di Iris Rastello
La legge non cancella una ferita ancora viva. Dopo essere stato il primo Paese in cui un tribunale nazionale giudicava un ex Capo di Stato golpista con l’accusa di genocidio, il Guatemala ha ottenuto in questi giorni un altro primato: diventare il primo Paese nel quale un tribunale nazionale, oltre a giudicare per genocidio un ex generale militare e Capo di Stato, si trasferisce nel cuore dei territori in cui quel genocidio è stato perpetrato.
Entrambi i primati però, nonostante l’indiscutibile portata storica degli eventi, rallegrano poco la popolazione maya ixil sopravvissuta al genocidio – la cui maggioranza non si è mai identificata in un sistema di giustizia alieno e imposto, né tanto meno nello Stato razzista e classista che da sempre la opprime e la discrimina – ma risvegliano comunque sentimenti contrastanti.
In particolare la notizia del trasferimento del tribunale, dal 19 al 21 aprile, da Città del Guatemala a Nebaj – comunità di circa 20.000 abitanti situata nel Dipartimento del Quiché – è stata appresa dalla società civile con un misto di felicità e paura.
Se da una parte la presenza del tribunale sul luogo del delitto – per ascoltare le testimonianze di 15 sopravvissuti e sopravvissute al genocidio che per motivi di salute o anzianità non avrebbero potuto viaggiare alla Capitale per deporre – è una notizia positiva; dall’altra ha generato timori e tensioni per la presenza di militari ed ex componenti delle PAC-Patrullas de Autodenfensa Civil in città, e ha fatto riemergere una buona dose di commozione e rabbia. Dopotutto, non poteva andare diversamente, in questa regione non c’è individuo o famiglia che non porti addosso le ferite del conflitto: siano queste figlie di tortura, schiavitù, violenza sessuale, dislocamento forzato, e/o uccisione di parenti e amici, desaparicion forzata di fratelli e sorelle.
In particolare la notizia del trasferimento del tribunale, dal 19 al 21 aprile, da Città del Guatemala a Nebaj – comunità di circa 20.000 abitanti situata nel Dipartimento del Quiché – è stata appresa dalla società civile con un misto di felicità e paura.
Se da una parte la presenza del tribunale sul luogo del delitto – per ascoltare le testimonianze di 15 sopravvissuti e sopravvissute al genocidio che per motivi di salute o anzianità non avrebbero potuto viaggiare alla Capitale per deporre – è una notizia positiva; dall’altra ha generato timori e tensioni per la presenza di militari ed ex componenti delle PAC-Patrullas de Autodenfensa Civil in città, e ha fatto riemergere una buona dose di commozione e rabbia. Dopotutto, non poteva andare diversamente, in questa regione non c’è individuo o famiglia che non porti addosso le ferite del conflitto: siano queste figlie di tortura, schiavitù, violenza sessuale, dislocamento forzato, e/o uccisione di parenti e amici, desaparicion forzata di fratelli e sorelle.
L’udienza, nei territori dove la repressione e le stragi furono più intense, costringe le persone a ricordare la violenza, a riviverla, a volte anche a rifiutarla e a scacciarla dalla memoria, ma obbliga un’intera popolazione – anche coloro che furono complici dei militari – a confrontarsi con un trauma collettivo ancora vivo. Non è facile essere chiamati a manifestare l’evidenza dell’orrore, ripetere l’ovvia devastazione delle proprie comunità, affermare ancora una volta che il genocidio c’è stato e lo si porta addosso.
I volti si tendono, riuniti nella strada antistante il tribunale, esprimono solidarietà ai testimoni e alle testimoni, svelano cicatrici, ferite aperte, rughe che affondano nella dignità che non cede alla paura. E poi gli occhi si posano sui poliziotti, arrivati in città in più di 200 unità antisommossa accompagnati dalle Forze Speciali di Polizia, per scavalcarli e fissare per alcuni momenti il volto della vergogna, quello degli ex militari e patrulleros. Coloro che reggono cartelli che negano le atrocità commesse, inneggiano la patria, accusano gli stranieri di pagare i giudici per condannare l’ex dittatore Rios Montt e gridano che in questo Paese non c’è mai stato nessun genocidio.
Il regime militare e il genocidio delle popolazioni indigene. Dal 1960 al 1996 il paese centroamericano è stato insanguinato da uno spietato conflitto armato interno, durato 36 anni, che ha visto i militari protagonisti assoluti della repressione e della mattanza: si stimano 200.000 morti ammazzati, 45.000 desaparecidos e 450.000 rifugiati, la grandissima maggioranza dei quali indigeni dell’area rurale e in particolare degli altopiani occidentali confinanti con il Chiapas. Nel solo Dipartimento del Quiche, durante i 36 anni di conflitto, si contarono più di 200 massacri perpetrati dall’esercito contro le comunità indigene, molte delle quali scomparirono per sempre dalle carte geografiche, e tra il 1981 e il 1983 nella sola regione Ixil – nei municipi di Nebaj, Chajul e Cotzal – si registrarono più di 90 massacri. Il genocidio fu pianificato dall’alto e una delle armi di guerra e di conquista più impiegate dai militari guatemaltechi, oltre alla tortura e alla desaparicion forzata, fu il sistematico utilizzo della violenza sessuale e della schiavitù sessuale per distruggere il tessuto sociale delle comunità. Negli anni ’80 con la scusa di sradicare la guerriglia, l’esercito si accanì in maniera decisiva sulle popolazioni della regione ixil, accusate di appoggiare i guerriglieri, dando luogo a un vero e proprio etnocidio. Oltre ai massacri, deportarono e concentrarono forzatamente la popolazione nelle così chiamate Aldeas Modelo, villaggi controllati dall’esercito, reclutarono forzatamente la popolazione civile nelle PAC-Patrullas de Autodenfensa Civil e bombardarono dal cielo le comunità resistenti rifugiatesi sulle montagne.
Gli accusati: il presidente golpista Rios Montt e il capo dell’intelligenza militare Rodriguez Sanchez. Il 23 marzo del 1982, grazie a un colpo di Stato, l’ex generale ritirato Rios Montt diventa Presidente de facto del Guatemala e governa fino all’agosto 1983 quando viene deposto da un altro colpo di Stato. Trentuno anni dopo, il 10 maggio 2013, viene condannato a 80 anni di carcere con l’accusa di genocidio e crimini contro l’umanità ai danni della popolazione maya-ixil. Il capo dell’intelligenza militare durante il suo governo, Rodriguez Sanchez, viene invece assolto. Dieci giorni dopo la condanna per genocidio contro Rios Montt, la Corte Costituzionale annulla la sentenza per errori procedurali nel processo. Il tribunale riprende il caso nel 2015, anno nel quale due avvenimenti importanti posticipano ancora la possibilità di giudicare i due imputati: la difesa accusa la giudice Jeanette Valdés d’imparzialità a causa di una tesi scritta nel 2004 dal titolo “Criteri per una migliore applicazione del delitto di genocidio”; e presenta la documentazione medica che attesta la demenza senile dell’ex generale Rios Montt, motivo per il quale le udienze da quel momento si terranno a porte chiuse. La giudice Jeanette Valdés viene rimossa dall’incarico e in agosto 2015 si definisce la commissione di giudici che proverà, per la terza volta, a giudicare Rios Montt e Rodriguez Sanchez. Il processo riprende l’11 gennaio 2016 ed è tuttora in corso. Nella sentenza del 2013 che condannò per genocidio Rios Montt, si attestò che le pratiche di sterminio di massa prevederono l’utilizzo generalizzato e sistematico della tortura e della violenza sessuale contro donne e bambine, con episodi non sporadici come l’estrazione dei feti dai ventri delle donne e la loro riduzione in schiavitù. Colpire le donne significava perseguire un preciso obiettivo: distruggere la continuità fisica, psicologica e culturale delle comunità.
Nebaj, lo scontro di sempre: popolazione civile VS militari e patrulleros. Nei giorni di martedì 19, mercoledì 20 e giovedì 21 il tribunale si è trasferito nel cuore del conflitto, nell’area Ixil, a Nebaj. Centinaia di persone, coordinate dalle organizzazioni di base, hanno manifestato davanti al tribunale per accompagnare i 15 testimoni e affermare che Sì Hubo Genocidio, che il genocidio c’è stato. La maggioranza erano donne accorse da Nebaj e dintorni, ma anche dalle comunità di Chajul e Cotzal. A prevalenza erano donne maya ixil, ma si potevano riconoscere anche quiche e mam. Il programma delle giornate è stato intenso e ricco di emozioni e attività. Sì è letto il comunicato stilato dalle organizzazioni (lo trovate in calce all’articolo), ci sono state le testimonianze e poi le attività culturali: il cinema di strada, il teatro, la batucada, l’esposizione di foto all’aperto, musica e ancora musica che ha colorato le lacrime e ha fatto detonare sorrisi complici.
Sulla stessa strada, a un centinaio di metri, qualche decina di ex militari e ex patrulleros, a prevalenza uomini, mostravano cartelli con su scritto “No Hubo Genocidio”, il genocidio non c’è stato, gridavano parole confuse contro la guerriglia, inneggiavano alla patria e insultavano gli stranieri, rei di pagare i giudici per condannare Rios Montt. Se questi, sempre in piedi, avevano i volti dritti oltre il cordone di polizia a cercare i volti delle avversarie, le donne ixil nemmeno li consideravano sedute a centinaia su sedie di plastica, rivolte verso il palco che avevano allestito per l’occasione. Un gesto naturale dargli le spalle, non costruito, come a sottolineare: “Siamo venute per stare insieme, per ridere insieme con lo spettacolo di una clown, per piangere insieme ascoltando la testimonianza di una compañera. Non siamo certo qui per cadere nelle vostre provocazioni e ascoltare l’opportunismo delle vostre menzogne”.
Pacificare la memoria. Non c’è memoria condivisa che tenga. Se continui a negare la vita delle persone. Se continui a negare il genocidio che ancora oggi è una componente che determina la vita di noialtre, sei in malafede. È una fede interessata, ma ce l’hai, è quella nei militari che hanno violentato, ucciso, schiavizzato, raso al suolo. E oggi mi ritrovo con te davanti al tribunale, tu da una parte e io dall’altra. Ieri, con te, seduta sulla camioneta. E penso che nessuna memoria condivisa può pacificare la Storia, le nostre storie, la nostra storia. Il genocidio io lo porto in grembo. So che la sentenza può dare un segnale forte e che se Rios Montt e Rodriguez Sanchez saranno giudicati colpevoli, in tanti, tantissimi, tremeranno e potranno aprirsi altri processi e forse chi ora sta lassù farà meno lo sbruffone. Ma il genocidio, io, noi, continueremo a portarlo in grembo. Dici che non mi hai mai violentata. Che non hai mai violentato mia figlia davanti ai miei occhi. Che non hai mai cancellato la mia comunità. Che dal cielo non mi bombardavi quando cercavo rifugio tra la selva. Continui a ripetere che questo non è stato. E ora torni. Nella mia terra. Paghi i bambini, li ho visti, per volantinare le tue parole d’ordine. Caratteri blu su sfondo bianco. Scrivi che sono nemica della giustizia e della Storia. Quella Storia che dici di voler pacificare. Provi a mordermi con anafore tridenti: A Nebaj non c’è stato il genocidio. A Chajul non c’è stato il genocidio. A Cotzal non c’è stato il genocidio. Scrivi che la guerra l’hanno iniziata i guerriglieri, che sono loro i nemici, perché i militari e i patrulleros sono brava gente. Dici addirittura che, loro, sono il popolo ixil. Scrivi che sono una provocatrice. Gridi, ancora, di voler vivere in pace. Ma tra di noi non ci sarà mai pace. La polizia ci divide. Non c’è contatto tra noi. Ma ogni tanto qualche tua parola tra uno spettacolo e l’altro, la batucada, una poesia e una testimonianza, ci giunge sinistra. Parlate di comunismo, di sovversione, dei veri nemici, dell’integrità dei militari. Ma il vostro fiato corrotto si perde tra le montagne e il sole caldo di aprile ancora una volta ci sorprende, unite.
Segue il comunicato, tradotto in italiano, delle organizzazioni della società civile della Regione Ixil, scritto in occasione del trasferimento del Tribunal de Mayor Riesgo B a Nebaj, Quiche.
Santa Maria di Nebaj, 18 aprile 2016
Le organizzazioni della società civile della Regione Ixil
Alla popolazione sopravvissuta al conflitto armato interno
Nel 2013 viene portato all’attenzione del Tribunale A de Mayor Riesgo del Guatemala il caso di genocidio contro il popolo Ixil, che ha visto come imputati l’ex generale Efraín Rios Montt e il suo ex capo della intelligenza militare, José Mauricio Rodríguez Sánchez per l’assassinio di 1771 persone, tra cui uomini, donne, bambini e bambine, conclusosi con la condanna dell’ex generale il 10 maggio del 2013. Successivamente, tramite una risoluzione di tre magistrati della Corte Costituzionale, parte della sentenza è stata annullata, ma questo non significa che il genocidio in questa regione non sia stato perpetrato.
Infatti, all’inizio di quest’anno il tribunale ha ripreso in mano il caso e ha deciso di ascoltare nuovamente i testimoni e le testimoni, dando seguito al processo. Nei giorni 19, 20 e 21 di aprile il Tribunale B di Mayor Riesgo si sposterà nel Municipio di Nebaj per ascoltare nuovamente la voce dei sopravvissuti alle politiche genocide della “Tierra arrasada”, negli anni tra il 1982 e il 1983, periodo nel quale in questa regione si consumarono la maggioranza dei massacri e delle violenze contro il popolo maya Ixil.
Non dimentichiamo che la maggior parte dei massacri resi noti dal rapporto REHMI (Recuperación de la Memoria Historica) sono avvenuti nel Dipartimento del Quiché, dove si contano più di 200 massacri contro la popolazione civile e, tra il 1981 e il 1983, si registrarono più di 90 massacri solamente nei municipi di Santa María Nebaj, San Gaspar Chajul, San Juan Cotzal (fonte REHMI). Gli assassinii collettivi sono sempre andati di pari passo con l’annientamento delle comunità. Nonostante la persecuzione sofferta dal popolo Ixil e dai popoli maya nella loro totalità, nessuno ha potuto distruggerci e cancellare la nostra cultura. Per anni siamo sopravvissuti perché abbiamo difeso la vita, e per questo ne siamo i semi e continuiamo a vivere lottando per i nostri diritti.
Riconosciamo come fatto storico la presenza di un Tribunale de Mayor Riesgo nella Regione Ixil e come segnale di rispetto verso i testimoni e le testimoni più anziani e/o malati che durante questi tre giorni saranno chiamati a deporre. Inoltre questo avvenimento permette che la popolazione, e in particolare le e i sopravvissuti del conflitto armato interno, tanto donne, uomini, bambini, bambine, anziani e anziane, possano essere realmente e massivamente partecipi in questo momento così paradigmatico per la Regione e il Paese, al fine di accompagnare i testimoni e le testimoni nel processo e sensibilizzare la gioventù sull’importanza della memoria storica.
Sappiamo cosa significa per i testimoni e le testimoni e per la popolazione sopravvissuta nel suo complesso ritornare a ricordare i fatti e raccontare nuovamente ciò che hanno sofferto e hanno vissuto durante il conflitto armato interno. Per questa ragione, durante i tre giorni in cui si svolgerà la sentenza, come organizzazioni sociali e persone singole, accompagneremo le e i familiari sopravvissuti, realizzando diverse attività culturali e artistiche. Pertanto invitiamo la popolazione nella sua totalità a partecipare e accompagnarci nella concentrazione pacifica che avrà luogo davanti al Ministerio Público di Nebaj i giorni 19, 20, 21 di aprile a partire dalle 8 di mattina, parallelamente alle sessioni del tribunale.
Realizzeremo queste attività tutti e tutte insieme per dare dignità e ricordare ognuno e ognuna dei nostri cari che furono vittime delle politiche genocide e che continuano a vivere con noi. La nostra presenza è importante per accompagnare i familiari dei testimoni e delle testimoni, per dargli tutto il nostro coraggio e la nostra forza, affinché non si sentano soli e sole. Perché anche noi siamo nipoti, figli e figlie, sopravvissuti e sopravvissute al genocidio e per questo esigiamo giustizia per i delitti commessi.
Organizzazioni della società civile della regione Ixil e Consiglio delle autorità indigene.
B’oq’ol Q’esal Tenam del Pueblo Ixil – Santa María Nebaj, San Gaspar Chajul, San Juan Cotzal.
Fonte: Carmilla online
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