di Rossella Muroni
I torrenti della città di Genova sono nuovamente al centro dell’attenzione nazionale. Questa volta non sono il dissesto idrogeologico e l’ennesima alluvione a ferire la città ma il petrolio che si è riversato nel piccolo rio Penego, sotto il quale passa l’intricata rete dell’oleodotto di collegamento tra il Porto petroli della città, lo stabilimento di stoccaggio e trasferimento di oli minerali di Fegino e la raffineria Iplom di Busalla, comune alle spalle di Genova.
Un intero ecosistema completamente distrutto perché l’ondata di petrolio che ha attraversato quelle acque ha già raso al suolo la biodiversità presente. «Quanto mi secca avere sempre ragione» esclamava ad un certo punto uno dei protagonisti del primo Jurassic Park inseguito da un tirannosauro. Ecco, quanto ci secca aver avuto ragione quando, nel corso dell’ultima campagna referendaria, denunciavamo i rischi legati alle attività petrolifere. Quanto ci secca che nel nostro Paese non si riesca ad uscire rapidamente dall’era dei fossili poiché la classe politica e quella industriale pensano con arroganza di controllare la situazione e di poter navigare a vista tra proclami e leggi ad aziendam.
Ma cosa c’entra, qualcuno chiede, quanto sta accadendo a Genova con il referendum dello scorso 17 aprile sulle trivelle? La domanda è di per sé disarmante: è una provocazione oppure davvero a qualcuno non è chiaro neanche ora quanto la filiera petrolifera sia rischiosa, inquinante, opaca e soprattutto potenzialmente distruttiva delle attività connesse a pesca, turismo e agricoltura?
È quanto in queste settimane abbiamo cercato di spiegare agli italiani confusi da una martellante campagna di disinformazione che puntava sulla difesa dei posti di lavoro (centinaia) legati alle estrazioni petrolifere. Gli Ottimisti e Razionali (il comitato che invitava a votare no o ad astenersi) sin dal loro nome irridevano le preoccupazioni legate all’inquinamento e all’impatto delle estrazioni petrolifere. Ora tacciono. Estrazioni, trasporto, raffinazione sono tutte attività rischiose e che a questo punto della storia comportano più costi che benefici. Costi per la comunità, benefici per poche compagnie petrolifere che a fronte di royalties irrisorie, scarsi controlli, concessioni illimitate (alle quali si intendeva mettere un termine temporale votando sì) e sgravi fiscali trovano davvero nel nostro Paese l’Eldorado. Ma il prezzo, come stiamo vedendo a Genova e come vedremo nelle prossime settimane, con la stagione turistica alle porte, è altissimo.
C’è poi da aggiungere che gli intensi traffici marittimi legati alla filiera petrolifera rendono il Mediterraneo, un mare chiuso e delicatissimo, una delle aree maggiormente esposte al rischio di inquinamento da idrocarburi. Nelle acque del Mediterraneo transita, infatti, il 18% di tutto il traffico mondiale di prodotti petroliferi: circa 360 milioni di tonnellate all’anno. Secondo uno studio del 2008 dello Iucn sugli effetti del traffico marittimo sul Mediterraneo, nel solo 2006 sono stati conteggiati oltre 9000 viaggi di petroliere attraverso il bacino, per una movimentazione complessiva di più di 400 milioni di tonnellate di idrocarburi.
Sembra incredibile ma nelle stesse ore in cui il nostro Premier davanti alle Nazioni Unite sottoscriveva gli accordi sul clima dichiarando la volontà di puntare sulle rinnovabili, il nostro mare davanti a Genova si tingeva di nero. Sì perché per uscire dall’era dei fossili non bastano i proclami ma occorre dotarsi di un piano rigoroso di transizione che punti celermente verso le energie rinnovabili. Non bastano slogan, servono decreti che bilancino rapidamente l’attacco subito dall’energia pulita nel nostro paese negli ultimi due anni.
Fonte: il manifesto
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