di Gianni Silvestrini
Dopo la Cop21 sono molti i segnali che indicano come sia in atto un’accelerazione della transizione energetica. Il primo elemento, riguarda la caduta di “King Coal”, un fatto considerato impensabile fino a poco tempo fa, quando tassi annuali di crescita del 4% avevano portato il carbone a coprire il 29% dei consumi energetici e il 46% delle emissioni mondiali di CO2 dei fossili. Ma lo scenario è rapidamente cambiato. Negli Stati Uniti, i consumi di carbone sono calati del 13% durante gli ultimi due anni e per il 2016 è prevista un’ulteriore riduzione del 6%; crollo che ha comportato il fallimento delle due più grandi società di estrazione di questo combustibile, la Peabody Energy e la Arch Coal.
E, sempre nel 2016, il gas supererà il carbone nella generazione elettrica. In Cina, il calo dell’ultimo biennio è stato del 6% e la riduzione dovrebbe proseguire anche quest’anno, con un -2% (nel primo trimestre -3,7%). Pechino ha deciso di bloccare la costruzione di 250 centrali a carbone per una potenza di 170 GW. Una scelta significativa, accompagnata dall’annuncio della chiusura di un migliaio di miniere e della sospensione dell’avvio di nuove estrazioni.
Potremmo continuare nella panoramica mondiale con la decisione del Regno Unito di eliminare la generazione a carbone entro il 2025 e con il piano in elaborazione da parte della Germania per uscire, dopo il nucleare, anche dai combustibili solidi. Insomma, per il maggiore responsabile del riscaldamento antropico del pianeta è iniziata una crisi profonda e irreversibile.
Altre trasformazioni radicali sono in vista nel settore dei trasporti; ancora una volta risultano decisive le risoluzioni di alcuni governi. Le scadenze proposte recentemente da Norvegia e Olanda per eliminare la vendita di veicoli a benzina o gasolio (2025), ma soprattutto quella del 2030 in discussione in India, sono messaggi forti in grado di accelerare le scelte industriali sulla mobilità elettrica e innescare un effetto a valanga, come dimostra la successiva presa di posizione assunta anche del governo austriaco.
Sarà comunque Pechino che, dopo aver guidato nell’ultimo quinquennio la corsa mondiale delle rinnovabili, piloterà la trasformazione del mercato dell’auto. Si stimano 600.000 nuovi veicoli elettrici nel 2016, un valore più che raddoppiato rispetto alle vendite cinesi dello scorso anno.
Le dinamiche che si sono innescate faranno saltare tutte le previsioni sui consumi di greggio delle compagnie petrolifere. La Exxon, ad esempio, attribuisce alla mobilità elettrica solo il 4% del mercato dell’auto nel 2040. Secondo Bloomberg, invece, la diffusione dei veicoli elettrici comporterebbe già nella prima parte del prossimo decennio una riduzione della domanda di petrolio di 2 milioni di barili giorno (Mbg). Estendendo l’analisi al 2030-2040, il calo dei consumi di greggio diventeràdevastante per le compagnie petrolifere.
Un terzo settore, che segnala la rapidità dei cambiamenti, è quello delle rinnovabiliche nell’ultimo quinquennio ha visto investimenti nella generazione elettrica doppi rispetto a quelli destinati alle centrali termoelettriche. Un trend che si accentuerà: per il 2020 la potenza fotovoltaica cumulativa aumenterà del 200% arrivando a 450 GW, mentre l’eolico è proiettato verso i 750 GW.
Naturalmente, non possiamo dimenticare l’impennata avvenuta nel campo dell’efficienza energetica. Pensiamo per esempio al successo del programma indianoDomestic Efficient Lighting Programme (Delp) che in soli 20 mesi ha fatto calare i prezzi dei Led dell’83% e, di conseguenza, ridurre di 2,3 GW la potenza di punta richiesta sulla rete. Visti i risultati ottenuti con la vendita di 90 milioni di lampade, ad aprile, il governo ha deciso di alzare il tiro e di diffondere altri 770 milioni di Led.
Per finire, va sottolineato un cambiamento che non riguarda una tecnologia o un combustibile, ma alcuni importanti settori del mondo finanziario; parliamo di istituzioni, fondi e istituti bancari, che stanno trasferendo colossali risorse dal mondo dei combustibili fossili e quello delle tecnologie verdi. Così, la Banca Mondiale, in passato accusata di finanziare progetti ambientalmente criticabili, ha deciso di dedicare il 28% dei propri fondi a interventi climatici. Ancora più drastica la posizione della banca statunitense JP Morgan Chase &Co, che non intende più finanziare miniere o centrali a carbone nei paesi Ocse, progetti che vengono accomunati al lavoro minorile tra le “transazioni proibite”.
La firma dell’accordo di Parigi: Europa a basso profilo
Lo scorso 22 aprile, a New York, ben 175 paesi hanno firmato l’accordo sul clima di Parigi. Al fine di garantire la sua entrata in vigore, dovrà seguire l’approvazione formale da parte di almeno 55 paesi responsabili di una quota superiore al 55% delle emissioni mondiali. È probabile che l’iter sarà molto più rapido rispetto ai sette anni che sono stati necessari per l’avvio del Protocollo di Kyoto. L’entrata in vigoredell’accordo di Parigi potrebbe infatti avvenire tra il 2016 e il 2017.
Considerato che Cina, USA e Canada, le cui emissioni complessivamente raggiungono il 40% del totale, si sono già impegnati ad effettuare rapidamente questo passaggio, mancherebbe un gruppo di paesi responsabili del 15% delle emissioni.
Per quanto possa sembrare paradossale, è difficile che questo ruolo venga svolto dall’Europa. Purtroppo la UE, già guida delle politiche del clima, è divisa; occorre la ratifica da parte dei Parlamenti di tutti i 28 Stati membri, con i tempi di attuazione che saranno lunghi. Non stupisce la resistenza della Commissione all’innalzamento degli obiettivi al 2030, che si renderebbe comunque necessario, dopo il successo dell’accordo di Parigi. La riduzione delle emissioni dei gas climalteranti, che dal 40% dovrebbe passare almeno al 45%, viene rimandata al 2023, malgrado diversi paesi (ma non l’Italia), stiano spingendo per una rapida revisione.
Se poi si volesse veramente evitare di superare l’incremento di 1,5 °C, i tagli dovrebbero essere superiori, attorno al 60%. Le incertezze europee sono, peraltro, sempre meno comprensibili alla luce del crescente allarme climatico, visti i continui record delle temperature. Il primo trimestre 2016 ha segnato un aumento di 1,5 °C rispetto ai valori medi 1881-1910 e di 1,7 °C rispetto ai valori preindustriali.
Far ripartire la corsa dell’Italia
Malgrado le emergenze ambientali e la rapidità con cui sta cambiando il mondo, ci sono però paesi che non stanno cogliendo l’onda. L’Italia, dopo aver seguito un percorso quanto mai originale e anomalo, si colloca tra questi. La sua storia ricorda quella di un atleta drogato che, dopo una partenza fulminante, crolla mentre gli altri corrono verso il traguardo. È opportuno chiarire il contesto che ha portato all’euforia da doping.
Un esempio viene dal decreto “salva Alcoa”, varato dal governo Berlusconi a seguito delle pressioni di potenti lobby. Mentre sull’editoriale di QualEnergia (n. 1 del 2011) si leggeva: «La bolla fotovoltaica è scoppiata con numeri impensabili. La responsabilità principale viene dall’emendamento parlamentare, passato con il consenso del Governo, che ha prolungato la validità degli incentivi 2010 agli impianti installati entro il 31 dicembre». Gianfranco Miccichè, allora leader di Forza del Sud, minacciava di far cadere il governo proprio per sostenere gli alti incentivi al solare. Questo per chiarire le responsabilità di chi ancora oggi se la prende con il comparto delle rinnovabili e, in particolare, con il fotovoltaico.
Le politiche degli ultimi cinque anni si sono basate sulla doppia convinzione che “i comparti delle rinnovabili e dell’efficienza hanno già avuto troppo” e che “visti i risultati acquisiti ora possiamo stare fermi”. In questo modo si sono sottovalutati i notevoli apporti positivi derivati dalla corsa green e si è bloccata l’espansione necessaria per raggiungere gli obiettivi del 2030.
Nella plausibile ipotesi che all’Italia venga richiesto un impegno di riduzione analogo alla media europea, il tasso annuo di riduzione delle emissioni climalteranti nel periodo 2016-2030 dovrà essere più del doppio di quello registrato tra il 1990 e il 2015, e del 50% più alto di quello calcolato per l’intervallo 2004-2015 depurato dall’effetto della crisi: nel periodo cioè della forte crescita delle rinnovabili. Questo, sempre che gli obiettivi al 2030 non vengano innalzati. Sono numeri che chiariscono bene l’accelerazione delle energie pulite, necessaria nei prossimi anni.
Il premier ha affermato che intende lavorare perché le fonti rinnovabili, in questa legislatura, riescano a fornire nel 2018 il 50% della generazione elettrica. A noi basterebbe che venissero adottate misure in grado di far raggiungere questo risultato nel 2025 e talloneremo il governo affinché vengano rapidamente varati tutti i provvedimenti necessari.
Questo testo è un'anticipazione dell'editoriale di Gianni Silvestrini (nella sua versione quasi completa) che verrà pubblicato sul prossimo numero (n.2/2016) della rivista bimestrale Qualenergia, in uscita la prossima settimana, con il titolo "Clima d'urgenza".
Fonte: Qualenergia
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