di Aldo Tortorella
È certo che l’agire politico ha poco avvenire se non è capace di interpretare lo spirito del tempo e l’animo della parte che vuol rappresentare. Credo che abbia ragione chi ha scritto (Robert Reich, economista e ministro con Clinton) che sia Trump che Sanders rappresentano negli Stati Uniti, con opposte forme, una medesima rivolta contro l’establishment. Con qualche somiglianza a ciò che avviene in Italia e in Europa.
Ma, qui da noi, la rivolta – o la protesta – contro le forze dirigenti, presente da entrambi i lati (i 5stelle e i leghisti), è molto differente, sul lato sinistro, da quella anglosassone. Mentre Sanders e Corbyn si proclamano in qualche modo socialisti e si ricordano che l’establishment è fatto anche (soprattutto) dai detentori del potere economico, qui il partito che pudicamente si chiama Movimento altrettanto pudicamente si dichiara né di destra né di sinistra, e dunque può azzannare i corrotti (che lo meritano) dimenticando tranquillamente i corruttori. La nave non è di proprietà del capitano, ma dell’armatore. Se il capitano è un ubriacone o un cretino può naufragare sugli scogli, ma è l’armatore che l’ha nominato e nominerà il prossimo. Magari il capitano andrà in galera, cosa auspicabile.
Al contrario, l’armatore, o la società anonima, prenderanno i soldi dell’assicurazione e continueranno come prima.
Al contrario, l’armatore, o la società anonima, prenderanno i soldi dell’assicurazione e continueranno come prima.
Dunque c’è da chiedersi dove stia l’armatore della nave Italia in questi tempi di capitalismo globalizzato e, anche, chi sia davvero il capitano che dà gli ordini per la rotta, dato che facciamo parte della flotta europea in cui la nave ammiraglia è, fuori dubbio, diventata la Germania. Per tutte queste considerazioni, questa rivista ha pensato, con altri, di chiedersi in quale modo oggi si ripropone una questione tedesca. I lettori troveranno in questo numero le risposte date al quesito dai tre ottimi relatori al seminario sul tema: “La Germania e la crisi della democrazia europea”, un seminario svolto con la partecipazione di studiosi italiani e tedeschi. All’origine del tema così formulato stava un saggio di Leonardo Paggi, pubblicato su queste colonne alla metà dell’anno passato, a proposito del settantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, vinta dall’alleanza antinazista e antifascista. In quell’articolo Paggi affrontava il tema del rapporto tra storia e memoria e si interrogava sui motivi che hanno fatto prevalere in modo quasi esclusivo la memoria di quella barbarie assoluta che fu la Shoa – memoria che non deve e non dovrà mai essere smarrita – sull’insieme dello svolgimento e delle cause della tragedia rappresentata dalla guerra di aggressione scatenata dai nazisti, inizialmente sostenuti da un vasto appoggio nazionale.
Porre in primo piano la “questione tedesca” non significava, e non significa, la ricerca, che pure vi è da varie parti, di un capro espiatorio per la crisi che l’Europa sta attraversando (o per sminuire le responsabilità italiane per quel che qui accade). La crisi dell’Unione europea ha molte facce e molti autori. Non vi è solo l’incognita rappresentata dal referendum inglese nonostante l’accordo più o meno iugulatorio raggiunto, ma il permanente contrasto sulle linee di politica economica, lo scontro tra i paesi dell’Unione, e all’interno di ciascuno di essi, sul tema dell’accoglienza ai rifugiati, la diversità di scelte rispetto alle azioni da svolgere dinnanzi alle guerre in atto ai confini, generate anche da avventate azioni europee.
Ai confini orientali l’irrisolta questione ucraina è nata per la volontà – deprecata dal vecchio ex-cancelliere tedesco Schmidt, pur moderatissimo – di portare quel paese nella Nato, anche a costo di un colpo di Stato, con la conseguenza di una guerra civile sospesa, ma non conclusa.
Le tendenze all’esasperato nazionalismo e le pulsioni autoritarie, presenti ovunque, sono divenute dominanti in paesi come l’Ungheria e la Polonia mentre nei paesi baltici il rancore, o l’odio, accumulato nel passato verso l’occupazione sovietica ha generato una rivalutazione, più o meno ufficialmente sostenuta, del loro contributo armato alla guerra nazista. E in questa parte d’Europa la Nato pensa di installare nuove armi di offesa.
Ai confini meridionali, le guerre che divampano non nacquero senza la responsabilità delle azioni anche armate decise in solitudine da singoli Stati dell’Unione europea, oltre che dalla Russia e dalla Turchia, e oltre all’opera di destabilizzazione di tutta l’area mediorientale iniziata con la guerra dell’amministrazione Bush in Iraq. Gli interventi della Francia, della Gran Bretagna e della stessa Italia assunti con il presunto scopo di aiutare lo sviluppo di vita democratica secondo le speranze suscitate dalla primavera araba, non potrebbero aver avuto esito più contraddittorio e catastrofico. In realtà, gli obiettivi erano diversi da quelli esibiti, dato che ciascuno voleva riprendere per sé il ruolo che ebbe ai tempi del colonialismo in ciascuno di quei paesi. Il risultato attuale è, ora, che gli scontri tra le opposte tendenze mussulmane a favore o contro lo Stato islamico, a favore o contro il dittatore siriano o egiziano o d’altra nazione, si vanno trasformando in frizioni anche tra paesi della comunità europea o della Nato, oltre che nel confronto tra Stati Uniti e Russia. Come ha detto qualche esperto della materia, ci sono zone dove tutti sono contro tutti, armi alla mano. E ora si parla di un intervento armato italiano in Libia.
Si scontano, dunque, le conseguenze di una Unione nata senza alcuna democraticità condivisa che ne garantisse una politica comune e affidata a Stati tra di loro in contesa e ostili a reali rinunce di sovranità, a partire dai due maggiori, la Francia e la Germania, che ne assunsero la guida. La Francia fu la principale sostenitrice della moneta unica, timorosa della crescente forza del marco. Mentre la Germania, come ha ricordato anche Prodi – che come presidente del Consiglio italiano fu tra i creatori dell’euro – la moneta unica non la voleva e per accettarla, infine, impose le sue condizioni. Parecchi furono allora coloro che obiettarono, inascoltati, che la fine della variabilità del cambio avrebbe penalizzato i paesi a più bassa produttività, e cioè, prevalentemente quelli dell’Europa meridionale, particolarmente in vista di una crisi ciclica che non ha tardato a sopravvenire, colpendo tanto più violentemente i meno preparati e più deboli. Parve forse, se si vuole dare per certa la buona fede dei promotori italiani, che la moneta unica, imponendo una disciplina esterna, avrebbe raddrizzato i negligenti, gli spendaccioni, i corrotti: così come si pensava una volta di guarire con l’elettroshock certe malattie mentali per cui ora – ma ci sono volute infinite ricerche per saperlo – può bastare una pillola . Ma la cura non ha funzionato perché altre e più complesse erano le medicine necessarie.
La sostanza era che con l’euro si entrava nel sistema del capitalismo tedesco divenuto regola per l’Europa economica. Già, a monte, c’era la cultura che ha ispirato i trattati costitutivi della Comunità, prima, e dell’Unione poi, una cultura economica e politica neoliberista del tutto contraria a una Costituzione come quella italiana (la banca Morgan lo ha voluto di recente ricordare ufficialmente) in cui si stabiliscono elementi di eguaglianza sostanziale, si indica la funzione sociale della proprietà, si determina la priorità dell’interesse pubblico su quello privato, si elencano assieme agli altri diritti i diritti sociali. Nel neoliberismo il lavoro va considerato come una merce tra tutte le altre, con il fastidio rappresentato dal fatto che è una merce cui stanno attaccate delle persone umane. In una tale concezione, una Repubblica “fondata sul lavoro” deve essere sempre sembrata una cosa grottesca.
Entro questo quadro, assumendo il modello tedesco si debbono fare i conti, come dicono le relazioni che pubblichiamo, con un sistema di “capitalismo organizzato” che teme sopra ogni cosa il conflitto sociale, propone una visione organicistica della società, pensa allo Stato essenzialmente come garante della libertà del mercato. Un neoliberismo disciplinato che non smentisce ma regola il suo assunto, quello della priorità del mercato e del capitale. La rappresentatività deve cedere il passo alla governabilità, cui già dedicò grande attenzione la trilaterale in anni lontani, e la governabilità deve trascolorare in “governance” in cui il privato si confonde con il pubblico e la democraticità diventa un ricordo del passato. Dal punto di vista della politica economica un modello, come quello tedesco,trainato dalle esportazioni non è immaginabile per tutti i paesi perché se uno ha la bilancia in attivo qualcun altro deve averla in passivo, e, soprattutto, come spiega la relazione su questa materia, se la Germania, relativamente alla popolazione, è il massimo esportatore mondiale, è anche uno dei massimi importatori. Il che vuol dire, in molti comparti produttivi, sostituire lavoro interno con lavoro esterno a minor prezzo, per comprimere i salari interni, con la conseguenza di uno sviluppo della Germania stessa (e di conseguenza dell’insieme dell’area dell’euro) relativamente minore di quello di altri paesi di capitalismo avanzato come gli Stati Uniti.
Questo modello per la sua stessa natura non era generalizzabile. E, se era ed è giusta la lotta contro lo sperpero del denaro pubblico e contro una evasione fiscale che ha contribuito (non solo in Italia) a debiti fuori controllo, è oggi evidente che l’idea di trasformare l’Europa in una sorta di grande area del marco con nome mutato non poteva funzionare. La Germania stessa si trova oggi esposta ai contraccolpi sia di politiche francamente sbagliate – come quella dell’austerità che imponendo un basso sviluppo impedisce anche l’alleviamento del debito – sia di azioni controcorrente come quella relativa ai profughi – anche se motivate dal deficit di lavoratori. Nel resto d’Europa l’incertezza del domani generata dalla lunga e non risolta crisi economica, l’impoverimento del ceto medio, la disoccupazione endemica nei paesi del sud aggrava la paura e l’ostilità verso una migrazione di massa generata da guerre e da miseria (dovute anche dalla cecità europea) che chiederebbe solidarietà umana. Fatalmente rinascono, ovunque, le tendenze scioviniste e autoritarie acquistando, anche in grandi paesi come la Francia una grande forza, e, dunque, incominciano a essere blandite da una parte del potere economico, mentre fin qui erano poste in riserva.
Di fronte a così grave pericolo, e al rinascere di spettri del passato, la sinistra moderata oscilla tra la subalternità e la rassegnazione, forse confidando che i padroni del vapore non cederanno alle tendenze peggiori. Ma anche quella sinistra che vorrebbe essere alternativa appare largamente divisa nelle singole frazioni nazionali, tra cui taluna è orientata al ritorno all’indietro agli Stati nazionali, orientamento in sé retrivo e comunque impercorribile, come ha dimostrato il caso greco. Non c’è altra strada diversa da quella che rifiuta con chiarezza e con forza le contrapposizioni tra i lavoratori dei vari paesi tutti analogamente sfruttati, seppure con diverse modalità, compresi i lavoratori tedeschi e dei paesi più avanzati. Ho usato volutamente un aggettivo che deriva dalla parola “sfruttamento”, considerata obsoleta. Potrei forse correggere parlando, come dicono gli economisti, di cattiva o pessima distribuzione (della ricchezza e del reddito). Proprio l’esame del caso tedesco mostra che in ultima istanza la questione cardine rimane il prezzo del lavoro, pur tanto trasformato, differenziato, sfrangiato e tanto separato tra precariato (ovunque crescente) e stabilità. E il modello anche nella versione tedesca rimane quello della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite: il liberismo fatto Stato per dirla un po’ rozzamente. La rifondazione dell’Europa e delle sue regole può passare solo da un nuovo senso comune della gente che lavora. Lo stupefacente fenomeno dello schieramento di tanti giovani a sostegno dei vecchi Sanders e Corbyn, al di làdelle glosse che possono essere fatte sui discorsi dell’uno e dell’altro, mostra bene che dire la verità sul funzionamento delle società in cui viviamo è la unica vera novità che incide.
Fonte: criticamarxista.net
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