di Simone Fana
I dati relativi all’aumento vertiginoso dei buoni lavoro o voucher – l’Inps stima in circa 1,5 milioni i lavoratori coinvolti nel 2015 – ha riproposto al centro del dibattito pubblico il fenomeno del lavoro povero e precario. In origine, i voucher furono introdotti dalla Legge Biagi come strumento di regolazione del lavoro c.d. accessorio, attraverso l’individuazione di un elenco di prestazioni riconducibili, dai lavori di giardinaggio, di manutenzione sino al lavoro domestico.
La riforma Fornero prima e il Jobs Act dopo hanno esteso l’utilizzo dei voucher: la prima estendone l’utilizzo a tutti settori produttivi e mantenendo come unico vincolo la soglia del compenso a 5.000 euro, il secondo allargando la stessa soglia delle prestazioni lavorative retribuite con buoni lavoro da 5.000 euro a 7.000 euro netti e abolendo il carattere discontinuo e occasionale della prestazione. Il combinato disposto dell’allargamento dei settori produttivi e del limite di retribuzione a voucher è all’origine del massiccio ricorso degli ultimi anni.
In attesa di avere dall’Inps dati sulle attivazione dei voucher e sulla tipologia di percettori, a partire dalla storia contributiva e contrattuale per comprenderne la funzione svolta nel mercato del lavoro, è utile soffermarsi sulle parole spese dal governo sul fenomeno dei buoni lavoro. Il ministro Poletti - intervenendo sul tema qualche giorno fa – ha riconosciuto che l’aumento dei voucher è un tema preoccupante, limitandosi tuttavia a indicare nella tracciabilità dello strumento un deterrente utile a fermarne gli abusi. Il titolare del lavoro ha aggiunto che il voucher rappresenta un deterrente al lavoro nero, vera piaga del paese, costituendo quindi uno strumento funzionale al contrasto del sommerso. Un’impostazione che è stata ripresa ieri dal responsabile economico del Partito Democratico, Filippo Taddei, in un’intervista concessa al quotidiano La Repubblica. La retorica della flessibilità, funzionale alle esigenze dell’impresa viene, quindi, sostituita con quella della lotta al lavoro nero. Un passaggio narrativo che non è stato sufficientemente analizzato nelle implicazioni profonde che assume sulla tenuta economica e sociale del paese. Attribuire allo strumento del voucher una funzione di deterrenza del lavoro irregolare e contestualmente allargarne il ricorso ad interi settori produttivi rischia di indebolire ulteriormente quel patto sociale, che regola i rapporti tra i cittadini e le istituzioni dello stato. Se, infatti l’istituto del voucher viene legittimato come emersione del lavoro nero, si prefigura una vera e propria politica di condono del lavoro irregolare, esteso ad interi comparti dell’economia nazionale.
In attesa di avere dall’Inps dati sulle attivazione dei voucher e sulla tipologia di percettori, a partire dalla storia contributiva e contrattuale per comprenderne la funzione svolta nel mercato del lavoro, è utile soffermarsi sulle parole spese dal governo sul fenomeno dei buoni lavoro. Il ministro Poletti - intervenendo sul tema qualche giorno fa – ha riconosciuto che l’aumento dei voucher è un tema preoccupante, limitandosi tuttavia a indicare nella tracciabilità dello strumento un deterrente utile a fermarne gli abusi. Il titolare del lavoro ha aggiunto che il voucher rappresenta un deterrente al lavoro nero, vera piaga del paese, costituendo quindi uno strumento funzionale al contrasto del sommerso. Un’impostazione che è stata ripresa ieri dal responsabile economico del Partito Democratico, Filippo Taddei, in un’intervista concessa al quotidiano La Repubblica. La retorica della flessibilità, funzionale alle esigenze dell’impresa viene, quindi, sostituita con quella della lotta al lavoro nero. Un passaggio narrativo che non è stato sufficientemente analizzato nelle implicazioni profonde che assume sulla tenuta economica e sociale del paese. Attribuire allo strumento del voucher una funzione di deterrenza del lavoro irregolare e contestualmente allargarne il ricorso ad interi settori produttivi rischia di indebolire ulteriormente quel patto sociale, che regola i rapporti tra i cittadini e le istituzioni dello stato. Se, infatti l’istituto del voucher viene legittimato come emersione del lavoro nero, si prefigura una vera e propria politica di condono del lavoro irregolare, esteso ad interi comparti dell’economia nazionale.
Ricapitolando: il buono lavoro consiste in una retribuzione netta di 7,5 euro all’ora a cui si aggiunge un contributo INPS a carico del datore di lavoro del 13%, non sono previste indennità per ferie, malattie e TFR. Taddei afferma che la media delle retribuzioni annue dei lavoratori assunti con voucher ammonta a 640 euro lordi mensili, mentre l’Inps stima che i voucheristi dovranno lavorare per 10 anni per accumulare appena un anno di pensione. Se queste stime sono verosimili, e non c’è alcuna ragione per dubitarne, si avrebbe una situazione in cui regolarizzare i lavoratori con l’utilizzo dei voucher avrebbe un impatto devastante sulle casse dello stato, al netto di un residuo beneficio per il lavoratore regolarizzato. Colui che avrebbe maggiore guadagno sarebbe ancora una volta il datore di lavoro, che versando una percentuale risibile all’INPS potrebbe contare su un consistente margine di profitto, che è la differenza tra il valore prodotto dalle prestazioni del lavoratore in nero e la piccola somma che dovrà versare all’istituto di previdenza sociale. La retorica della lotta al lavoro nero sembra più che altro un espediente che serve al governo per mascherare le misure di smantellamento delle strutture di controllo, a partire dalla soppressione degli istituti di monitoraggio dell’andamento del mercato del lavoro, a seguito della riforma delle province, sino alla razionalizzazione degli organi ispettivi, accorpati su base nazionale.
All’assenza di politiche mirate al contrasto dell’evasione fiscale si aggiunge una retorica che si pone l’obiettivo di offrire una regalia alle imprese che hanno utilizzato il lavoro nero come strumento di sfruttamento dei lavoratori e come mezzo di elusione fiscale. In assenza quindi di dati che possano provare o smentire le affermazioni del governo sul ruolo dei voucher nell’emersione del lavoro irregolare, sarebbe opportuno che chi ricopre ruoli di responsabilità politica evitasse di utilizzare espedienti retorici che hanno come unico obiettivo quello di legittimare, sotto forma di condoni, evasori fiscali e forme di caporalato. Inopportuni suonano anche i parallelismi tra la situazione italiana e quella di altri paesi europei. In Francia, ad esempio, il ricorso ai voucher è circoscritto al lavoro domestico, e i voucheristi possono contare su tutte le tutele tipiche dei lavoratori dipendenti: ferie, malattie, tfr, oltre che inail e Inps. La Francia non è gravata come l’Italia da un tasso di disoccupazione giovanile del 40%, un vero e proprio esercito di riserva che preme verso il basso i salari reali, e vanta un livello di protezione del lavoro di gran lunga più forte di quello italiano.
Al netto quindi, di queste considerazioni, resta fondato il timore che l’aumento dei voucher sia funzionale a ridefinire la cornice giuridica del lavoro, moltiplicando i confini della precarietà oltre il lavoro accessorio, rendendo la retorica del governo ancora una volta smentita dai fatti.
Fonte: Il Corsaro
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