di Alessandro Gilioli
Ieri un'amica economista, per divertirsi, ha calcolato che, per guadagnare quello che Marchionne prende in un anno, un voucherista italiano dovrebbe lavorare 2.500 anni tutti i 365 giorni dell'anno. Un rapporto 1 a 2.500, pertanto, ipotizzando generosamente che anche Marchionne non riposi nemmeno un giorno. Diceva Adriano Olivetti che «nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo». Il capitalismo italiano è insomma passato in mezzo secolo dalla teorizzazione di un rapporto 1 a 10 alla pratica di un rapporto 1 a 2.500.
Quella che vedete qui sopra è una delle tabelle più note del libro con cui Thomas Piketty, nel 2013, ha preso d'assalto tre decenni di egemonia culturale, politica e fattuale della destra economica. Mostra la quota di reddito in percentuale del 10 per cento più ricco nell'ultimo secolo e illustra in modo immediato quello che è successo in Europa e negli Stati Uniti.
Ci sono diverse cose, in questo grafico.
Ad esempio c'è la rappresentazione plastica della parola "neoliberismo", su cui alcuni ironizzano come se fosse un'invenzione dietrologica, una proiezione da complottisti, invece qui si palesa in tutta la sua chiarezza: è, semplicemente, quella cosa che ha iniziato a far schizzare in su le due linee, dopo che i vari new deal, patti sociali, socialdemocrazie o altre forme di mediazione tra alto e basso le avevano fatte gradualmente scendere, per mezzo secolo abbondante. Ad esempio a quelli del Foglio, che si baloccano con la rubrichetta "Tutta colpa del neoliberismo", bisognerebbe ogni volta sbattergli in faccia questa tabella: magari, con un disegnino, capiscono.
Curiosamente - e questa è un'altra cosa che emerge dal grafico qui sopra - il mezzo secolo in cui diminuiva il distacco tra più ricchi e più poveri ha coinciso con il periodo di maggior avanzamento complessivo delle società.
Forse non è un caso: una buona parte della letteratura economica, negli ultimi tempi, sta avanzando seriamente l'ipotesi che oltre un certo livello le disuguaglianze producano danni per tutti. Lo ha fatto Robert Reich, in un librogià citato in questo blog. Lo fanno ora anche Maurizio Franzini e Mario Pianta nel loro ultimo saggio, "Diseguaglianze", da poco uscito per Laterza.
La loro analisi su questo punto - basata soprattutto su dati Fmi e Ocse (quindi non proprio fonti di estrema sinistra) - è prettamente di carattere economico, cioè relativa agli effetti sulla crescita di un Paese. Qualche anno fa, Richard Wilkinson e Kate Pickett - in un libro che andrebbe fatto studiare in tutte le scuole - mostrarono dati alla mano come una forbice sociale eccessiva genera anche più violenza, più ignoranza e maggiore disagio psichico. È di questi ultimi mesi invece l'evidenza che, oltre a tutto questo, l'eccesso di disparità sociali si ripercuote in crescenti espressioni politiche di tipo nazionalista e neofascista, dagli Stati Uniti all'Europa.
A proposito di Europa: oggi nel Vecchio continente, scrivono Franzini e Pianta, «il 20 per cento delle persone ha un patrimonio pari a zero (o debiti che superano i risparmi), mentre il secondo quintile possiede una ricchezza media di 29.400 euro, il terzo di 111.900 euro, il quarto di 235 mila euro: fino al quinto degli europei, che ha ricchezze per 780.700 euro, possedendo così il 68 per cento della ricchezza totale.
Il tutto in un quadro di capitalismo sempre più oligarchico, cioè riservato a pochi, e sempre più dinastico, cioè con un ascensore sociale quasi fermo.
Quest'ultimo è un problema di cui in Italia si parla poco. Anche a sinistra, devo dire. Ed è un po' uno scandalo: tra l'altro, dopo la riforma Berlusconi appena ritoccata da Monti, siamo e restiamo uno dei paesi al mondo con le tasse di successione di basse. E, come si vede dalla tabella sotto, siamo secondi tra i Paesi sviluppati nella pessima classifica di trasmissione generazionale delle disuguaglianze (grafico tratto dal libro di Franzini e Pianta).
Insomma "la famiglia conta", come nel titolo di uno dei capitoli del saggio in questione. Conta per eredità, ma anche per istruzione (tasse universitarie comprese) e rete di relazioni. E questa realtà, oltre a essere un fattore chiave del capitalismo oligarchico, fa un po' di chiarezza sulle tante balle che si sentono in giro relative alle "uguali opportunità" come forma che rende accettabili, se non giuste, le disuguaglianze.
Le posizioni di rendita invece sono il primo tratto caratterizzante dell'economia contemporanea e del capitalismo oligarchico.
Accanto al quale, s'intende, ci sono anche altri motori di diseguaglianza, spiegano Franzini e Pianta: ad esempio, la maggiore rilevanza nella produzione di redditi assunta dal capitale rispetto al lavoro, soprattutto per via finanziaria e per trasformazioni tecnologiche (tema su cui in questo blog ho rotto le scatole spesso); ma anche, terzo punto, l'individualizzazione delle condizioni economiche, cioè la fine delle classi organizzate, delle loro categorie, dei loro sindacati: con la riduzione del lavoratore a monade solitaria e disperata che ogni giorno mette insieme pezzettini di reddito molecolare.
Il quarto motore delle troppe disuguaglianze contemporanee individuato da Franzini e Pianta è l'arretramento della politica: che interviene sempre meno con politiche redistributive (e quanto ha contato, in questo, la sbornia trentennale contro i "lacci e laccioli"!) e taglia sempre di più i servizi universali o destinati ai ceti più poveri (salute, istruzione, etc), sempre con l'altro mantra liberista del "bisogna ridurre la spesa pubblica".
Naturalmente poi, come sempre, anche quella della disuguaglianza e dell'uguaglianza è questione di misura, di punto in cui fissa l'asticella.
In genere, chi parla di diseguaglianze viene accusato di essere utopista, perché nessuna società realizza mai un'uguaglianza assoluta: il che è evidente, ma diventa quasi sempre un alibi per non fare alcun passo verso una riduzione della forbice sociale, anzi per andare nella direzione opposta.
Che è quella delle diseguaglianze crescenti. Delle società più arrabbiate, infelici, conflittuali, atomizzate, instabili. Dei Paesi in cui per rabbia confusa dilagano quindi i neofascismi, i nazionalismi, i razzismi, i Trump e Le Pen.
Del neoliberismo, insomma.
Fonte: L'Espresso - blog Piovono Rane
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