governo, chiaramente impermeabile alle ragioni del sindacato e proteso al perseguimento di un modello americano di relazioni sociali, modello che tra l’altro da tempo presenta sempre più evidenti segni di crisi, anche del sindacato che lo interpretavanegli Stati Uniti.
Pare evidente che è arduo prevedere a breve modifiche di questo quadro nelle caratteristiche di fondo prima indicate se non intervengono dall’esterno fatti che impongano novità, che perlomeno lo rimettano in discussione, riaprano spazi per la difesa dei diritti nel e sul lavoro e credibilità per una reale contrattazione collettiva a tutti i livelli (articolato e generale).
Senza che questo avvenga, lo scorrere del tempo struttura e consolida sempre di più gli effetti della situazione prima descritta e la caduta di fiducia tra i lavoratori e le lavoratrici sull’organizzarsi e lottare per idee di giustizia sociale e solidarietà.
E’ urgente misurarsi e rischiare risposte.
La scelta referendaria della CGIL si misura con questo problema, non accetta di dichiararsi impotente e per le caratteristiche dello strumento referendario chiama in causa la società civile per intervenire direttamente su questioni generali di diritti e di difesa del mondo del lavoro ispirate da idee di giustizia sociale e solidarietà.
Ovviamente ciò non significa la rinuncia allo strumento della contrattazione collettiva e all’azione nei confronti del governo, ma semmai dovrebbe concorrere a rafforzare il tentativo di praticarla anche in questa fase e a contrastarne la riduzione aziendalistica (spesso equivocata come contrattazione articolata).
La scelta della CGIL non credo sia stata semplice e tanto meno scontata; non a caso ha trovato pesanti resistenze e vere e proprie opposizioni interne, che rischiano di determinare un indebolimento nell’azione a sostegno della scelta, a partire da un rapporto con i lavoratori in grado di farli sentire protagonisti.
Forte è ancora l’idea di una sostanziale dipendenza del sindacato dalle dinamiche politico partitiche e quindi la convinzione che al sindacato convenga limitarsi di fatto a restare in attesa di improbabili effettive e positive future modifiche politiche ed economiche.
E’ invece semmai la scelta referendaria che, mettendo in campo un ruolo attivo del sindacato, può favorire un riorientamento sul lavoro rispetto alla deriva politica e culturale che si è affermata in questi anni e alle dinamiche che ne sono conseguite.
Comunque sia infatti la campagna referendaria spinge la stessa organizzazione sindacale a recuperare ruolo e identità nel rapporto con i lavoratori e con il paese, ed è un’occasione per crescere in fiducia e consapevolezza insieme ai lavoratori e alle lavoratrici.
Nel contempo la scelta della CGIL di fatto per come si presenta (mettendo al centro la questione lavoro, giustizia sociale, solidarietà) spinge (costringe) le dinamiche politiche e culturali in corso a fare i conti con la distanza e la lontananza che si è determinata con il sentire dei lavoratori e delle lavoratrici, indotti oggi sempre più a ritenerle ininfluenti rispetto alla loro concreta condizione.
Le stesse varie campagne referendarie in preparazione o in corso possono recuperare un rapporto decisivo con la questione lavoro, in mancanza del quale rischiano molto della loro efficacia e capacità di evitare di essere schiacciate su un voto pro o contro il governo al di là del merito su cui si è chiamati a votare, con una dominanza del simbolico che non aiuta certo il voto referendario di merito.
Nel concludere questa nota mi soffermo, non casualmente, sul rapporto tra i tre referendum, la crisi della democrazia e l’iniziativa in difesa dei diritti costituzionali considerando il soggetto che promuove la campagna per la raccolta delle firme e il merito dei quesiti referendari.
Da un lato il fatto che il soggetto (la CGIL) sia una delle poche, e comunque la maggiore organizzazione di massa sopravvissuta (con forte radicamento sociale e diffusa in tutto il paese) rende credibile l’iniziativa assunta e la possibilità comunque di coinvolgimento di ampi e vari strati popolari.
Dall’altro lato le questioni definite per i referendum, la loro specificità e nel contempo il loro significato generale rilanciano la difesa dei valori costituzionali nel lavoro, laddove cioè in questi anni maggiori sono stati i guasti strutturali prodotti.
La crisi della democrazia può trovare così un contrasto certo non risolutivo, ma essenziale per estenderne la comprensione e la consapevolezza delle radici su cui è cresciuta in questi anni.
La campagna referendaria si muove per affermare obiettivi di aperto contrasto rispetto alla deriva generale prima descritta, che nega la possibilità che il lavoro (i lavoratori e le lavoratrici, insieme e non uno a uno) possano rappresentare un altro punto di vista generale ispirato a idee di giustizia solidarietà sociale, e uguaglianza; altro rispetto al punto di vista oggi dominante (e in parte egemonico) del capitale.
Una deriva che ammette un solo punto di vista per il quale il lavoro è considerato solo merce (come dimostra il ricorrere nel linguaggio alla diffusa definizione di risorse umane, fattore tra i fattori).
In questo quadro il conflitto sociale tra lavoro e capitale è ormai considerato come patologia e non fisiologica caratteristica di una società democratica.
La crisi della democrazia non è spiegabile senza avere consapevolezza di questa radice e del vuoto che si è prodotto, su cui può procedere il disegno autoritario e l’opera di distruzione della stessa Costituzione.
L’iniziativa referendaria non può certo fare miracoli rispetto a questa situazione, ma si presenta come un’occasione (non ce ne sono molte in questa fase) per dare più concretezza e comprensibilità popolare alla lotta per la democrazia nella costruzione di una efficace opposizione ai processi anticostituzionali e autoritari in corso sui vari terreni.
Anche per questo quindi più che soffermarci sui limiti, che pure ci sono. o recriminare sul ritardo e le responsabilità del sindacato e della stessa CGIL, a me pare più utile valorizzare l’iniziativa e lavorare per il suo successo e su questa base, pensare a sviluppi che potrebbero essere facilitati e resi possibili dal recupero di attenzione sui processi che investono il lavoro che sarà indotta dalla scelta della CGIL.
Articolo pubblicato su Alternative per il socialismo
Fonte: inchiestaonline.it
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