di Bia Sarasini
Allora, il femminismo. Se c’è una cosa chiara, imparata nel corso di una storia lunga, è che non esiste il femminismo, ci sono i femminismi. E non si tratta di un trucco, un modo per affrontare – o non affrontare – diversità di opinioni e posizioni. Si tratta piuttosto di riconoscere che il femminismo non è una visione monolitica, che una politica che parta dalle donne non porta necessariamente alle stesse conclusioni, alle stesse pratiche. Le pratiche sono molte, e differenti tra loro. Il difficile è capire che questo non significa arrendersi alla frammentazione, ma anzi rendere più efficace ciò che è in comune. E comprendere bene qual è la forza che ha trasformato non solo mentalità e cultura, ma anche le reali condizioni di vita delle donne.
Per questo ricomincio da capo. Dal femminismo. Da questa parola nata in Francia, che venne usata per sostituire il troppo connotato “suffragismo”, visto che le suffragette, all’inizio del Novecento, apparivano impresentabili, considerate troppo violente e isteriche nelle loro azioni.
La terza ondata del femminismo, tra fine anni sessanta e inizio anni settanta, ha ereditato quel nome, e ne ha dato una nuova versione, senza dimenticare la spinta dell’inedita liberazione sessuale resa possibile dalla pillola anticoncezionale. L’azione più nota delle femministe new wave riguarda il corpo, infatti. Un gesto audace e del tutto immaginario, cioè mai realmente accaduto. Parlo del rogo di reggiseni, che risale al concorso di bellezza di Miss America del 1969 ad Atlantic City, in cui alcune centinaia di femministe bruciarono sì le fasce del concorso, ma mai reggiseni, tantomeno togliendoseli pubblicamente. Eppure il reportage di una giornalista, che paragonò il loro gesto alle proteste dei ragazzi che bruciavano le loro cartoline-precetto per protesta contro la guerra in Vietnam, ha creato un epiteto – bra-burners – che è rimasto incancellabile. Un’azione che poi divenne vera altrove, e reggiseni furono innalzati come bandiere in molte manifestazioni. Oppure si può ricordare “donna è bello”, uno slogan basico, che parla del lavoro profondo messo in opera dal movimento, dai femminismi. Togliere le donne dal cono d’ombra dell’oppressione, della svalutazione, del vittimismo. Ma non tutto era semplice, e condiviso, neanche allora. E bisogna andare ancora più in profondità, per capire. Ricordare che c’è un asse concettuale e politico che ha sempre attraversato l’affermarsi dell’idea della necessità di donne libere. La polarizzazione tra uguaglianza e differenza. Le donne sono essere umani, e quindi soggetti di diritti come gli uomini, a cui sono uguali. Oppure sono differenti, visto che lo sono nel corpo? Quel corpo che è la matrice, la possibilità incarnata di essere madri? L’”Origine du monde” come dice il titolo del famoso quadro di Courbet? Non è il corpo delle donne, il centro di tutte le disuguaglianze? Non è proprio perché partoriscono che se ne è giustificata la collocazione nel mondo privato, nella famiglia? Non è per questo che i pensieri gerarchici, conservatori riescono meglio ad accogliere questa differenza?
La terza ondata del femminismo, tra fine anni sessanta e inizio anni settanta, ha ereditato quel nome, e ne ha dato una nuova versione, senza dimenticare la spinta dell’inedita liberazione sessuale resa possibile dalla pillola anticoncezionale. L’azione più nota delle femministe new wave riguarda il corpo, infatti. Un gesto audace e del tutto immaginario, cioè mai realmente accaduto. Parlo del rogo di reggiseni, che risale al concorso di bellezza di Miss America del 1969 ad Atlantic City, in cui alcune centinaia di femministe bruciarono sì le fasce del concorso, ma mai reggiseni, tantomeno togliendoseli pubblicamente. Eppure il reportage di una giornalista, che paragonò il loro gesto alle proteste dei ragazzi che bruciavano le loro cartoline-precetto per protesta contro la guerra in Vietnam, ha creato un epiteto – bra-burners – che è rimasto incancellabile. Un’azione che poi divenne vera altrove, e reggiseni furono innalzati come bandiere in molte manifestazioni. Oppure si può ricordare “donna è bello”, uno slogan basico, che parla del lavoro profondo messo in opera dal movimento, dai femminismi. Togliere le donne dal cono d’ombra dell’oppressione, della svalutazione, del vittimismo. Ma non tutto era semplice, e condiviso, neanche allora. E bisogna andare ancora più in profondità, per capire. Ricordare che c’è un asse concettuale e politico che ha sempre attraversato l’affermarsi dell’idea della necessità di donne libere. La polarizzazione tra uguaglianza e differenza. Le donne sono essere umani, e quindi soggetti di diritti come gli uomini, a cui sono uguali. Oppure sono differenti, visto che lo sono nel corpo? Quel corpo che è la matrice, la possibilità incarnata di essere madri? L’”Origine du monde” come dice il titolo del famoso quadro di Courbet? Non è il corpo delle donne, il centro di tutte le disuguaglianze? Non è proprio perché partoriscono che se ne è giustificata la collocazione nel mondo privato, nella famiglia? Non è per questo che i pensieri gerarchici, conservatori riescono meglio ad accogliere questa differenza?
È una polarizzazione mai risolta fino in fondo, attraversa tuttora la discussione politica. E teorica. Anche ora che la modernità ha concluso il suo ciclo, e ci consegna il caos di un’epoca che sembra non avere più categorie conoscitive e politiche in grado mettere ordine al mondo.
In effetti l’essere differenti delle donne fa fatica a essere inclusa nella logica astratta e formale della democrazia. La cittadina non è tuttora esattamente identica al cittadino. Non tutti i diritti sono disponibili nella stessa misura, a cominciare da quelli più squisitamente politici. Per questo si mettono in opera misure antidiscriminatorie, per esempio quella del doppio voto di genere.
Ma l’obiettivo del femminismo, di tutti femminismi, è la parità, il 50e50? Un governo, come quello attuale presieduto da Matteo Renzi, risolve dunque ogni problema? Una donna che potrebbe diventare presidente degli Stati Uniti, annulla ogni disparità? Per non parlare della cancelliera Angela Merkel, o della presidente del Fmi, Christine Lagarde? Una volta acquisito che le donne possono governare, gestire, lavorare, possono avere un’autonomia economica, non ci sono più lotte da portare a termine?
Negli anni settanta si opponevano due punti di vista, emancipazione e liberazione. Le femministe, puntavano al liberarsi delle donne, all’inedita autonomia di un soggetto differente, che per questo si liberava dal dominio patriarcale. L’emancipazione, dicevano – dicevamo – ci vuole uguali agli uomini. Ci fa diventare dei maschi, ma non realmente autonome, libere. Fu anche – non solo, le femministe erano di età diverse – un conflitto generazionale. Forse meglio dire un conflitto di esperienze storiche. La resistenza, i partiti, socialista e comunista sulla spinta – sempre molto osteggiata – delle loro militanti, puntarono all’emancipazione. Di questo scontro, ma anche incontro, ci furono alcuni punti di ricaduta molto alti. La legge sull’aborto, la 194, fra tutti. Scritta benissimo, frutto dell’incontro tra femminismo e donne dell’Udi, del Pci, del mondo cattolico. Una legge che contiene un principio che viene direttamente dall’esperienza e dall’elaborazione del movimento. Il principio di autodeterminazione della donna, il motivo per cui finora la legge finora ha resistito a tutti i ripetuti attacchi di varia provenienza.
Il punto più difficile, tuttora aperto, è quello delle differenze tra donne. Differenze di idee, differenze di visioni, ma anche differenze sociali, materiali. Negli anni settanta la scelta di gran parte del movimento si può sintetizzare in uno slogan diffuso: anche la moglie di Agnelli è una donna. Nel presente della crisi economica mai risolta, le disuguaglianze economiche, e di potere, attraversano le donne. Tra i femminismi, il materialismo ritrova una voce forte. A patto di non dimenticare il corpo, e l’autodeterminazione di un soggetto che non si può assimilare ad altri.
Articolo pubblicato sul fascicolo speciale I padroni dello spazio, allegato al Manifesto del 28 aprile 2016, in occasione dei 45 anni del giornale.
Fonte: Scenari Globali
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